Categoria: Approfondimenti

La ssrl convince gli startupper, fondate 3mila in quattro mesi

Ne sono state fondate più di 23 al giorno, 33 se si considerano anche quelle create da chi ha più di 35 anni. La ssrl, ovvero la società semplificata a responsabilità limitata, piace agli startupper italiani. Al punto che dallo scorso 29 agosto, quando è entrato in vigore il decreto 138 che le ha istituite, sono nate ben 4.162 "imprese a 1 euro". A renderlo noto è stato il Consiglio nazionale del notariato, che ha diffuso questi dati presentando a Roma 'L'arancia', piattaforma web creata con la collaborazione scientifica della Luiss per fornire agli aspiranti imprenditori strumenti e informazioni.Lanciata nel gennaio dello scorso anno come un mezzo per favorire i giovani interessati ad avviare un'azienda, la ssrl è diventata operativa solo ad agosto. Un ritardo legato alla necessità di definire un modello standard di statuto societario, un vero e proprio modulo da compilare di fronte al notaio, pensato per ridurre le spese di costituzione delle imprese. Per quanto, tra imposta di registro e bollatura dei libri contabili, gli aspiranti startupper devono comunque mettere in conto una spesa di circa 700 euro. Ma possono risparmiare sul capitale sociale, visto che basta 1 euro per costituire la società. Una scelta che hanno compiuto 2.941 imprenditori under 35, che hanno scelto la ssrl per dare vita alla propria azienda. Seguiti da 1.221 over 35 visto che, a giugno, il governo ha deciso di estendere anche a loro la possibilità di dar vita ad una società semplificata.La nascita di questa formula è stata accompagnata da molte voci scettiche, convinte che un'impresa con un capitale sociale ridotto non avrebbe potuto sopravvivere sul mercato. Secondo i critici, nessun fornitore si sarebbe fidato a vendere beni o servizi ad un cliente che, in caso di fallimento, non avrebbe avuto alcuna somma a garanzia dei creditori. «Le start-up hanno bisogno di capitali, ma non è quello sociale a fare la differenza», sottolinea però Alberto Onetti, professore associato di Economia e gestione delle imprese all'università dell'Insubria di Varese e presidente della fondazione 'Mind the bridge': «per partire bisogna ricorrere alle 'tre F', ovvero family, friends and fools, poi servono gli investitori, i fondi, i venture capitalist».In realtà, secondo Onetti, i 10mila euro di capitale sociale minimo richiesti per la srl tradizionale rappresentano un ostacolo allo sviluppo di nuove imprese. «Dalle statistiche di 'Mind the bridge' emerge come il 40 per cento delle start-up non sia costituita in impresa». Un fenomeno che si lega alla «sostanziale inadeguatezza dei precedenti strumenti societari per gestire progetti connotati da grande flessibilità e dinamismo». Sul futuro dei quali pesa una forte incognita: «Il classico strumento societario italiano è impegnativo in termini di costi, carichi fiscali e obblighi in caso di chiusura». Lo snellimento delle procedure «ci avvicina ai modelli anglosassoni. Questo è un passo nella direzione giusta».Ne è convinto anche Andrea Rangone, ordinario di Business strategy e di E-business al Politecnico di Milano, dove è anche responsabile dell'acceleratore di impresa Polihub. «Un gruppo di trentenni che ha un'idea imprenditoriale deve innanzitutto capire se può funzionare. E per farlo deve come prima cosa investire nel team. E se dopo tre mesi ci si rende conto che non ha senso continuare?». La necessità di un capitale sociale, anche di soli 10mila euro, rende non solo difficile creare una nuova impresa, ma complica anche la liquidazione in caso di insuccesso. «La verità è che molte start-up, almeno in ambito digitale, vivono sempre una situazione di limbo iniziale, durante la quale i fondatori investono personalmente per capire se il loro progetto è fattivo oppure no».I soldi, se arrivano, vengono solo in un secondo momento, «quando hanno dimostrato qualcosa». In questo periodo iniziale «invece di stare a fare scritture private, si prende e si fa, senza spendere tempo e risorse: se dopo tre mesi l'azienda non va bene si chiude, altrimenti se arrivano i soldi si va avanti». Ma non sono certo i 10mila euro di capitale sociale a cambiare il destino di una start-up.Lo sanno bene i giovani imprenditori under 35, che hanno scelto questa formula per dare vita alla propria azienda, sfruttando innanzitutto il fatto che per costituire la ssrl è necessario versare un capitale sociale che va dagli 1 ai 9.999 euro. Mentre per la più tradizionale srl la somma minima è di 10mila euro. Rispetto a quest'ultima, la società semplificata non richiede il pagamento dell'imposta di bollo (65 euro), dei diritti di segreteria (92,60 euro), né degli oneri notarili (tra i 600 e gli 800 euro) grazie all'introduzione di un modello standard di statuto societario, un modulo che deve essere semplicemente compilato con i datianagrafici dei soci. Infine, anche in risposta alle critiche, il governo ha deciso che il 25% degli utili dovrà essere utilizzato per costituire un capitale sociale almeno fino a che non venga raggiunta la somma di 10mila euro. Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi saperne di più sulla società semplificata a responsabilità limitata? Leggi anche:- Tra burocrazia e ritardi, l'impresa a 1 euro resta ferma al palo- Che fine ha fatto l'impresa a 1 euro per i giovani? Incagliata nella burocrazia- Imprenditoria giovanile, ecco chi la sostiene- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireE anche:- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impres

Riforma forense: un'occasione mancata per tutelare i praticanti?

Poco prima di Natale è stata approvata in via definitiva dal Senato la riforma forense. Per la prima volta negli ultimi 80 anni vengono modificate delle norme fondamentali che regolano l’accesso alla professione di avvocato e il suo esercizio. Numerose le novità in tema di praticantato: innanzitutto, la durata del tirocinio è ridotta da 24 a 18 mesi, accogliendo espressamente quanto già previsto in materia dal decreto liberalizzazioni (convertito nella legge 27 del marzo 2012). Inoltre, la legge menziona la possibilità di riconoscere un compenso ai praticanti avvocati. Già prima dell’approvazione definitiva al Senato, tuttavia, la formulazione della legge ha dato adito a numerose critiche: il compenso per i giovani tirocinanti, infatti, non è obbligatorio e scatta solo dopo i primi 6 mesi di pratica negli studi. A conti fatti sembrerebbe quasi che, per due passi avanti, la riforma ne faccia almeno uno indietro nella tutela dei giovani che cercano di accedere alla professione forense. Il passaggio più controverso sta nel comma 11 dell’articolo 41, in cui si legge: «Ad eccezione che negli enti pubblici e presso l’Avvocatura dello Stato [per i quali sono previste norme specifiche illustrate di seguito, NdR], decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato». Bisogna tenere presente che, sino al decreto liberalizzazioni prima e alla riforma forense poi, nessuna legge aveva mai contenuto alcun riferimento a un compenso per i praticanti avvocati, sebbene il Codice deontologico di categoria sancisca da più di 15 anni la necessità di adottare questa buona pratica. Ma questa considerazione non è sufficiente ad esimere la nuova normativa dalle critiche; anzi, a maggior ragione la si può ben considerare come un’occasione perduta per evitare lo sfruttamento dei giovani praticanti negli studi legali.L’articolo 41, infatti, non istituisce alcun obbligo. Si limita a riconoscere che gli studi “possono” riconoscere un compenso ai tirocinanti. Eppure nel decreto liberalizzazioni si sanciva testualmente che «al tirocinante è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi 6 mesi di tirocinio», individuando un dovere ben preciso da parte degli studi. Possibile che la riforma forense faccia un passo indietro rispetto alla legge sulle liberalizzazioni? Per risolvere la questione bisognerà probabilmente attendere una circolare esplicativa che potrebbe arrivare presto dal Consiglio Nazionale Forense.Nel frattempo, però, la scelta dei termini fa riflettere. Lo stesso articolo 41 della riforma forense, infatti, sancisce una volta per tutte che i praticanti avvocati abbiano diritto, questo sì, a un pieno rimborso delle spese sostenute per conto dello studi. La riforma sembra quindi scorporare il rimborso spese dal compenso.La questione ricorda il dibattito ospitato dalla Repubblica degli Stagisti ai tempi dell'approvazione del decreto liberalizzazioni. Il precedente decreto legge 138/2011, la manovra di Ferragosto, aveva già introdotto il concetto di equo compenso per i tirocinanti. Il decreto liberalizzazioni lo sostituì con il termine "rimborso spese". I pareri degli esperti si divisero: ci fu chi disse che non sarebbe cambiato molto, e chi invece lamentò un passo indietro nella legge. Oggi gli sviluppi sembrano dare ragione a questi ultimi: approfittando dell'ambiguità del decreto liberalizzazioni, la riforma forense riconosce sì l'obbligo di rimborsare le spese ai praticanti. Ma al tempo stesso coglie l'occasione per eliminare quasliasi possibile dovere, da parte degli studi legali, di pagare i tirocinanti in rapporto all'attività svolta.Peggio ancora, questa possibilità scatta solo dopo il primo semestre di attività, coerentemente con quanto anticipato nel decreto liberalizzazioni. Insomma, sembra che per legge uno studio privato non possa pagare i propri praticanti, per i primi 6 mesi di tirocinio, neanche se i soci lo desiderano con tutto il cuore. Questa interpretazione è stata confermata a Marianna Madia dal ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione Filippo Patroni Griffi, in risposta a un'interrogazione parlamentare che la giovane deputata Pd aveva presentato sette mesi fa proprio a partire da un articolo della Repubblica degli Stagisti sul tema del decreto liberalizzazioni e del compenso per i praticanti: «La norma rinvia la determinazione dell'importo del rimborso per l'attività svolta dal tirocinante al libero accordo delle parti, che non può comunque essere erogato nei primi sei mesi di tirocinio», dichiara nero su bianco il ministro. Andando forse persino al di là del suo perimetro di competenze.Ma resta pur sempre il parere di un componente del governo in carica e poichè la formulazione del decreto liberalizzazioni e della riforma forense sono pressochè equivalenti, è lecito pensare che un'interpretazione simile possa essere valida, per estensione, anche per il compenso dei praticanti avvocati che svolgano il tirocinio professionale presso studi privati.Per di più, nel conteggio finale si deve anche tenere conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte dei giovani. Significa forse che se un praticante fa una telefonata dallo studio bisognerà scalargli il costo della stessa dal compenso finale? E se usufruisce del riscaldamento durante l’inverno, i soci potranno trattenergli parte della bolletta del gas dallo stipendio? Gli esempi, ovviamente, sono paradossali; ma in teoria, se si interpreta estensivamente la legge, non fanno una grinza.Meno controversi i punti sulla durata del tirocinio e sulle sue modalità di svolgimento. Su un totale di 18 mesi, il primo semestre può iniziare già durante l’ultimo anno del corso di laurea. Inoltre il praticantato può essere portato avanti, per un massimo di 12 mesi, anche negli uffici legali degli enti pubblici, negli uffici giudiziari e presso l’avvocatura dello Stato. Tutte queste strutture riconoscono per legge al praticante avvocato un rimborso per l’attività svolta... ma solo ove previsto dai rispettivi ordinamenti e nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente. Insomma, se non ci sono i fondi o se l’ente stesso stabilisce che i praticanti non vadano pagati, i giovani aspiranti avvocati si ritroveranno ancora una volta a lavorare gratuitamente anche per un anno.Di positivo c’è che comunque la legge permette espressamente ai praticanti di sbarcare il lunario svolgendo, contestualmente al tirocinio, anche un’attività di lavoro subordinato pubblico o privato. Ovviamente in assenza di conflitti di interessi o di orari rispetto al praticantato stesso.Critico il giudizio che Dario Greco, presidente dell’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga), affida alla Repubblica degli Stagisti: «Il periodo di pratica negli studi è indispensabile per colmare il deficit formativo delle università. Il problema, però, è che spesso il tirocinio si trasforma in un periodo di manovalanza e non tutti gli studi offrono un compenso ai giovani, in termini economici o di competenze. La riforma rappresenta un’occasione mancata per offrire maggior tutela non solo ai praticanti, ma anche ai giovani che hanno completato il tirocinio e che non hanno un proprio studio e lavorano come collaboratori. Questa categoria vive in una vera e propria “terra di nessuno” priva di qualsiasi garanzia: non sono pochi i casi di avvocati 35enni o 40enni licenziati dalla sera alla mattina senza alcun paracadute, Tfr o ammortizzatore sociale».Secondo Greco, inoltre, «è paradossale che la norma introduca un obbligo costante di formazione continua e aggiornamento per gli avvocati, salvo poi esentare proprio gli ultrasessantacinquenni e gli iscritti all’albo da oltre 25 anni [oltre ai docenti, ai ricercatori universitari, a coloro che ricoprono cariche con funzioni legislative e ai sospesi dall’albo, NdR]. Possibile che un anziano professionista over-60 abbia minore bisogno di aggiornarsi rispetto a un giovane fresco di studi e con una buona propensione di base all’uso degli strumenti informatici?».A molte di queste domande dovrebbe presto rispondere una circolare esplicativa della legge ad opera del Cnf. Nel frattempo, però, il dubbio che la riforma rappresenti un’occasione sprecata per tutelare i giovani avvocati sembra quasi più una certezza, ed è tanto più grave se si considera che in media, in Italia, ci sono ogni anno più di 30mila praticanti avvocati che si presentano all'esame di Stato (e circa il 30% riesce a superarlo). Stando a dati Almalaurea, il 75% degli studenti che hanno conseguito una laurea specialistica in giurisprudenza e l'85% di di chi ha una laurea a ciclo unico decide, a un anno dalla fine degli studi, di effettuare il tirocinio. Attualmente gli avvocati iscritti all'albo sono circa 247mila in tutta Italia: uno ogni 246 abitanti. di Andrea Curiat  Se vuoi saperne di più su questo argomento, leggi anche:  - Praticanti, il decreto liberalizzazioni ha introdotto l'obbligo del compenso: e l'Inps si adegua- Equo compenso addio: per Confprofessioni «non cambia molto», ma per i praticanti sì- Sulla gravità della violazione del codice deontologico forense da parte degli enti pubblici- La testimonianza di Francesca Esposito: «Ho interrotto il mio praticantato presso l'Inps perchè non mi davano un euro»

Disoccupazione giovanile: alla ricerca dell'età più rappresentativa

Sul tema della disoccupazione giovanile è il caso di fare un po’ di chiarezza. Come la Repubblica degli Stagisti ha spiegato in un articolo di qualche mese fa, quando i giornali e le televisioni diffondono la notizia secondo cui un terzo dei giovani tra i 15 e i 24 anni è senza lavoro riportano un’informazione solo parziale. Innanzitutto, e giustamente, questo dato esclude l’ampia fetta di popolazione che tra i 15 e i 24 anni studia ancora: non considera cioè i giovani che effettivamente non stanno cercando lavoro perché ancora a scuola o all’università, conteggiati tra gli inattivi.Poi non è forse sufficientemente chiaro che quando si parla di un terzo dei disoccupati in quella fascia di età ci si riferisce al tasso di disoccupazione, ovvero all’incidenza di quanti sono realmente in cerca di lavoro sul totale della forza lavoro, che non include tutti i cittadini italiani, bensì solo gli occupati e coloro che sono attivamente in cerca di occupazione. Il tasso di disoccupazione è la percentuale che viene diffusa mensilmente dall’Istat e l’ultimo dato conosciuto è quello di novembre 2012, pari al 37,1%.Sul totale della popolazione nella fascia d’età 15-24, invece, i giovanissimi in cerca di lavoro a novembre 2012 sono 641mila, ovvero solo il 10,6% del totale, poco più di un decimo. Affermare dunque che un giovane su tre è “senza lavoro” è fuorviante. Nei titoli di giornale sarebbe più corretto strillare “uno su tre, tra i giovani in cerca di lavoro, non lo trova”. «I media spesso privilegiano i titoloni alla precisione e completezza dell’informazione» spiega alla Repubblica degli Stagisti Francesca Della Ratta, ricercatrice dell’Istat. «Noi cerchiamo di evitare che diffondano presso l’opinione pubblica informazioni inesatte. A tal fine da qualche tempo, nel nostro comunicato stampa, indichiamo sia il tasso di disoccupazione sia la percentuale dei giovani senza lavoro sulla popolazione totale nella corrispondente classe d’età». Ci si può tuttavia chiedere perché l’Istat prenda in esame questa fascia d’età per fotografare la situazione occupazionale dei giovani. In Italia, ancor più che nel resto d’Europa, questa fetta di popolazione sembra poco indicativa dal punto di vista lavorativo sia perché ancora moltissimi sono inseriti in percorsi di istruzione, sia perché nel nostro Paese si diventa adulti (cioè indipendenti dal punto di vista economico) ben più tardi dei 24 anni. E allora l’Istat, per i suoi comunicati mensili, non potrebbe fare riferimento a una fascia d’età giovanile che più realisticamente sia alle prese con la ricerca di un inserimento lavorativo, tra i 18 e i 29 anni o tra i 18 e i 35 anni? «La fascia d’età 15-24 è uno standard europeo per il tasso di disoccupazione, per questo lo utilizziamo nei nostri comunicati mensili» continua la Della Ratta, ricordando però che «su base trimestrale esistono altri dati per i giovani tra i 25 e i 34 anni e per quelli tra i 18 e i 29 anni». Effettivamente, nella banca dati Istat, è possibile reperire tutte le statistiche relative alle diverse fasce d’età, ma solo ogni tre mesi.«Il fatto più importante da considerare è che, indipendentemente dalla fascia d’età che vogliamo considerare, tra 8 e 11 giovani, su 100 che cercano lavoro, non riescono a trovarlo» spiega Donato Speroni, giornalista economico ed ex dirigente dell’Istat. «I media danno un risalto eccessivo al dato mensile dei disoccupati tra 15 e 24 anni, ma non credo che sia difficile per l’Istat calcolare la fascia tra i 18 e i 29 anni, più indicativa, e includere i dati nel comunicato mensile». Speroni aggiunge che «in tutti i paesi sviluppati la stragrande maggioranza dei giovani fino a 24 anni non lavora, quindi può darsi che la scelta di questa età convenzionale sia anche il frutto di un’arretratezza europea». E c’è un’altra considerazione da non sottovalutare. Dando risalto solo ai dati  sulla disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni, i media rischiano di danneggiare coloro i quali hanno un’età compresa tra i 25 e i 35 anni, doppiamente esclusi: sia dal mondo del lavoro sia dalle statistiche. Considerati già vecchi dagli istituti di statistica (su cui spesso si basano le politiche di un Paese) eppure senza la possibilità di entrare stabilmente nel mondo del lavoro a causa della crisi. Stando a quanto risulta alla Repubblica degli stagisti, l'Istat, nelle sue più recenti rilevazioni, ha introdotto una domanda per risalire al numero di stagisti in Italia, ma il dato è ancora in corso di verifica, cioè i tecnici devono valutare se ha qualche consistenza numerica oppure no, anche in relazione con altre fonti. Il dato dovrebbe riferirsi solo gli stagisti non retribuiti. Francesca Della Ratta afferma di non poter rispondere su questo punto, ma dichiara che «Eurostat ha stabilito che gli stagisti con rimborso spese o buono pasto, quindi anche con corrispettivo non monetario, devono essere considerati tra gli occupati a tempo determinato». Gli altri, fino ad oggi, sono stati considerati disoccupati o inattivi a seconda che abbiano o non abbiano cercato attivamente lavoro nella settimana di riferimento. Esistono però anche casi di stagisti considerati fino ad oggi tra gli occupati qualora abbiano svolto almeno un’ora di lavoro pagato nella settimana di riferimento: anche se magari si trattava solo del lavoretto serale per pagarsi lo stage senza compenso.Se e quando sarà diffuso, il dato sugli stagisti riguarderà solo quelli sfruttati al 100%, ma non la gran massa di tirocinanti che ha la fortuna di avere almeno un rimborso spese. Ma come si fa a considerare occupati ragazzi che vivono a Milano o a Roma, dove solo l’affitto costa 500 euro, e ricevono 300-400 euro al mese di rimborso spese o, magari, solo un buono pasto al giorno? Considerare gli stagisti come una nuova entità autonoma delle statistiche è un passo importante, ma ci sarà da discutere sui criteri per entrare a far parte di questa entità. Un’ultima considerazione è di Donato Speroni, che sottolinea la  necessità di mettere in evidenza il divario percentuale tra giovani uomini e giovani donne con un lavoro: «Quelli sulle donne e sul Mezzogiorno sono dati veramente impressionanti, che meriterebbero un’accurata riflessione». Tra i 18 e i 29 anni il tasso di occupazione, ovvero la percentuale di occupati sull’intera popolazione, è del 45,8% per gli uomini e del 33,7% per le donne nel terzo trimestre del 2012. Nel Mezzogiorno il dato è del 33,7% di uomini e del 21,2% di donne occupate. Anche tra i 25 e i 34 anni è molto preoccupante il dato del 34,5% di donne meridionali occupate. Il tasso di disoccupazione tra i 18 e i 29 anni è del 22% su base nazionale e del 36,1% tra le donne del sud Italia.La corretta raccolta, diffusione e interpretazione mediatica dei dati sulla disoccupazione giovanile è importante e su di essa si giocherà buona parte della campagna elettorale in vista delle politiche di febbraio. Il problema dell’accesso dei giovani al mondo del lavoro dovrebbe essere il principale tema del dibattito politico. Sarà così? La Repubblica degli stagisti farà la sua parte e vigilerà sulla correttezza dei dati statistici diffusi e sulla credibilità delle promesse dei politici.Antonio SiragusaPer saperne di più su questo argomento leggi anche:-  In Italia un giovane su tre è senza lavoro. Ma è davvero così?- Cresce la disoccupazione giovanile europea. Scarpetta, dirigente Ocse: «necessari più sussidi per i precari»-  Linee guida sugli stage, 400 euro al mese di rimborso «obbligatorio»: ma solo in teoria- La Corte costituzionale annulla l'ultima legge sugli stage: «Solo le Regioni competenti in materia»   

Milano capitale delle start-up grazie a Polihub e Tag Milano

Per decenni è stata definita la capitale morale d'Italia. Oggi Milano si candida a un ruolo di guida per l'ecosistema italiano delle start-up. E questo grazie a due iniziative nate a poche settimane di distanza all'ombra della Madonnina: PoliHub, acceleratore di impresa promosso dal Politecnico di Milano e Tag Milano, la «casa dell'innovazione» promossa a questo indirizzo da Startupbusiness e Talent Garden.«Il nostro tentativo è quello di condensare nella stessa area molte imprese leader nei loro settori, creando un humus fertile che consenta di sviluppare sinergie e favorisca un apprendimento complessivo», spiega il professor Andrea Rangone [nella foto sotto], delegato dal rettore per il progetto Polihub, «il modello è quello dei distretti industriali, che vogliamo trasferire nel settore hi-tech». A questo si affianca un vero e proprio incubatore, con una corsia preferenziale per le spin-off universitarie e per le start-up. L'obiettivo è quello di arrivare ad accogliere 150 aziende entro i prossimi tre anni. Ed è per questo che il Politecnico ha stanziato 3 milioni di euro.Soldi che verranno impiegati per realizzare la struttura e per i costi di gestione, ma che non saranno erogati alle start-up, che anzi dovranno pagare per essere incubate un canone definito sulla base degli spazi richiesti. L'incubazione durerà tre anni, periodo durante il quale PoliHub metterà a disposizione oltre ad una scrivania anche spazi comuni, sale di rappresentanza, attività di mentorship, corsi e incontri con imprenditori e rappresentanti dei fondi di venture capital.Sono tre i canali di accesso: uno è quello riservato a start-up che abbiano già ricevuto un primo finanziamento, in virtù del quale possono entrare di diritto all'interno dell'incubatore per definire la struttura aziendale e sviluppare l'attività. Il secondo è quello legato ai progetti nati nell'ambito dell'attività di ricerca svolta all'interno del Politecnico che cercano uno spin-off, ovvero uno sviluppo di natura imprenditoriale.La terza via, per le imprese che non rientrino in nessuna di queste due categorie, è semplicemente quella di presentare una richiesta, che sarà valutata sulla base «dell'attrattività, del gruppo imprenditoriale e della coerenza con il resto della struttura». Nei 5mila metri quadrati ricavati nella sede di Bovisa dell'università troveranno infatti spazio start-up legate ai settori delle nuove tecnologie digitali, i nuovi media, i dispositivi medicali, le tecnologie green, l'efficienza energetica, l'aerospazio e il disegno industriale.A pochi chilometri di distanza, Startupbusiness e Talent Garden mettono invece a disposizione degli startupper una struttura da tremila metri quadrati in cui dare vita a quello che le due realtà non esitano a definire come l'«ecosistema perfetto». L'idea di fondo, infatti, è quella di non limitarsi semplicemente ad ospitare le start-up, ma potranno trovare casa anche freelance, agenzie, venture capitalist, incubatori, acceleratori d'impresa e media. Nella convinzione, si legge in una nota, che «solo con la contaminazione reciproca possiamo far nascere e accelerare l'ecosistema dell'innovazione».Aperto 24 ore su 24, con 250 postazioni di lavoro suddivise tra salette private e spazi in coworking, 25 sale riunione, Tag Milano si pone l'obiettivo di riuscire ad attirare imprenditori da tutta l'area euromediterranea. I servizi offerti vanno dall'affitto di uno spazio in coworking per una giornata a 25 euro ai 250 euro mensili per una scrivania a disposizione tutti i giorni, fino alle sale per gli eventi, disponibili ad un costo compreso tra i 25 ed i 200 euro più Iva a seconda delle dimensioni. Ad oggi l'intero primo piano, con 60 postazioni, è stato completamente affittato. Per arrivare a riempire l'intero edificio, si lavora unendo le competenze di queste due realtà, attive da tempo in settori diversi ma complementari. Startupbusiness è una piattaforma web nata nel 2008 che accoglie oggi oltre 3700 iscritti tra protagonisti a vario titolo dell'ecosistema italiano, mentre Talent Garden gestisce una rete di coworking campus dedicati all'ambiente digitale, con sedi a Brescia, Bergamo, Padova e Torino.A queste realtà si sono aggiunte Frontiers of Interaction, realtà che dal 2005 promuove conferenze dedicate all'innovazione, e Alfredo Cazzola, noto imprenditorie bolognese nonché proprietario dell'immobile che ospita Tag Milano. «Crediamo che una delle capitali europee delle startup abbia bisogno di un luogo di questo tipo per poter fare sistema ed emergere a livello internazionale», spiega Davide Dattoli, cofondatore di Talent Garden, «un campus di queste dimensioni ha tutte le potenzialità per accogliere media e venture capitalist da tutta Europa». E dare una dimensione internazionale a Milano, capitale italiana dell'ecosistema start-up.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi saperne di più sugli incubatori d'impresa? Leggi anche:- H-Farm. Boox e Nanabianca, un'«alliance» per sostenere le start-up- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano

Prima che una storia di start-up, quello di Aurelian Vacariuc è un racconto di integrazione: «sono arrivato a Torino dalla Romania con la mia famiglia quando avevo tredici anni. Qui ho studiato, mi sono diplomato al liceo scientifico e mi sono laureato in informatica». Il tutto, ricorda, senza subire particolari forme di discriminazione, se non quelle imposte dalla burocrazia italiana. «Quando ho terminato le superiori vedevo che alcuni miei compagni si prendevano un anno sabbatico. Io, invece, avevo il permesso di soggiorno e dovevo continuare a studiare, altrimenti lo avrei perso». All'epoca, era il 2003, la Romania non faceva parte dell'area Schengen e quindi avrebbe rischiato l'espulsione. Invece ha continuato a studiare prima e a lavorare poi finché, trascorsi dieci anni dal suo arrivo in Italia, ha chiesto la cittadinanza. «Ci sono voluti due anni di burocrazia, ma alla fine l'ho ottenuta. Dodici anni dopo essere arrivato».Oggi Vacariuc ha 28 anni e oltre al passaporto italiano ha anche un lavoro come consulente informatico a partita Iva. E due start-up. La prima è We-sport.com, un «social network per gli sportivi» fondato nel 2010 insieme a Marco Iacuaniello, un suo compagno di scuola, e da un amico di lui, Marco Ivaldi (32). Si tratta di una srl della quale è socio non operativo che nei primi due anni di vita è riuscita ad attirare una sponsorizzazione da 100mila euro da parte di Parmalat ed un finanziamento da 30mila euro concesso da Fortras, società di consulenza di Udine. Anche se l'occasione per sviluppare le sue capacità imprenditoriali l'ha sfruttata lo scorso anno, quando si è trovato a dover fare il tagliando della propria auto. «Nello stesso periodo un mio collega, Fabio Petitti (37), aveva la necessità di una riparazione in carrozzeria». Da buoni informatici, si sono mossi su Internet, cercando un'offerta vantaggiosa.«Abbiamo trovato solo piattaforme statiche. Ci siamo detti che avremmo potuto realizzare un portale in cui trovare tutte le officine in modo dinamico, ovvero potendo interagire e chiedere direttamente a loro un preventivo». E così è nata RiparAutOnline: l'idea è arrivata ad agosto del 2011, già da settembre i due hanno iniziato a lavorare sul portale. Anche se, formalmente, la società ancora non si è costituita. Sì, perché Vacariuc e Pettiti, insieme a Michele Potenza (27) un altro collega che entrerà da socio operativo come responsabile marketing e comunicazione, hanno deciso di dare vita ad una ssrl, la società semplificata a responsabilità limitata. Promessa a gennaio 2012 dal governo, è diventata operativa solo a metà agosto con l'approvazione dei decreti attuativi. «Questo per noi è stato un problema: volevamo partire il prima possibile e invece abbiamo dovuto aspettare otto mesi», l'ennesimo intoppo della burocrazia italiana nella vita di questo startupper.E del resto questa attesa era necessaria: «a noi non servono tanti soldi, se non per il marketing». Il capitale versato sarà di 1 euro, come permesso per la ssrl, tutti gli aspetti operativi continueranno ad essere gestiti dai tre soci. Tanto più che «non abbiamo molti liquidi da investire». Il meccanismo per arrivare a fatturare è molto semplice: «le officine pagheranno per acquistare dei crediti tramite i quali possono pubblicare delle offerte e rispondere alle richieste di preventivo».E questo è esattamente quello che fa RiparAutOnline: «siamo un servizio di pubblica utilità che permette di risparmiare sui costi di manutenzione dei veicoli». Attraverso questo portale è possibile entrare in contatto gratuitamente con oltre 2mila officine in tutta Italia, richiedere preventivi e valutare le loro offerte. Oltre alle spese di registrazione del sito, poche decine di euro, e a «tante nottate di lavoro», i tre futuri soci hanno speso 3mila euro, frutto dei loro risparmi, per farsi conoscere. «Abbiamo fatto campagne pubblicitarie su Facebook e su Google, per un paio di mesi anche su una radio locale torinese. E poi ci siamo impegnati molto sui forum e su Yahoo!Answers». Rispondendo con il link al proprio sito a chiunque chiedesse indicazioni su offerte per riparare l'auto.Ad aprile questa start-up è entrata in Treatabit, incubatore per aziende web del Politecnico di Torino. «Paghiamo 200 euro a trimestre per una serie di consulenze, soprattutto per la ricerca di partner e investitori». Per il salto di qualità, una volta fondata la ssrl, «stiamo cercando tra i 10 ed i 20mila euro da spendere per il marketing». Ma anche per assumere una persona da impiegare nello sviluppo del sito e per affidare ad un call center il compito di contattare tutte le officine d'Italia. Stando ai dati Autopromotec ne esistono 71mila e il cammino per registrarle tutte sul portale è ancora molto lungo.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Tekné Italia, quando la tradizione si fa start-up- A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo- Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati- Una startupper sarda negli States: «Qui conta il merito. Ma si può fare anche in Italia»- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresaVuoi saperne di più sulla ssrl? Leggi anche:- Che fine ha fatto l'impresa a 1 euro per i giovani? Incagliata nella burocrazia- Tra burocrazia e ritardi, l'impresa a 1 euro resta ferma al palo- Impresa a 1 euro, dopo otto mesi la promessa del governo è finalmente realtà

Tiny Bull studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game

«All'inizio eravamo i classici nerd che lavorano fino a tardi nello scantinato di casa. Io e il mio socio, Rocco Tartaglia, ci siamo laureati il 7 aprile 2011 e il 9 eravamo già al lavoro sulprimo videogioco». Matteo Lana, classe 1985, ricorda così gli inizi, poco più di un anno e mezzo fa, dei Tiny Bull studios, l'azienda di mobile game che è appena stata eletta start-up dell'anno di Treatabit, incubatore digitale nato all'interno del Politecnico di Torino 12 mesi fa. Tutto comincia da una passione comune e dalla voglia di trasformarla in qualcosa che possa anche dare da mangiare: «Sia io che Rocco siamo torinesi. Ci siamo conosciuti qui, al corso di laurea specialistica in Realtà virtuale e multimedialità dell'università. Abbiamo iniziato a preparare insieme gli esami e, visto che ci trovavamo bene e condividevamo la stessa passione per i videogame, dopo la tesi abbiamo deciso di lavorare a un progetto comune», continua Matteo, che oggi è amministratore dell'azienda. L'avventura inizia con l'idea di creare giochi per le Xbox, le console casalinghe: «Ma dopo due-tre mesi di entusiasmo, abbiamo capito che progettare questi videogame era troppo complicato: dovevamo ridimensionarci». Da lì il salto verso i dispositivi mobili iOS (iPhone, iPod touch, iPad), con giochi «ispirati a quelli classici ben conosciuti, con l'aggiunta di elementi innovativi». La vera svolta però arriva con l'ingresso in Treatabit: «Un amico mi ha parlato dell'incubatore del Politecnico I3P. Siamo andati a presentare la nostra idea, che è piaciuta, anche se quello non era il posto adatto, perché ospita imprese non digitali. Per fortuna, proprio in quel momento stava nascendo uno spazio pensato per le start-up come la nostra. Lì un consulente ci ha aiutato nella stesura di un business plan: per noi, laureati in informatica e con zero conoscenze di economia, è stato una manna dal cielo». A maggio scorso è arrivato il primo gioco: «Si chiama Space Connect ed è ispirato a Forza quattro. Quando l'abbiamo messo sull'App Store, nelle prime 24 ore è stato scaricato mille volte, e adesso abbiamo un migliaio di download a settimana. Tutto questo senza fare nessuna pubblicità, perché il nostro budget è molto limitato». Per avviare una start-up digitale, spiega Matteo, non servono grossi investimenti: «Per adesso abbiamo investito meno di 10mila euro. La spesa principale, circa 7mila, è stata quella per comprare i software: due licenze di Unity3D, programma per sviluppare i  giochi, più una suite di software grafici come Illustrator e Photoshop. Grazie a Treatabit abbiamo a disposizione uno spazio di lavoro stimolante a un prezzo vantaggioso: una postazione di lavoro in co-working costa meno di 62 euro al mese». L’incubatore offre anche consulenze di avvocati, notai e commercialisti a prezzi scontati del 50 per cento e il supporto costante di un tutor. La società vera e propria sarà costituita solo a gennaio: «Treatabit ospita idee più che società e lascia il tempo per svilupparle al meglio prima di fare business. In questi giorni stiamo scrivendo lo statuto. Abbiamo scelto la forma della Srl, per iniziare a strutturarci "guardando al futuro", nell'ottica di diventare una software house affermata con la relativa complessità finanziaria e di risorse umane, e per dare un'immagine più credibile della nostra società a possibili investitori, potenziali clienti e, se ce ne fosse bisogno, alle banche. Inoltre, per accedere a bandi o finanziamenti è spesso richiesta una società di capitali». Se l'investimento finanziario per adesso è stato contenuto, non si può dire altrettanto dell'impegno personale: «Oggi siamo in tre, io e il mio socio Rocco, sviluppatori, più Arianna Ciardi, grafica. Lavoriamo tutti i giorni, dal lunedì alla domenica, dalle 9 del mattino a mezzanotte. Non sarebbe difficile trovare un lavoro dipendente, ma se vuoi qualcosa di tuo devi lavorare tanto per costruirlo». A costo, i primi anni, di tirare la cinghia e rimanere, come Matteo, a vivere con i genitori: «In media una start up digitale impiega almeno due anni per iniziare a guadagnare: il primo si va in perdita, il secondo di solito si raggiunge il pareggio. È quello che contiamo di fare anche noi. Il nostro gioco sull’App Store costa 1,59 euro, ma in tasca ci arrivano 40 centesimi. Per un introito ragionevole dovremmo avere almeno 200 o 300 download al giorno». Nella competizione per “Start-up dell’anno”, i Tiny Bull studios hanno sbaragliato una trentina di aziende concorrenti, tutte con progetti già attivi. Non c’è un premio in denaro, ma la visibilità è assicurata, anche perché «a I3P e Treatabit viene spesso gente interessata a conoscere le imprese e si organizzano diversi eventi di presentazione a potenziali investitori e business angel». In questo momento, continua Matteo, si lavora a due nuovi giochi: «Uno è il classico runner infinito a scorrimento, in cui il personaggio deve destreggiarsi tra mille ostacoli per arrivare il più lontano possibile. Nell'altro, invece, c'è un virus letale che colpisce l'umanità: l'unico modo per salvarti è usare il tuo cellulare, che vede dentro il tuo corpo e ti permette di eliminare le cellule malate». Accanto allo sviluppo di questi mobile game, che saranno lanciati nel 2013, è nata la collaborazione con un'altra start-up di Treatabit, SportSquare, che realizza giochi per Facebook. «Il nostro obiettivo, in realtà, sarebbe riuscire a campare solo con i nostri videogame, senza lavorare per altre aziende nostre clienti, che comunque è molto interessante». A Treatabit nascono continuamente nuove partnership come questa e c'è un tutor, di solito un ex dottorando o un professionista con esperienza di imprese digitali, che segue gli startupper in ogni passo: «dal marketing alla banca. Le prime volte ti accompagna anche dagli investitori!». Che per adesso, però, Lana e Tartaglia non hanno neanche cercato: «Il nostro sogno è farcela da soli».   Veronica Ulivieri   Vuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche: - Tekné Italia, quando la tradizione si fa start-up- Ploonge, la start-up per tuffarsi nella vita notturna- A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo- Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa    

2012, il meglio della Repubblica degli Stagisti

Un altro anno è passato. Un anno intenso, forse il più intenso da quando la Repubblica degli Stagisti esiste: l'anno in cui il tema dell'occupazione giovanile, dello sfruttamento dei precari, delle retribuzioni sotto la soglia della dignità è salito prepotentemente alla ribalta.  L'anno della riforma Fornero, di cui la RdS ha seguito l'iter passo dopo passo. L'anno di uscita del nuovo libro del direttore di RdS, Eleonora Voltolina, evocativamente intitolato Se potessi avere mille euro al mese. Un anno funestato dalla crisi economica, dalla chiusura di molte imprese e dalla riduzione di personale effettuata in molte altre. Un anno in cui la disoccupazione tra i giovani (e non solo) ha toccato tassi da record.  Il 2012 si chiude però con una speranza: che il rinnovamento del Parlamento e dei consigli regionali di alcune delle Regioni più importanti d'Italia, previsto per i primi mesi del 2013, porti tanti nuovi giovani in politica. Giovani in grado di mettere e mantenere in agenda il tema delle condizioni contrattuali e salariali dei propri coetanei, e agire perché meritocrazia, opportunità e ricambio generazionale non siano più soltanto frasi fatte di cui i soliti noti si riempiono la bocca nei talk-show di prima serata.Nell'attesa, ripercorriamo insieme un anno di Repubblica degli Stagisti attraverso 12 articoli: notizie, approfondimenti, editoriali per informare, sostenere, difendere i giovani italiani.GENNAIO - La Toscana approva la nuova legge sugli stage: per la prima volta in Italia il rimborso spese diventa obbligatorio - di Eleonora Voltolina (leggi)FEBBRAIO - Comune di Napoli, l'assessore: «I soldi per gli stagisti dell'anno scorso non ci sono» - di Marianna Lepore (leggi)MARZO - Riforma del lavoro, inutile senza quella degli stage  - di Eleonora Voltolina (leggi) APRILE - False partite Iva, con la riforma 350mila sono a rischio assunzione... o estinzione  - di Ilaria Costantini (leggi) MAGGIO - Come far contare di più i giovani in politica? - di Alessandro Rosina (leggi) GIUGNO - Presidente Napolitano, la dignitosa retribuzione è un diritto costituzionale anche per i giovani  - il discorso di Eleonora Voltolina di fronte al presidente della Repubblica (leggi) LUGLIO - Mae-Crui, il ministero degli Esteri avrebbe già i fondi per l'indennità agli stagisti: ecco dove  - di Eleonora Voltolina (leggi) AGOSTO -  Stage negli enti pubblici, il ministro Patroni Griffi: «Per il momento niente rimborso» - di Giulia Cimpanelli (leggi) SETTEMBRE - Superstage calabresi, la storia infinita: ancora 1 milione e 800mila euro per trasformarli in cococo - di Andrea Curiat (leggi) OTTOBRE - Indennità di maternità per le precarie, quanto danno le casse previdenziali dei professionisti - di Giulia Cimpanelli (leggi) NOVEMBRE - Equo compenso giornalistico, l'importanza di una legge  - di Eleonora Voltolina (leggi) DICEMBRE - Linee guida sugli stage, 400 euro al mese di rimborso «obbligatorio»: ma solo in teoria  - di Eleonora Voltolina (leggi)

Professioni del commercio tra le più richieste. Un'opzione sbarcalunario per chi è poco choosy

Ci sono professioni che reggono meglio alla crisi e altre meno. Tra queste, quelle del commercio sembrerebbero le più resistenti, almeno a guardare i dati Unioncamere del 2011 secondo cui restano scoperte il 14% delle offerte di lavoro in questo ambito (su 117mila posti totali che non vengono occupati), creando l'odioso fenomeno del mismatch tra offerta e domanda di lavoro, di cui la Repubblica degli Stagisti si sta occupando da qualche tempo. Sedicimila posti di difficile reperimento concentrati soprattutto al Nord-Est (19,7%), al Nord-Ovest (17,6%) e al centro (16,4), e meno al Meridione, dove il problema riguarda solo il 15% delle offerte. Dalle rilevazioni di settembre 2012 emerge che è proprio nel commercio - un settore che comprende secondo l'Istat (dati 2009) circa 1milione 200mila esercizi con quasi 3 milioni di addetti - che si collocano alcuni tra i profili più ricercati: le stime parlano di più di 10mila assunzioni per il 2013, assegnando al comparto il terzo posto dopo le prime due categorie formate dai lavoratori del turismo e dagli operatori delle pulizie. I motivi? Il rapporto Unioncamere sottolinea che le imprese nel «commercio e turismo sono più guidate nei loro programmi di assunzione da necessità legate a fattori di stagionalità» e hanno dunque continua esigenza di personale. A questo proposito Alessio Di Labio delle politiche giovanili della Filcams, fa notare che - a fronte di un blocco di contratti indeterminati che nella grande distribuzione supera l'80% del totale - esiste una «quota di precariato fissa chiamata solo per coprire periodi di ferie, festività natalizie o altro». Si tratta di momenti di picco delle vendite «sempre meno prevedibili data la congiuntura economica, e che gli esercenti fronteggiano reclutando nuovo personale selezionato attraverso pacchetti di curriculum sempre disponibili». In sostanza, una delle ragioni della resistenza del mismatch si troverebbe nell'instabilità «fisiologica» e nelle esigenze mutevoli del settore. Ma c'è dell'altro. Nello studio di Unioncamere si legge che «la carenza dell’offerta è di frequente motivata dal fatto che si tratta di mestieri ritenuti meno gratificanti o che vengono intrapresi con una buona dose di improvvisazione e che non sono considerati sufficientemente appetibili nonostante possano garantire retribuzioni migliori rispetto a opzioni alternative, come nel caso delle professioni manuali/artigiane, alle quali vengono spesso preferite professioni meno remunerative nel settore dei servizi». Tant'è che il 41% delle imprese con difficoltà di reperimento di addetti del commercio, lo attribuisce alla mancanza di interesse da parte dei candidati o perfino - nel 31% dei casi - all'assenza di adeguate caratteristiche personali. Le stesse imprese che poi ritengono tanto importanti le abilità comunicative orali e scritte (48%) quanto le abilità manuali (43%) come skill richieste, a dimostrazione che il settore non è aperto a chiunque e che esiste una soglia di istruzione di medio livello. Non solo: anche se non si esige un titolo formativo specifico, ci sono tutta una serie di abilità di cui disporre: saper parlare correttamente, ma soprattutto capacità di trattare con i clienti e problem solving, che i candidati, spesso improvvisati, non hanno. E per quelli che invece sono commessi con tutti i crismi, magari anche navigati, si presenta talvolta il nodo della retribuzione. Le aziende se li 'litigano' ma poi non sono disposti a offrire uno stipendio adeguato, ripiegando quindi su candidati meno esperti e meno impegnativi sul piano economico. Tutti fattori che insieme rendono il mismatch nel settore del commercio un fenomeno duro a morire o quasi irrisolvibile. Certo è che fare il commesso o lo shop manager - il responsabile di negozio che gestisce tutto lo staff - (o l'informatico o l'operatore del turismo, anch'esse professioni del commercio inquadrate nell'omonimo contratto nazionale) difficilmente sarà la massima aspirazione lavorativa di chi ha conseguito un titolo di studio alto come una laurea o un master. Ma la realtà attuale racconta di una fetta crescente di studenti lavoratori e neolaureati che finiscono a lavorare in un negozio di abbigliamento (per citare l'esempio più tipico di vendita) in attesa che la fortuna di un impiego migliore bussi alla loro porta. Un esercito di giovani ben poco choosy che però a quanto pare non basta ad appianare i numeri vertiginosi del mismatch. A testimoniarlo c'è Paolo P., commesso di Zara in un negozio del centro di Roma: i curriculum che arrivano «sono anche di ragazzi che stanno studiando o che hanno appena finito l'università e non trovano altro». «Sono solo una minoranza», ma non si tratta comunque di casi isolati.Pina Parnofiello, coordinatrice nazionale del settore moda di Confesercenti, oltre a confermare un incremento nella richiesta di impiego da parte di candidati laureati, spezza una lancia in favore della figura della commessa moderna, non più impiegata di basso profilo e molto più colta rispetto al passato: «oggi è necessario un diploma e la conoscenza almeno dell'inglese, che è la principale richiesta che riceviamo dai nostri imprenditori». «Non esiste più il modello della commessa anni Ottanta con al massimo la scuola media». C'è poi a parte tutto un settore, quello del lusso, dove a moltiplicarsi sono sia i requisiti di accesso che lo stipendio a fine mese. Per una casa di abbigliamento come Prada, (per cui le barriere all'ingresso sono come minimo bella presenza e capacità di parlare fluentemente diverse lingue) le buste paga possono lievitare fino a duemila euro al mese, senza contare bonus e commissioni sulla vendita, assicura C., impiegata di questa maison che preferisce però mantenere l'anonimato. Come altrove tuttavia, nonostante la descrizione rosea del settore, non mancano gli abusi. Oltre agli stage in negozio (un fenomeno di cui conferma l'esistenza alla Repubblica degli Stagisti Beatrice Cimini della Filcams), l'altro è quello delle associazioni in partecipazione «utilizzate spesso dalle imprese familiari, benché la riforma Fornero ne abbia parzialmente ridotto l'uso» riferisce Cimini denunciando anche lo scadimento della tipologia contrattuale applicata: «oggi un commesso semplice è inquadrato con un contratto del quinto livello del settore del commercio, prima era un quarto». Traduzione per i non addetti ai lavori: un salario minore. Al netto di tali considerazioni, lavorare nel commercio può significare talvolta una temporanea via di uscita per chi annaspa nella disoccupazione, e forse non delle peggiori se si pensa che nella maggior parte dei casi viene offerto un contratto regolare e si è dignitosamente retribuiti. Del resto non essere choosy, come ha infelicemente consigliato il ministro Fornero in una dichiarazione di qualche tempo fa, può non funzionare nel lungo termine ma aiuta nell'immediato a sbarcare il lunario.   Ilaria Mariotti Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, un problema sottovalutato- Le aziende cercano grafici e ingegneri del web: ma non ce ne sono- Professioni sanitarie, tanti posti di lavoro: ma davvero, o solo sulla carta? E anche:- Ingegneria ma non solo: quali sono le lauree più utili per trovare lavoro?  

Il decreto per le start-up è legge. E comincia già a far discutere

Scende da 5 anni a 24 mesi il periodo per il quale bisogna garantire che la maggioranza delle quote sia detenuta da persone fisiche, una misura che rende più semplice l'ingresso dei fondi di venture capital. Si riduce dal 30 al 20% la quota di utili da investire in ricerca per essere riconosciute come start-up innovative, spese nelle quali rientrano anche quelle legate all'incubazione. Viene concesso il credito di imposta al personale altamente qualificato assunto a tempo indeterminato. Sono queste le principali modifiche che il dibattito parlamentare ha apportato al decreto Sviluppo bis, convertito in legge dalla Camera dei Deputati lo scorso 13 dicembre.Un voto non scontato, messo a rischio dall'imminente crisi di governo che ha fatto scivolare su un binario morto altri provvedimenti in discussione, come quello sul riordino delle province. La fiducia posta dall'esecutivo e un forte movimento di pressione che ha animato Twitter con l'hashtag #firmateildecreto, scelto anche se il decreto era già stato firmato dal Presidente della Repubblica e necessitava invece di essere votato, hanno portato all'approvazione della prima legge italiana che si occupa di start-up.«Sarebbe stato uno spreco buttare tutta l'attività di rinnovamento svolta in questi mesi», commenta Alberto Onetti, professore di Management all'Università dell'Insubria di Varese e presidente della Fondazione «Mind the bridge». Nessuno spazio a facili ottimismi, però: «un Paese non diventa una fucina di start-up per decreto. Certamente il fatto di avere una legge che si pone il problema è un evento quasi storico, ma non lo trovo di per sé risolutivo». Soprattutto perché «interviene su un mondo che per sua natura è in fortissima evoluzione e mal si presta ad essere normato». La vera sfida, a questo punto, è quella di «modificare la cultura imprenditoriale» per renderla più simile a quella di ecosistemi più evoluti come quello della Silicon Valley. Ma questo è un «lavoro che si muove su tempi necessariamente lunghi».Intanto il documento licenziato dal Parlamento suscita pareri contrastanti. Ovviamente favorevole quello di Riccardo Donadon, patron di H-Farm, membro della task force che ha elaborato il rapporto «Restart Italia!» alla base del decreto, nonché presidente di ItaliaStartup. E proprio sul sito di questa associazione Donadon si dice «felicissimo» per il voto della Camera. «Il provvedimento è un ottimo inizio e sono convinto che sia il primo mattone su cui costruire tanti progetti. I giovani e tutti coloro che ci vogliono provare (la norma non pone infatti alcun limite di età per costituire start-up innovative, ndr) hanno oggi molte più opportunità per prendere in mano il loro destino e far nascere delle nuove aziende».Ottimista anche Gianluca Dettori, presidente di dPixel, uno dei principali fondi di venture capital italiani. «Questo testo è un ottimo punto di partenza, offre un'impostazione chiara. Adesso inizia la fase due, quella più interessante», commenta. Il riferimento, in particolare, alla definizione degli aspetti legati al crowdfunding. «Avremo la fortuna di osservare come sarà implementato quello legato al Jobs Act americano e di prendere in considerazione gli accorgimenti introdotti in proposito dalla Sec».Certamente non mancano i commenti più scettici, come quello di Marco Zamperini [foto sotto], responsabile dell'innovazione per NTT Data Italia. «Come si dice, piuttosto che niente meglio piuttosto», afferma, «ci sono alcuni punti che non sono del tutto soddisfacenti, a cominciare dal fatto che non si comprende come saranno definiti gli incubatori». L'auspicio, alla luce dell'ampio consenso parlamentare, è che «le forze politiche si facciano parte dirigente nel portare avanti una serie di emendamenti che non sono stati discussi alla luce del voto di fiducia chiesto dal governo, ma che comunque avevano un certo consenso». Tra gli elementi positivi, anche Zamperini indica il crowdfunding e il fatto che si sia cominciato a «manifestare sensibilità verso l'agenda digitale».Decisamente critica, invece, la voce di Gianmarco Carnovale. «Imporre che le start-up per essere tali debbano realizzare un prodotto tecnologico e innovativo taglia fuori chi produce cose non tecnologiche ma con processi innovativi e chi offre servizi. Google che farebbe in Italia?», lamenta il presidente di Roma Startup. Convinto che la quota da destinare in ricerca, pur scesa dal 30 al 20 per cento degli utili, sia «ancora elevatissima: una realtà che ha definito il proprio prodotto o servizio i costi maggiori li ha nel marketing e nello sviluppo di mercato». Ancora, «il limite di fatturato di 5 milioni di euro è assurdo, a questa somma ci si trova appena all'inizio di un'attività internazionale». In altre parole, «appena l'azienda inizia a crescere, le tagliano le gambe».Carnovale non si limita alla critica, ma ha anzi collaborato alla stesura di alcuni emendamenti, poi congelati dal voto di fiducia. In particolare, «avevo posto due paletti. Il primo è quello di una crescita minima, perché se una start-up smette di crescere non ha senso garantirle condizioni speciali. In altre parole, lo Stato la favorisce finché è in espansione, ma nel momento in cui si è consolidata viene considerata come un'impresa tradizionale». L'altro meccanismo riguarda invece la definizione stessa di realtà innovativa, tale «se riceve finanziamenti dagli investitori professionali. Se una persona che lo fa di mestiere giudica un'azienda interessante e innovativa è perché vede che ha una possibilità di creare valore». E appunto «spostare su un soggetto privato l'identificazione dei progetti interessanti significa massimizzare le probabilità di successo».Dibattito serrato, dunque, attorno al decreto Sviluppo bis. Che per diventare completamente operativo ora attende solo due ulteriori elementi. Il primo è un decreto attuativo che il ministero dello Sviluppo economico dovrà emanare entro 60 giorni dal voto della Camera per definire i criteri per l'iscrizione degli incubatori nella sezione speciale del registro delle imprese. La seconda è la definizione da parte della Consob, entro 90 giorni, delle modalità di gestione delle attività di crowdfunding. Dopodiché l'ecosistema italiano, così come pensato dal governo, potrà iniziare a prendere forma.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it Vuoi saperne di più sul decreto Sviluppo e sul sostegno alle start-up? Leggi anche:- Start-up, la task force lavora a criteri più inclusivi e accelera sul decreto attuativo- «Restart Italia», con il decreto Sviluppo bis arrivano (quasi tutte) le proposte per le start-up- «L'Italia riparta dalle start-up»: ecco il piano del ministro Passera- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Tekné Italia, quando la tradizione si fa start-up- Ploonge, la start-up per tuffarsi nella vita notturna- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Tekné Italia, quando la tradizione si fa start-up

Questa è una storia che mescola tradizione e innovazione. Sì perché Tekné Italia, l'azienda fondata nel luglio 2010 dai due fratelli Bonarrigo riporta in auge i carrettini del gelato che nel Novecento rinfrescavano i turisti sulle spiagge della Sicilia.Figli d'arte, il padre ha un'azienda che produce frigoriferi nella quale entrambi davano una mano durante le vacanze estive, hanno deciso di «sfruttare l'alta immagine che, nonostante tutto, l'Italia gode ancora nei settori del food, del design e della qualità». A parlare è Giorgio Bonarrigo [a destra nella foto Giovanni Sempreviva], 23 anni e una laurea in Economia ancora da conseguire. Mentre il fratello Vincenzo di anni ne ha 26 e si è laureato in Architettura: è sua la mano dietro alle linee di Procopio, Katerina e Madia, i tre modelli di carrettino dei gelati finora prodotti. E distribuiti in tutto il mondo: dall'Australia al Messico, dagli Stati Uniti all'Indonesia, dallo Yemen al Venezuela. Mentre non c'è paese della comunità europea nel quale non si muova almeno una delle 'gelaterie mobili' prodotte nello stabilimento di Giarre, in provincia di Catania.E pensare che «per noi tutto è cominciato come un gioco». Dall'età di dieci anni hanno preso a gironzolare per l'azienda del padre e, con l'adolescenza, hanno iniziato con qualche piccolo lavoretto: «facevamo le cose più disparate, dal frigorista alla contabilità. Mio fratello Vincenzo collaborava anche allo studio dei progetti dell'azienda». Fino a che, un paio di anni fa, non hanno deciso di mettersi in proprio. «Vedendo l'andamento dell'economia sentivamo l'esigenza di creare qualcosa che fosse nuovo, diverso». L'idea è stata quella di riscrivere la storia dei carrettini gelato. O meglio di impegnarsi nella «progettazione, produzione e vendita di macchine speciali e corner dinamici per il settore della gelateria e della ristorazione».L'idea di fondo è quella di «creare prodotti di alta qualità con grande attenzione al design», in linea con «la grande autorevolezza della manifattura di qualità che il made in Italy ancora riscuote», con l'obiettivo di generare «entusiasmo e soddisfazione» nel cliente finale. Il risultato sta nei 350mila euro di fatturato con cui l'azienda ha chiuso il 2011, superando già dopo i primi dodici mesi il punto di pareggio. E garantendo uno stipendio ad entrambi i titolari e ad un altro dipendente, assunto con contratto a tempo indeterminato.Per la lo loro azienda, i fratelli Bonarrigo hanno scelto la formula della srl, convinti che sia quella adatta a coinvolgere entrambi nelle decisioni e soprattutto a dare «spazio all'espansione». Il capitale versato ammonta a 10mila euro, provenienti dai loro risparmi, ed è stato utilizzato per le prime spese. Ovvero per l'acquisto delle prime attrezzature essenziali e per la creazione di un sito Internet, che ad oggi rappresenta ancora l'unico veicolo pubblicitario di questa start-up, mentre dal prossimo anno «prenderemo parte alle fiere di settore». Per riuscire a sopravvivere nella fase più delicata della vita dell'azienda e per garantirsi liquidità per continuare negli investimenti Giorgio e Vincenzo hanno deciso di convincere i loro clienti ad accettare una particolare formula di pagamento: «il 50% all'ordine, il saldo prima della spedizione». In questo modo l'acconto versato dai primi compratori è stato impiegato per le spese di produzione e ha permesso di «acquistare altri strumenti e realizzare un portale Internet più professionale».Non solo. Questa decisione ha infatti permesso a «Tekné Italia» di non aver bisogno di ricorrere ad un finanziamento da parte delle banche. «Non l'abbiamo nemmeno chiesto perché non volevamo impelagarci in rate che non eravamo sicuri di poter pagare nella fase iniziale», spiega Giorgio, «inoltre siamo consapevoli che il sistema bancario, oggi più di ieri, non aiuta gli start-up come il nostro, che non ha alcun patrimonio da ipotecare». Ma questo è solo uno degli elementi che rende difficile l'ecosistema per gli startupper. Oltre alla burocrazia, che «gioca un ruolo antagonista», occorre fare i conti con un sistema fiscale che «giustamente fa pagare le tasse sul reddito netto». Ma che nel primo periodo rischia di soffocare le aziende visto che «oltre a versare l'importo relativo al primo anno di attività deve anche versare l'anticipo sull'anno successivo». Un sistema che «non agevola» e che i due fratelli hanno superato «grazie al nostro metodo di pagamento». Riuscendo ad imporre ai propri clienti di pagare in anticipo per i prodotti di una giovane Start-up. E garantendosi così un futuro.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo- Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati- Una startupper sarda negli States: «Qui conta il merito. Ma si può fare anche in Italia»- Guk Kim, il giovane coreano che suggerisce agli italiani dove andare a mangiare: con un'app- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa