Categoria: Approfondimenti

Stage alla Curcio: chi sono gli enti promotori?

Stage svolti da casa propria. Con il proprio computer, senza il supporto o la guida di colleghi o tutor, in solitudine. Revisionando per ore e ore in un file di testo pagine di vecchie enciclopedie, correggendo i refusi e aggiornando le informazioni. Questa è la segnalazione arrivata sul Forum della Repubblica degli Stagisti in merito ai tirocini presso Armando Curcio Editore [da non confondere con un'altra casa editrice, la Curci]. Una situazione sostanzialmente confermata dalla vicepresidente dell'azienda, che ha dichiarato anzi di aver avviato negli ultimi mesi nell'ambito di un particolare progetto editoriale, un'iniziativa congiunta Microsoft-Curcio, l'ingresso in qualità di stagisti di ben 15 giovani. 15 stage attivati a fronte di una dozzina di assunti a tempo indeterminato, più altrettanti collaboratori, è però una proporzione letteralmente "sproporzionata", a partire dalla normativa cui ancora si può fare riferimento (il dm 142/1998). Poiché ogni tirocinio, per esistere in maniera legale, ha bisogno - oltre che di un soggetto "ospitante", in questo caso la Curcio - anche di un soggetto promotore, la Repubblica degli Stagisti ha deciso di approfondire la questione. Come è stato possibile che nell'arco di pochi mesi questa casa editrice sia riuscita ad attivare un numero tanto elevato di stage presso un'azienda con un numero così esiguo di dipendenti? È verosimile che la Armando Curcio Editore abbia reperito stagisti prendendone un po' da ciascun ufficio stage delle università romane, un po' dai centri per l'impiego e ancora da enti privati (a cui è consentito di fungere da enti promotori)?Primo step: chiedere alla ragazza che con il suo post sul Forum ha fatto partire il caso chi fosse l'ente promotore del suo stage. Ma la risposta è sorprendente: «Non lo so, e non so nemmeno se ce ne fosse uno» è quel che sostiene Marta F., raccontando di non aver firmato nessun documento né prima né durante lo stage. A certificare il suo rapporto con la società ci sono solo le mail inviate dai responsabili e l'attestato finale [nella foto in basso]. È vero che la convenzione non va per forza controfirmata dallo stagista, e quindi potrebbe esistere senza che Marta ne avesse mai vista una copia, ma il fatto che invece nessun progetto formativo sia passato per le mani della stagista fa venire il sospetto che il tirocinio non abbia proprio nessuna pezza d'appoggio. A maggior ragione perché Marta assicura di aver letto l'annuncio sul sito di Jobsoul (annuncio che però è al momento irrintracciabile) ma di non aver fatto domanda per loro tramite, essendo laureata da più di dodici mesi e non potendo dunque prendere parte a uno stage in convezione con un'università. È lei stessa a spiegare di aver scavalcato i servizi del portale, facendo domanda direttamente alla casa editrice. Dunque l'università in questo caso non c'entra. E neppure Jobsoul, i cui referenti spiegano di «non aver mai ricevuto finora segnalazioni ma anzi di essere disponibili ad accoglierne proprio per prevenire comportamenti aziendali poco etici». È chiaro dunque che il sito di placement post-universitario in questo caso è stato un mero tramite tra università e azienda. A questo punto la Repubblica degli Stagisti si è messa alla ricerca. E ha rintracciato solo una università che ammette di aver attivato stage presso Curcio a favore di propri studenti o neolaureati. Si tratta di Tor Vergata: Caterina Bagni, responsabile dell'ufficio stage della facoltà di Lettere di Tor Vergata, riconosce dopo molto insistenze che il suo ufficio ha attivato due tirocini, «uno didattico curriculare e uno post laurea» con la Curcio Editore negli ultimi sei mesi. E siccome chi rende lo stage legale e lo promuove - gli enti promotori - è obbligato a stilare un progetto formativo, a indicare un tutor (in totale devono essere due, insieme a quello dell'ente ospitante) e a garantire un'assicurazione, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto alla Bagni se fosse a conoscenza delle irregolarità riscontrate dalla redazione. La risposta «È tutto secondo le procedure previste a norma di legge e corredato dagli atti ufficiali necessari», purtroppo, suona un po' ponziopilatesca: «Vanno fatte denunce in casi come questi ed è l'ispettorato del lavoro a muoversi». Ma su una cosa la Bagni sente di mettere la mano sul fuoco: «I tirocini che noi attiviamo sono in presenza» e non da casa. Eppure.Tutte le altre università romane si tirano fuori dalla questione, dichiarando di non aver mai promosso negli ultimi mesi tirocini presso la Curcio. A Roma Tre, che ha un ufficio stage centralizzato, la responsabile Marina Mariantoni è sicura: «Mai attivato stage con questa azienda». Anzi: «Se ci sono queste irregolarità, i ragazzi vengano a lamentarsi da noi». Una convenzione con la Curcio loro ce l'hanno, come si evince da una ricerca sul sito Jobsoul: probabilmente però finora non sono mai partiti progetti di tirocinio. E la Sapienza? Niente neppure su questo fronte. Dice Simona Tortora dell'ufficio stage di Lettere: «Non ho mai attivato stage con questa società». E però rilancia: «I ragazzi si devono pure aiutare da soli e se hanno problemi con l'ente ospitante lo devono dire. Certo è che se si muovono senza dietro un'università lo fanno a loro rischio e pericolo». E alla domanda sui provvedimenti che prenderebbe in caso di segnalazioni negative è sicura: «Io me lo segno così quando mi arriva il progetto formativo chiamo e chiedo. E in caso non mi convinca non lo approvo». Neppure le università private ne sanno qualcosa: né Luiss («Noi non ne sappiamo nulla») né Lumsa («Sono molto rigida» dice alla Repubblica degli Stagisti la responsabile dell'ufficio stage Raffaella Mecangeli «se so di casi del genere io li elimino»).  Ma l'elenco dei possibili enti promotori è lunghissimo. Ci sono innanzi tutto i centri per l'impiego, alcuni dei quali - contattati dalla redazione - hanno deciso di non collaborare trincerandosi dietro lo schermo della privacy. «Non sono notizie che possiamo dare così» riferiscono dal cpi di Primavalle, dimenticandosi forse di essere un ente pubblico e che la richiesta non riguarda dati sensibili come nomi e cognomi dei partecipanti ai progetti, tale da poter sollevare questioni di riservatezza. La stessa reazione dal cpi di Roma Tre: «Noi non forniamo questi dati» chiudono dal centralino. E anche Sportello Stage, ente no profit (ma a pagamento per le aziende), si chiude a riccio sulla domanda: «C'è la privacy, ma mandateci una mail». A cui però non arriva risposta. La Repubblica degli Stagisti sente anche Porta Futuro, e la referente Giorgia Cianfirglia si tira subito fuori: «Da quando abbiamo aperto non ci siamo mai occupati di stage con la Curcio». Un coro unanime di no, insomma. Ma allora chi sono gli enti promotori di questi stage? Esistono? Saperlo con certezza è impossibile perché si dovrebbero contattare singolarmente gli enti che potrebbero ricoprire questo ruolo, che spaziano dal pubblico al privato e sono potenzialmente centinaia. Oppure bisognerebbe parlare con tutti gli stagisti assegnati finora al progetto Curcio-Microsoft e sapere da loro se hanno firmato progetti formativi e per conto di chi. Ma con Repubblica degli Stagisti si è fatto avanti finora una sola ex stagista. L'ultimo tentativo è chiederlo direttamente al soggetto ospitante in questione: e cioè la Armando Curcio Editore. Dalla vicepresidente Siciliano arriva una conferma generica - l'esistenza di convenzioni con Roma Tre e Tor Vergata - ma non il dettaglio rispetto ai 15 stage in questione. Dunque il dubbio resta: sono stati tutti regolari, muniti di convenzione, progetto formativo e copertura assicurativa i 15 tirocini realizzati alla Armando Curcio Editore negli ultimi mesi? Oppure si è tralasciato questo passaggio? Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:  - Stagisti-correttori di bozze alla Armando Curcio Editore: il «lavoro» è da casa e senza rimborso- Stagisti in massa (e da casa loro) alla Curcio, la vicepresidente: «Formazione di base»E anche: - La responsabile didattica del master della Cattolica: «Aziende selezionate sulla base di criteri di serietà della formazione»- Problemi con lo stage: vanno segnalati subito all'ente promotore

Nel mondo delle start-up la questione meridionale non esiste

Da Cagliari a Catania passando per Salerno: Startupper viaggia verso Sud per raccontare la storia di tre acceleratori d'impresa. E spiegare come l'ecosistema sembri non conoscere alcuna questione meridionale. Anzi, ci sono aziende che dal Nord sono scese nel Mezzogiorno per essere incubate.È successo in Sardegna dove la milanese Eximia, start-up che si occupa di prodotti legati alle radio frequenze, ha scelto di crescere all'interno di The Net Value [a destra il logo]. Per non parlare di Daniele Calabrese che, dopo aver lavorato alla Banca mondiale, si è trasferito a Cagliari per dare vita a Soundtracker. E del resto per le tecnologie legate al digitale il capoluogo sardo rappresenta un terreno molto fertile: qui all'inizio degli anni Novanta nacque CRS4, centro di ricerca voluto dalla regione e coordinato dal premio Nobel Carlo Rubbia. Una realtà che ha favorito nel 1994 la nascita di Video on line, uno dei primi provider italiani e di Tiscali nel gennaio del 1998.Ed è stato proprio uno dei cofondatori di questa azienda, Mario Mariani, a dare vita nel 2009 a The Net Value. «Potrà apparire singolare, ma in questo territorio ci sono bravi sviluppatori, competenze diffuse e anche l'opportunità di avere dei finanziamenti», spiega Roberto Massa, membro del team di TNV. «Per quanto ci riguarda», aggiunge, «noi accompagniamo le start-up lungo il percorso di crescita». I servizi offerti, in cambio di un ingresso come soci di minoranza nel capitale sociale, vanno dall'aiuto nella selezione del personale alla consulenza sotto il profilo commerciale. Oltre al mentorato offerto da alcuni imprenditori italiani e stranieri. «Noi vogliamo dare una dimensione internazionale alle nostre aziende e anche per questo abbiamo scelto di avere un sito esclusivamente in lingua inglese». Sono circa una trentina i progetti passati attraverso questo acceleratore, che attualmente incuba 17 aziende.Sono invece tre quelle che hanno trovato spazio all'interno di 56Cube [nella foto sopra il logo], progetto lanciato alla fine di ottobre dello scorso anno a Fisciano (Salerno) da Digital Magics, incubatore milanese che ha scelto la Campania per espandere la propria attività. E lo ha fatto stringendo un accordo di collaborazione con l'università di Salerno, che mette le proprie competenze a disposizione degli startupper. Nato per contribuire allo sviluppo di imprese innovative nel settore Internet, 56Cube svolge un doppio ruolo: da un lato è venture capitalist, garantisce cioè un primo finanziamento alle start-up, dall'altro è incubatore, nel senso che offre una serie di servizi alle aziende che ospita e le accompagna nella ricerca di capitali ed investitori privati. «Ci rivolgiamo a tutti i creatori del Sud Italia che abbiano un'idea innovativa e vogliano fare impresa nell'economia digitale», spiega il fondatore e amministratore delegato Gennaro Tesone, «grazie alle competenze condivise con l'Università di Salerno e Digital Magics saremo in grado di sviluppare modelli di business di successo».Partirà invece tra aprile e maggio l'incubatore lanciato da StartupCT, la realtà voluta dai giovani della Confindustria catanese per favorire lo sviluppo di nuove imprese. Nato come realtà informale la scorsa estate, grazie ad una collaborazione con Indigeni digitali e l'incubatore universitario Youth Hub, «si è occupato di attività di animazione del territorio. Ora però ci prepariamo ad un passo importante», spiega Antonio Perdichizzi, presidente dei giovani imprenditori etnei. Il riferimento alla nascita del vero e proprio acceleratore d'impresa, che nascerà in collaborazione con il progetto Working Capital di Telecom Italia. Una sinergia che cresce in un territorio che si dimostra molto fertile: due delle aziende che saranno incubate hanno infatti già trovato un finanziamento. La prima è Flazio, che ha ricevuto 280mila euro da un fondo privato e 120mila da alcuni imprenditori catanesi, la seconda è AppsBuilder, fondata da startupper di Torino e Milano che in Sicilia hanno però trovato un investimento pari a 1,5 milioni di euro.«Crediamo fortemente che sul tema della creazione d'impresa, nei settori giusti, la nostra regione possa giocarsi le sue carte alla pari di altri territori», spiega Perdichizzi. Convinto che l'ecosistema sia in grado di superare tutti gli ostacoli che un'azienda possa incontrare da queste parti. «Noi andiamo nelle scuole a parlare ai ragazzi e ci sentiamo dire che la burocrazia e la legalità sono dei vincoli. Ma le start-up li superano tutti: sul digitale la burocrazia non è così perigliosa e oggi la mafia non colpisce i social network. E per quanto riguarda il credito, come insegnano tante storie di successo, si può partire da zero ma i fondi per sostenere le buone idee si trovano». Indipendentemente dal fatto che un'azienda nasca nella Silicon Valley, in val padana o alle pendici dell'Etna.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi saperne di più sugli incubatori di impresa? Leggi anche:- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire- H-Farm. Boox e Nanabianca, un'«alliance» per sostenere le start-up- Milano capitale delle start-up grazie a Polihub e Tag MilanoVuoi conoscere alcune storie di start-up? Leggi anche:- L'artigianato si vende in Rete grazie alla startup fiorentina Buru-Buru- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Confrontare online i preventivi degli artigiani: l'idea di tre amici emiliani è «Fazland»

Una piattaforma che permette agli utenti di raccogliere preventivi per vari tipi di servizi, dai lavori in casa  e in giardino fino alle riparazioni. «Una piazza virtuale che fa incontrare domanda e offerta tra privati e professionisti in settori che oggi sono solo marginalmente toccati da internet: elettricisti, idraulici, imbianchini, meccanici, giardinieri, imprese di pulizie e di traslochi, palestre, fotografi, noleggi bus. Fazland si propone come la terra di chi cerca il valore, e di chi emerge per il merito», spiegano i tre fondatori Alessandro Iotti, Giovanni Azzali e Vittorio Guarini, reggiani, 30 anni il primo, 31 gli altri, che all'inizio di aprile hanno lanciato la versione definitiva del loro sito. Per sviluppare il progetto, due di loro hanno lasciato contratti a tempo indeterminato, in grandi gruppi e con ottime possibilità di carriera; un altro sta passando a un part time. Amici alle superiori («giocavamo insieme a calcio»), percorrono per anni tre strade diverse. Alessandro e Giovanni  prendono insieme la laurea triennale in Economia, reti e informazione all’università di Reggio Emilia. Dopo, il primo si sposta per la specialistica alla Business school di Aarhus, seconda città della Danimarca e alla fine degli studi viene assunto da Siemens nella vicina Brande come sales manager: «Mi occupavo di vendere parchi eolici costruiti al largo delle coste. Dopo un anno ho ottenuto la promozione e a gennaio 2012 sono stato trasferito a Londra». Giovanni prosegue l’università in Emilia, affiancando il lavoro a corsi ed esami: «Subito dopo il diploma ho iniziato a insegnare informatica nell’istituto tecnico che avevo frequentato. In questo periodo sto preparando la tesi, dedicata proprio a Fazland». Vittorio si laurea invece in Ingegneria gestionale a Reggio Emilia e nel 2006 entra in Accenture come project manager: «Mi sono occupato di consulenza direzionale per grandi società del settore media e telecomunicazioni. Ho lavorato due anni a Londra, uno a Lisbona e uno a Madrid». L’idea del sito viene una sera a Alessandro, mentre è in pub in Danimarca con un amico, alla fine dell’estate di due anni fa: «Come tutte le idee migliori, è nata davanti a una birra», scherza. «Il mio amico doveva far riparare l’auto, ma conosceva poco la lingua e aveva paura di prendere una fregatura. La prima lampadina mi si è accesa lì, poi ne ho parlato con Vittorio e Giovanni. Vivevamo lontani, ma ci era sempre rimasta l’idea di fare qualcosa insieme. Ne riparlavamo ogni estate, quando ci rivedevamo durante le vacanze».Dopo un anno di ricerche di mercato, sondaggi, interviste e lancio di una versione sperimentale del sito, la decisione: «A fine 2012 ci siamo resi conto che il progetto era arrivato a una svolta: o decidevamo di dedicarci completamente a Fazland, oppure abbandonavamo il nostro sogno». Così, a febbraio 2013 Alessandro ha lasciato Siemens e Londra per tornare con la moglie incinta a Reggio Emilia; Vittorio si è licenziato da Accenture e Giovanni dal prossimo anno scolastico chiederà di lavorare part time. Una decisione radicale, ma, sintetizza Vittorio, «presa consapevoli delle potenzialità del progetto. A un certo punto la vera domanda non era più “Perché farlo?”, ma “Perché non farlo?”».La versione definitiva del sito è stata preceduta da una lunga fase di ricerca e sviluppo in cui i tre fondatori hanno investito circa 20mila euro dei loro risparmi. «Per prima cosa abbiamo contattato 80 aziende tra Reggio Emilia, Padova e Pescara, aree scelte con l'obiettivo di testare tre province medie del nord e centro Italia. Abbiamo avuto un primo riscontro positivo, visto che l’85% degli intervistati si è detto interessato alla nostra idea. Nei primi sei mesi del 2012 ci siamo quindi dedicati a realizzare, insieme a un team di sviluppatori, la prima versione del sito. Fazland 1.0 è stato testato da cento professionisti, dai quali abbiamo cercato di raccogliere osservazioni sulle criticità del sito. Abbiamo anche condotto un sondaggio tra potenziali utenti, per capire cosa dovevamo migliorare». L’edizione beta stata lanciata per ora in quattro città del centro-nord: Torino, Brescia, Firenze e Bologna. In Italia e in Europa ci sono già servizi on line di raccolta e confronto dei preventivi, ma hanno meno funzionalità rispetto a Fazland: «È l’unico a offrire un percorso guidato, in modo da garantire la massima precisione nella richiesta da parte dei clienti, che possono anche caricare foto, per esempio della parete da dipingere o del giardino da far sistemare. Anche i professionisti possono inserire certificazioni di cui sono in possesso, o immagini di lavori fatti in precedenza». Gli utenti hanno anche la possibilità di stilare una classifica delle varie offerte ricevute: «I professionisti vedranno l’ordine di preferenza e saranno stimolati a migliorare e rilanciare la propria proposta». I clienti potranno anche lasciare commenti sugli operatori, in merito a puntualità, coerenza tra prezzo e preventivo, qualità e chiarezza nella comunicazione: «Se un elettricista o un meccanico non ci danno un buon servizio, fino ad oggi potevamo dirlo ai vicini o agli amici. Questo sistema, che consentirà a tutti di leggere i feedback online sul modello di eBay, scoraggerà comportamenti opportunistici e scorretti da parte dei professionisti».  Un complesso meccanismo che cerca di facilitare l'impresa di far riparare l'auto o imbiancare casa a un buon prezzo, ottenendo allo stesso tempo prestazioni di buona qualità: «Il nome nasce da un personaggio immaginario che rappresenta il bisogno stesso che abbiamo individuato nel mercato: il Faz è chi cerca o chi vende servizi, “pazzo” perché insoddisfatto. È una mascotte che useremo nelle azioni di social media marketing».L’iscrizione per utenti e imprese è gratuita: «Non ci sono costi fissi. Se ci si aggiudica un lavoro grazie al nostro servizio, Fazland trattiene dall’impresa una quota che va dal 5% al 7% del totale del preventivo». Ma nel Paese dei lavoretti in nero, il sito riuscirà a rendere artigiani e professionisti più onesti? La piattaforma, spiegano i suoi ideatori, «non gestendo le transazioni cliente-professionista, ma solo la  provvigione dal professionista, non ha strumenti per disincentivare direttamente il nero. Ovviamente ci poniamo a favore di chi rispetta le regole del bene comune e la transazione tra noi e i professionisti è assolutamente trasparente e comprensiva delle imposte vigenti».La srl è nata ufficialmente a ottobre 2011 e a febbraio scorso è stata registrata anche come start up innovativa, in accordo con il decreto Sviluppo. Nei prossimi mesi i tre soci procederanno su due strade: far iscrivere più persone possibile e trovare finanziatori. «Abbiamo già in programma la partecipazione a fiere di settore per far conoscere il nostro servizio e stiamo dialogando con le associazioni di categoria, che potrebbero trarre un vantaggio dalla partecipazione a Fazland dei propri affiliati. Sul versante investimenti, siamo in contatto con diversi business angel e venture capitalist: adesso iniziano i 12 mesi decisivi». Veronica Ulivieri Vuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche: - Il matrimonio diventa low-cost grazie alla start-up siracusana Progetto Wedding- L'artigianato si vende in Rete grazie alla startup fiorentina Buru-Buru- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull Studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game- Tekné Italia, quando la tradizione si fa start-up- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

L'Abruzzo investe 9 milioni per le start-up: la speranza sta nell'innovazione

Un fondo di rotazione da 9 milioni di euro per finanziare start-up innovative in Abruzzo. Lo ha lanciato la Regione tramite Fira, finanziaria che fa capo al Palazzo dell'Emiciclo, e in collaborazione con la Banca popolare di Lanciano e Sulmona e le Casse di risparmio delle provincie di L’Aquila, Chieti, Teramo e Pescara. Si chiama StartHope e dallo scorso 16 aprile ha iniziato a raccogliere le candidature da parte delle giovani imprese.Come per la definizione di start-up innovativa contenuta nel decreto Passera, non si guarda all'età degli startupper, ma a quella della loro azienda: possono infatti presentare domanda quelle imprese costituite da non più di 48 mesi in cui la maggioranza del capitale è detenuto da persone fisiche. Oppure quei gruppi che abbiano un progetto senza avergli ancora dato una forma giuridica, ma si impegnino a farlo entro 60 giorni dall'accoglimento della candidatura. Altro vincolo di natura burocratica, quello di avere sede operativa in Abruzzo o comunque di essere disposti a trasferirla all'interno dei confini regionali nei due mesi successivi alla firma del contratto con Fira.Questo fondo si impegna infatti ad entrare nel capitale sociale delle start-up che saranno ammesse, per una quota compresa tra il 15 ed il 45% ed un investimento massimo di 1,5 milioni di euro per ciascuna impresa. Tecnicamente le tipologie di intervento previste dal bando StartHope, le modalità con cui questo fondo si propone di sostenere le start-up, sono tre. La prima è quella del seed capital, l'investimento più rischioso: quello concesso nella fase iniziale di definizione del progetto aziendale. Poi c'è lo start-up capital, un finanziamento a realtà che si affacciano sul mercato ed hanno bisogno di una “spinta” per sviluppare e commercializzare il loro prodotto. Infine Fira può decidere di dedicarsi all'expansion capital, investendo in un'azienda che è già attiva ed è prossima al raggiungimento del punto di pareggio o addirittura in grado di produrre utile. In questo caso, il capitale aggiuntivo garantito attraverso i 9 milioni di questo fondo di rotazione servirà ad aiutare le imprese a conquistare nuove fette di mercato.Quali saranno però i criteri sulla base dei quali saranno selezionate le start-up ammesse al finanziamento? Il bando afferma che gli interventi dovranno essere «strumentali» rispetto ad alcune «finalità», come l'innovazione di prodotto o servizio in settori ad alta conoscenza, il miglioramento dei metodi produttivi o distributivi, l'innovazione organizzativa e lo sviluppo sperimentale, il trasferimento tecnologico dalla ricerca alla produzione. All'atto pratico, nella valutazione delle richieste di finanziamento il fondo terrà conto di elementi come la rilevanza tecnico-scientifica delle proposte e il loro grado di innovazione, ma anche la possibilie ricaduta in termini di occupazione.Una volta accolta la domanda - sono più di 150 quelle già presentate dall'apertura del bando - al momento del finanziamento verranno sottoscritti dei patti parasociali che dovranno definire le modalità di governance dell'azienda, ma soprattutto chiarire i meccanismi di disinvestimento. Il sostegno di Fira infatti non potrà durare più di cinque anni, trascorsi i quali le (ormai ex) start-up verranno accompagnate nella fase del cosiddetto go to market: la ricerca di nuovi soci di capitale piuttosto che della piena autosufficienza economica.«Abbiamo scelto di investire in queste realtà perché il mondo sta cambiando: da parte pubblica non basta più il finanziamento, ma serve l'investimento: occorre selezionare buone idee e progetti che crescano e permettano di far rientrare i soldi, così che possano essere utilizzari per finanziare nuove imprese», spiega Rocco Micucci [nella foto a destra], presidente della finanziaria che fa capo alla Regione. I 9 milioni del fondo di rotazione arrivano dal bilancio di Palazzo dell'Emiciclo, ma il modello di gestione è ritagliato su quello delle società di venture capital. «Se non avessimo dato un taglio privato il progetto non avrebbe funzionato. Noi vogliamo far diventare l'Abruzzo una terra attrattiva per le start-up, vogliamo attrarre menti brillanti da Nord e da Sud, dai Balcani e da tutto il bacino del Mediterraneo». E anche la scelta del nome del progetto va in questa direzione: «l'obiettivo era quello di riaccendere la speranza, dare un segnale positivo e cominciare a credere nella crescita. In pochi giorni, però, abbiamo ricevuto oltre 150 candidature. Con questi numeri possiamo passare dalla speranza alla fiducia nel fatto che il futuro dipenda da noi».Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre iniziative di sostegno alle start-up? Leggi anche:- Al via Wind business factor 2013, il campionato italiano delle start-up- Non solo mele, con TechPeaks a Trento si coltiveranno anche start-upVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Il matrimonio diventa low-cost grazie alla start-up siracusana Progetto Wedding- L'artigianato si vende in Rete grazie alla startup fiorentina Buru-Buru- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

L'azienda invece dello Stato: il welfare aziendale come antidoto alla crisi

Il potere d'acquisto dei lavoratori italiani è diventato una delle prime emergenze del Paese. E questo non solo a partire dalla crisi del 2008, che ha unicamente aggravato un problema già esistente - come dimostra il fatto che il dibattito sulla riduzione del cuneo fiscale (ovvero lo scarto tra ciò che l'azienda paga per il lavoratore e quello che poi effettivamente entra in busta paga, al 49,6% in Italia nel 2010 secondo dati Oecd) si sono basate intere campagne elettorali anche nelle precedenti tornate. Una possibile soluzione emersa negli ultimi tempi sta nel cosiddetto welfare secondario o aziendale: una serie di agevolazioni riconosciute ai lavoratori o dalla singola azienda o per mezzo della contrattazione collettiva, con l'intento di migliorarne il benessere e accrescere l'organizzazione del lavoro. In pratica si aiutano gli occupati mettendo servizi a loro disposizione e nel frattempo lo Stato risparmia e l'azienda guadagna in termini di produttività (i beneficiari - si spera - sono più sereni e lavorano meglio). Di esempi teorici su come applicarlo ce ne sono a non finire, dagli asili nido ai voucher, dai corsi di formazione ai buoni pasto. Il nodo principale resta - come sempre, e soprattutto in Italia - la pratica. Se ne è parlato di recente in un convegno romano a cura dell'Arel, in occasione della presentazione del volume Welfare: dalla crisi alle opportunità, dove il dibattito è ruotato attorno alla questione centrale: come far sì che se ad esempio un impiegato - perché, tanto per cambiare, dai benefit restano esclusi i tantissimi lavoratori autonomi e i precari - percepisce 100 euro di aumento in busta paga, la metà di questi non finisca all'erario per via del benedetto cuneo fiscale? Un'idea che ha poi fatto scuola è stata quella messa in pratica dalla Luxottica già nel 2009: incentivare i dipendenti invece che con un banale e poco fruttuoso aumento salariale, regalando carrelli della spesa da 100 euro con beni alimentari di prima necessità. Avvantaggiando così sia il lavoratore dal punto di vista del potere d'acquisto, sia l'azienda che poteva contare su cospicui sconti da parte dei fornitori vista l'enorme quantità di alimenti acquistati. Il welfare aziendale e il dibattito che ne è scaturito non è affatto marginale, perché «nei prossimi anni assisteremo a una scarsità delle risorse da destinare al welfare pubblico. Il Paese sarà impegnato al rientro dal debito eccessivo e sarà difficile incrementare la spesa sociale, per lo meno in maniera da soddisfare in maniera crescente i bisogni di una popolazione che sta invecchiando» spiegano l'economista Carlo Dell'Aringa [nella foto sotto] e l'ex ministro del Lavoro Tiziano Treu [nella foto a destra] nell'introduzione a quattro mani del libro. «L'attenzione alla persona si è fatta più forte» scrivono e su questo sono le parti sociali, i sindacati, a dover fare bene il loro lavoro di difesa dei diritti. Perché la questione del welfare non è solo legata solo allo scarso reddito di chi lavora ma anche al sopperimento delle esigenze delle fasce deboli della popolazione, a cui lo Stato potrà farà fronte sempre di meno. Ne è certo Roberto Cicciomessere di Italia Lavoro, che fa un confronto con altri Paesi più avanzati: «La quota di spesa sociale nel nostro Paese è molto bassa (2,1% di Pil), a fronte del 3% di Francia e Germania e del 7,1% del Regno Unito. Le esperienze di welfare aziendale sono molto limitate in Italia anche se il dibattito su come implementarlo ha iniziato a interessare molti attori economici». E anche i lavoratori che ne beneficiano sono pochi: solo il 17,6% dei lavoratori gode di buoni pasto, l'8,4% di mense aziendali, il 2,3% ha il rimborso per le spese sanitarie e lo 0,4% per l'asilo nido. Un esempio virtuoso che sta partendo in Italia è richiamato nel libro da Franca Maino, docente di Teoria e politiche dello stato sociale all'università di Milano: si tratta del caso della Regione Lombardia, che ha avviato progetti sperimentali come la Dote conciliazione "Servizi alla persona", che offre ai genitori rientrati al lavoro dopo i congedi rimborsi di servizi per l'infanzia pari a 200 euro al mese per otto mensilità (totale 1600 euro). O ancora la Dote conciliazione "Premialità assunzione" che stanzia per le pmi un voucher di mille euro per l'assunzione di madri escluse dal mercato del lavoro o precarie. Sono solo due dei 33 progetti avviati - di durata biennale - e che hanno coinvolto 6.300 lavoratori. Per ora si parla di provvedimenti pilota, ma potrebbero dare uno scossone alla condizione occupazionale delle donne che - nel 2011 - «erano disoccupate per il 50%» secondo dati Eurostat ripresi da Roberta Marracino di McKinsey (società di consulenza e ricerca in business, marketing e finanza) e Carlo Alberto Carnevale, docente alla Bocconi. Il risultato di un così scarso impiego della componente femminile della società si riflette anche sul Pil che in Italia «tra il 2000 e il 2010 è salito dello 0,4%, contro il 2,2% della Svezia dove il tasso di occupazione femminile è del 76%». Scettica è poi la posizione di Sandro Del fattore, del dipartimento Welfare della Cgil, che nega l'eventuale aumento di produttività che i buoni aziendali garantirebbero perché - scrive - «non è un buono che dà un servizio ma la sua esistenza. Un voucher, ancorché defiscalizzato, non sostituisce ad esempio l'asilo nido». Ovvero c'è bisogno di infrastrutture in questi casi, non si può demandare tutto al privato eliminando lo Stato. E poi - aspetto non secondario - se il welfare aziendale dipende dalla contrattazione collettiva nazionale, si taglia fuori praticamente la metà dei lavoratori «nel paese delle microimprese» che è l'Italia. La Cgil, d'altronde, non è nuova a critiche simili verso questa sorta di 'ammortizzatori sociali' a carico delle aziende, un sistema che i sindacati in generale non vedono di buon grado, ma anzi osteggiano. Caso esemplare è stato quello dell'imprenditore del cachemire Bruno Cucinelli, che a Natale 2012 ha deciso di suddividere una porzione degli utili annuali - 5 milioni - con i suoi quasi 800 dipendenti. Elargizione concretizzata in un 'regalo' da 6.385 euro ciascuno. Il precedente c'era stato con Diego Della Valle nel 2008, quando il manager premiò i lavoratori con un bonus da 1400 euro. Magnanimità ripetuta poi di anno in anno fino al 2012, anno in cui il numero uno della Tod's ha garantito ai suoi dipendenti la copertura per l'acquisto dei libri scolastici dei figli e per le spese mediche familiari. Tutti gesti questi che i sindacati hanno invece paradossalmente attaccato. Ma chi paga i servizi di welfare aziendale? La questione è stata aperta dai relatori Treu e Dell'Aringa. «L'incentivo pubblico è giustificato dagli obiettivi che il sistema è in grado di raggiungere. E non vi è dubbio che la qualità di questi obiettivi giustificano anche l'intervento del fisco». La normativa andrebbe aggiornata, non è più accettabile, a loro dire, applicare l'esenzione fiscale solo al di sotto del tetto massimo dei 5 euro (il valore standard del buono pasto), come stabilisce la legge attuale. Bisogna fare di più per rendere il sistema efficiente e appetibile. Un'ipotesi è anche quella della ripartizione del costo dei servizi «tra Stato, impresa e lavoratori: in fondo se il lavoratore paga ha comunque un vantaggio perché il costo del servizio è inferiore al valore di ciò di cui usufruisce». In questo senso «la strada più semplice è lasciare ai dipendenti un menu di possibili servizi, il cui totale dovrebbe essere equivalente in moneta per tutti». In tempi di crisi, insomma, tocca arrangiarsi. E anche il ripensamento del sistema del welfare, che - come dicono gli esperti - potrebbe trovarsi a breve senza fondi, deve passare attraverso il filtro di una riduzione delle risorse disponibili. Il che non vuol dire necessariamente stare peggio: una spesa al supermercato già fatta invece di 100 euro in più in busta paga è un'ottima idea, che semplifica la vita e ottimizza i tempi dei lavoratori, specie se donne e ancor più se madri. La prospettiva è a prima vista entusiasmante. Non sarebbe tollerabile però un potenziamento del welfare solo a favore di chi dispone di un contratto a tempo indeterminato. La crisi chiede anche di guardare a chi più ha bisogno: e in questo momento sono i precari. Marracino e Carnevale accennano al problema nella monografia all'interno del libro: «A fronte della generazione degli inpergaranatiti dal welfare, i cittadini più giovani si trovano di fronte a un saldo fiscale strutturalmente negativo, per il quale non hanno nessuna prospettiva di maturare gli stessi privilegi dei genitori ma si trovano anche a dover obbligatoriamente pagare il conto degli eccessi di debito accumulati». Oggi, scrivono, abbiamo un «welfare recessivo» che «sta scatenando un diffuso e comprensibile risentimento generazionale». Per questo è indispensabile ripensare un nuovo welfare «solidale ma sussidiario, sostenibile e orientato alla produttività e allo sviluppo». Per la società civile, «una priorità assoluta». Ilaria Mariotti Per saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Videointervista a Michel Martone: welfare dei privati, cos'è e a cosa serve- Maternità precaria: per avere un sussidio meglio essere ragazza madre- Indennità di maternità per le precarie, quanto danno le casse previdenziali dei professionisti- La Regione Veneto avvia Welfare to Work: 1.250 stage con rimborso di 600 euro al mese per gli under 30

Il matrimonio diventa low-cost grazie alla start-up siracusana Progetto Wedding

«Tutto è partito da una nostra esigenza: quando stavamo organizzando il nostro matrimonio siamo andati in cerca di prodotti originali sul web. Nessuno offriva questo servizio e li abbiamo acquistati all'estero. Ma tornati dal viaggio di nozze abbiamo fatto un'analisi di mercato dettagliata». A raccontare la nascita di Progetto Wedding è Salvatore Cobuzio (34), che insieme alla moglie Simona Canto (30) [a destra nella foto] e a Laura Bevelacqua (31) hanno dato vita a questa start-up che si dedica al commercio on-line di prodotti legati alle cerimonie.I tre, tutti originari di Siracusa dove ha sede anche l'azienda, si conoscono da una vita. E tra il 2005 ed il 2010 hanno condiviso anche un soggiorno a Roma dove Cobuzio, a quattro esami dalla laurea in Architettura, ha lavorato alle campagne pubblicitarie di Zoomarine e Sammontana. Ed ha anche scritto un libro, “Il testamento di Salvatore Siciliano”, uscito per Fazi, casa editrice della quale è poi diventato direttore marketing. Nel suo staff ha sempre voluto accanto a sé Bevelacqua, che invece si è laureata in Storia e conservazione dei beni culturali. Mentre Canto, nella capitale, ha lavorato come commerciale in diverse realtà.Unico tratto comune, oltre all'amicizia reciproca, il contratto a progetto: «Noi non abbiamo nemmeno mai chiesto qualcosa di diverso, avevamo l'obiettivo di creare qualcosa di nostro. Volevamo uscire dalla Sicilia per fare esperienza per poi lanciare un progetto nella nostra regione, dove i costi di gestione sono più bassi». A cominciare da quelli per la sede, che «a tutt'oggi è ancora casa mia».L'azienda è nata ufficialmente nel settembre del 2011, anche se il sito è andato on-line solo nel gennaio 2012. Il nome scelto parte dall'esperienza delle nozze tra due dei tre fondatori: «Organizzare un matrimonio richiede un progetto». In particolare, il modello di business ricalca i servizi dei quali Cobuzio e Costa avrebbero voluto usufruire prima di sposarsi. Non si tratta solo di vendere bomboniere, abiti, confetti e partecipazioni: «Abbiamo attivato una serie di collaborazioni con wedding planner, fotografi, location e autonoleggi in tutta Italia», un gruppo di professionisti che, in cambio della visibilità offerta dal portale, offrono ai clienti di Progetto Wedding dei prezzi vantaggiosi. E in breve tempo l'orizzonte si è allargato anche alle nascite, ai battesimi, alle feste di compleanno.«Fare e-commerce in Italia è molto duro, la gente non si fida». Per combattere la diffidenza dei potenziali clienti i tre startupper siracusani hanno escogitato «nuove modalità di pagamento, come quello alla consegna. Abbiamo un numero di telefono sempre a disposizione e spediamo anche un semplice campione», così che gli utenti del sito possano decidere l'acquisto avendo toccato con mano il prodotto. I risultati di questa politica non sono tardati: «in un anno abbiamo realizzato quasi 2mila spedizioni e come utenti unici sul sito superiamo i 10mila al mese».Anche sul piano economico, i risultati sono positivi. Il punto di pareggio è stato raggiunto «due giorni dopo la messa on-line, anche perché era molto basso». Il primo mese ha portato un fatturato di 12mila euro, «dopo il primo anno abbiamo superato i 150mila». I tre fondatori riescono così a vivere del loro lavoro ed hanno appena assunto una ragazza di Milano che si occuperà solo di abiti da sposa e un ingegnere torinese che si occuperà di ottimizzare il sito web. In entrambi i casi con contratti a progetto, ma «non appena diventeremo srl passeranno a tempo indeterminato, sono persone che valgono e le vogliamo bloccare».Al momento, infatti, Progetto Wedding è una ditta individuale, «perché i costi sono più bassi: con un migliaio di euro abbiamo registrato l'azienda e creato il sito», ma tra qualche settimana verrà registrata come società a responsabilità limitata. Il tutto grazie ad un aumento di capitale garantito da investitori privati e fondi di venture capital. «Dovremmo raggiungere qualche centinaio di migliaia di euro, ma ancora non possiamo dare notizie ufficiali».Un risultato reso possibile anche grazie alla particolare tecnica di marketing messa in piedi da questa start-up nata con lo scopo di «vendere un sogno e venderlo low-cost». Non un euro è stato investito in pubblicità: «Siamo su Internet tutto il giorno, frequentiamo blog e forum dove si parla di matrimoni e cerimonie in genere. Vediamo cosa cerca la gente e rispondiamo dicendo che noi l'abbiamo». Ed inserendo il link al proprio sito: tutto viral & unconventional marketing, insomma. Il risultato è quello di un'azienda partita da un garage di Siracusa, che tuttora ospita il magazzino dal quale partono i prodotti che vengono spediti anche in Francia e Spagna, ed arrivata tra i finalisti del terzo girone di Wind Business Factor 2012 e del concorso “Prendi parte al cambiamento” di Ing-Direct. E che con l'aumento di capitale punta ad attuare un piano di sviluppo che prevede l'inserimento in azienda di altre dieci persone. Chiamate a contribuire alla realizzazione del Progetto Wedding.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- L'artigianato si vende in Rete grazie alla startup fiorentina Buru-Buru- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull Studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresaVuoi saperne di più sui concorsi per le start-up? Leggi anche:- Al via Wind business factor 2013, il campionato italiano delle start-up

Talento x investimento = risultati: la formula anticrisi per i giovani

Cinque anni. Da tanto dura la crisi economica peggiore dal secondo dopoguerra; ma oggi più che mai in Italia, complice lo stallo politico, si fatica ad intravedere valide soluzioni agli squarci creati nel tessuto produttivo e sociale, a cominciare da un mercato del lavoro in panne. Verrebbe da chiedersi: cosa fare quando tutto sembra non funzionare?Puntare sul proprio talento, risponde Sebastiano Zanolli, 48 anni, da sei direttore generale di una famosa linea di abbigliamento giovanile. «Dovresti tornare a guidare il camion Elvis» è il suo quinto libro (107 pagine, Franco Angeli Editore, disponibile anche in versione e-book), uno di quelli che fa comodo avere tra le mani quando la propria strada sembra difficile da scoprire, o da percorrere. Come successe ad Elvis Presley all'inizio della sua carriera: da camionista aspirante cantante a The King passando per svariati giudizi al vetriolo, come quello a cui si rifà il titolo del libro, pronunciato da un poco lungimirante talent scout. «Che possibilità abbiamo di essere ciò che sentiamo più coerente con la nostra essenza, qual è questa essenza, come arriviamo a capirlo? Quanto contano il parere del prossimo, le situazioni contingenti, la fortuna e il destino, e che reali possibilità ci sono in un mondo così diverso da quello del passato?». Laurea in Economia alla Ca' Foscari di Venezia e un'esperienza ventennale nel marketing di multinazionali del settore abbigliamento (passando per la vendita di software e di condizionatori, leggi qui l'intervista all'autore), Zanolli ha messo su carta i consigli che avrebbe lui stesso voluto ricevere e le riflessioni di un manager tanto di successo quanto singolare, che passa ore a rispondere alle domande e agli sfoghi su Facebook e realizza gratuitamente incontri di orientamento lavorativo per i giovani - coltivando nel frattempo una tenace allergia a giacche e cravatte.Il libro, curiosamente introdotto da una nota di Donatella Rettore, è un invito appassionato a inseguire i propri sogni, a non mollare, a rischiare, a far rumore, a non soccombere alla logica del "tanto non cambia niente". Nonostante la miopia delle classi dirigenti, nonostante i corporativismi, la precarietà dei contratti, le retribuzioni basse, le porte in faccia. O forse grazie a queste difficoltà inedite, nota Zanolli, visto che «la pancia piena, la sicurezza, non pungolano e non fanno scattare alcuna molla motivazionale». Non a caso il volume nasce spontaneamente da un popolare post dell'autore sul proprio blog, intitolato provocatoriamente "Non ce la farai", un po' un leitmotiv della sua gioventù. E invece sì, è il rimbecco implicito. Il segreto? Fare ciò che si ama, scoprire e coltivare il proprio talento. È una conquista, il punto di arrivo di un viaggio. Già la prima fase, la scoperta, può essere faticosa. Molti talenti non sono ovvi, lampanti, ma vanno riportati alla luce. Sebastiano Zanolli spiega il suo personale metodo, fatto di un percorso a ritroso nel passato (cosa da piccoli faceva passare il tempo in fretta, dava più gioia e soddisfazione, sembrava venire naturale?), ricostruzioni di sè nelle parole delle persone più care e test scientifici basati sulla psicologia junghiana. Un mix di introspezione e rigore, alla ricerca di "fili rossi", di indizi: tratti della personalità ricorrenti, abilità singolari, passioni sopite che puntino in una direzione.Ma siamo solo all'inizio: talent is overrated, il talento è sopravvalutato, per dirla con il giornalista Geoff Colvin. «Per ottenere un risultato serve qualcosa in più» spiega Zanolli «un lungo impegno cosciente, intenzionale e ininterrotto». Serve investire rigorosamente su se stessi e lavorare alla costruzione di reti: «quanto tempo alla settimana dedicate a preparare un'alternativa alla vostra situazione? Potrebbe essere studiare, contattare, informarsi, risparmiare». Qui, oggi, lo possono fare tutti. I mezzi non mancano. Ma prima bisogna liberarsi dalla convinzione di essere in credito, e dall'abitudine «a farci compatire più che a farci valere». Come ha scritto l'autore altrove, serve ottimismo e pelle dura. L'antidoto alla paura si chiama azione e nei momenti di difficoltà alcuni pezzetti di storia possono servire a spronarci: «La chitarra va bene John, ma non ti darà certo di che vivere», disse la zia di un giovane John Lennon (parole poi incise su targa) o, appunto, «Dovresti tornare a guidare il camion Elvis».Annalisa Di Palo [foto: Yorick Photography]Per saperne di più su questo argomento: - La pacchia è finita, giovani: ma potete farcela lo stesso. Basta crederci, come Elvis Presley - «Sta a noi, oggi, costruirci un domani migliore»: Rosina smonta gli alibi dell'Italia che non cresce- Al via Controesodo, lo scudo fiscale per il rientro dei talenti in Italia- In Nordafrica i giovani hanno deciso che il loro tempo è adesso. E in Italia?

Crowdfunding e registro delle start-up innovative: il punto sul decreto Passera

La Consob ha aperto una consultazione online sul regolamento per il crowdfunding, 453 imprese si sono iscritte nel registro delle start-up innovative, Mise e Miur hanno stanziato 30 milioni di euro a sostegno delle nuove aziende del Sud.  Questo il punto della situazione a quattro mesi dalla conversione in legge del decreto Sviluppo bis.Il tassello mancante nel mosaico definito dal governo a partire dal rapporto Restart Italia!, realizzato da una task force voluta a inizio 2012 dal ministro Corrado Passera, è appunto quello del crowdfunding, ovvero la possibilità per le imprese di raccogliere finanziamenti attraverso sottoscrizioni in Rete. La norma prevedeva che entro il 19 marzo la Consob, l'autorità che vigila sulla Borsa, definisse le regole del gioco. Una scadenza che l'autorità di controllo dei mercati in realtà non ha rispettato: nelle scorse settimane ha rivolto un questionario a investitori professionali e startupper, sui risultati del quale ha stilato una bozza di regolamento pubblicata sul proprio sito.Questo documento prevede l'istituzione di un registro dei gestori, ovvero un albo dei soggetti che si occupano di piattaforme di crowdfunding al quale deve iscriversi chiunque voglia muoversi nel settore della raccolta di fondi destinati alle start-up. Viene inoltre stabilito il principio per cui la pubblicazione delle offerte sarà possibile se almeno il 5% della somma richiesta sia stata sottoscritta da investitori professionali. Ovvero da fondazioni bancarie, società finanziarie, venture capitalist e incubatori di impresa. A tutela degli aspiranti azionisti, inoltre, i gestori sono tenuti a sottolineare i rischi di perdita dell'intero capitale e di illiquidità, così come il fatto che per i primi cinque anni di attività le start-up innovative non possono distribuire utili. Rispetto a questo documento, gli interessati possono far pervenire le proprie osservazioni entro il 30 aprile. Solo successivamente verrà quindi redatto il testo definitivo.In attesa che la Consob stabilisca le regole perché possano ottenere finanziamenti online, cresce - anche se a passo di lumaca - il numero di start-up innovative che si iscrivono nell'apposito registro istituito dalle singole Camere di Commercio. Lo scorso 25 marzo, data dell'ultima rilevazione, erano 453 le nuove aziende inserite nell'elenco. Il settore maggiormente presente è quello dei servizi, con 325 realtà, seguito da industria ed artigianato rappresentate da 90 imprese. La provincia che vede il maggior numero di iscrizioni è Torino, dove sono 53 le ragioni sociali inserite nell'elenco curato dalla Cciaa. Seguono Milano e Roma, rispettivamente con 31 e 24 start-up innovative.Va molto peggio al Sud: solo 15 in tutta la Puglia, 10 in Sicilia, 4 in Calabria e appena 3 in Campania. Per favorire lo sviluppo di nuoveaziende in queste quattro regioni, però, il ministero dell'Istruzione insieme a quello per lo Sviluppo economico hanno stanziato 30 milioni per finanziare micro, piccole e medie imprese attive da meno di sei anni. I titolari hanno tempo fino al 13 maggio per presentare domanda e ottenere finanziamenti biennali di entità compresa tra i 400mila ed il milione e 200mila euro.Il bando si articola in quattro sezioni. Quella sulla quale si concentra la maggior entità di risorse (14 milioni) è quello culturale: il governo vuole sostenere imprese in grado di sviluppare tecnologie per la valorizzazione dei beni artistici e culturali. Altri 8 milioni vanno al cosiddetto “Big data”, ovvero alle start-up che si occupano della gestione di grandi quantità di dati, mentre 7 sono riservati alla social innovation, cioè ad aziende che lavorano in settori come le energie rinnovabili, l'istruzione, il dialogo interculturale, le produzioni biologiche, la finanza etica. Infine 1 milione di euro viene riservato alle università con sede in queste quattro regioni che sviluppino dei Contamination labs, ovvero spazi aperti a studenti di diverse discipline nei qualsi si organizzino eventi di promozione dell'imprenditorialità e dell'innovazione. L'auspicio è che queste realtà possano rappresentare il brodo di coltura per lo sviluppo di nuove start-up nel Mezzogiorno.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it Vuoi saperne di più sul decreto Sviluppo bis e sul sostegno alle start-up? Leggi anche:- Il decreto per le start-up è legge. E comincia già a far discutere- Start-up, la task force lavora a criteri più inclusivi e accelera sul decreto attuativo- «Restart Italia», con il decreto Sviluppo bis arrivano (quasi tutte) le proposte per le start-up- «L'Italia riparta dalle start-up»: ecco il piano del ministro PasseraVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- L'artigianato si vende in Rete grazie alla startup fiorentina Buru-Buru- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Inoccupati e disoccupati, distinzione complicata. E da luglio cambierà tutto

Che differenza c'è tra disoccupati e inoccupati? Sembra assurdo, anche perchè su queste definizioni spesso si basa la possibilità di accedere a iniziative di sostegno all'occupabilità, ma una risposta univoca non c'è. Perchè la distinzione non è uniforme su tutto il territorio nazionale. I centri per l'impiego applicano infatti criteri differenti per stabilire se i cittadini privi di lavoro debbano iscriversi all’una o all’altra categoria. Entro il luglio di quest’anno, però, la situazione potrebbe cambiare. E finalmente i cpi di Roma potrebbero adottare gli stessi criteri dei Cpi di Milano o Napoli. Il punto di svolta arriva dalla legge 92 del 2012, più nota come «riforma Fornero», che modifica i criteri di perdita e sospensione dello stato di disoccupazione, eliminando la possibilità di conservare tale status pur percependo un reddito massimo di 8mila euro (per i lavoratori dipendenti) o 4.800 euro (per i lavoratori autonomi) lordi l’anno. È stata inoltre ridotta da 8 a 6 mesi la durata dei contratti di lavoro subordinati che permette di sospendere lo stato di disoccupazione. Queste novità non sono ancora entrate in vigore, ma dovranno essere recepite dalle Regioni con dei regolamenti appositi entro il primo luglio del 2013. Sarà proprio l’inasprimento dei requisiti per la disoccupazione a permettere di far chiarezza sulla distinzione tra inoccupati e disoccupati.«La definizione esatta di “inoccupato”? In teoria è colui che non ha mai avuto un’esperienza di lavoro. In pratica, però, non esiste ancora una risposta chiara e univoca. Per capire perchè bisogna ripercorrere un po’ di storia della normativa italiana in materia di disoccupazione». Così Grazia Strano, responsabile della Direzione generale per le politiche dei servizi per il lavoro del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, chiarisce con la Repubblica degli Stagisti una questione che a tutt’oggi solleva molti dubbi e perplessità tra i lettori.«Il decreto legislativo 181 del 2000 ha abolito le vecchie liste di collocamento istituendo un’anagrafe dei lavoratori», spiega Strano. Il decreto distingue tra disoccupati e inoccupati: i primi sono individui di età superiore ai 15 anni, che abbiano assolto gli obblighi dello studio e che abbiano già avuto un lavoro retribuito in passato; devono essere sì privi di impiego, ma anche immediatamente disponibili sia a lavorare, sia a ricercare il lavoro.  Per gli inoccupati valgono sostanzialmente gli stessi requisiti, con una importante differenza di base: si tratta di individui che non hanno mai avuto contratti di lavoro. Spesso, quindi, gli inoccupati sono neolaureati o neodiplomati che rientrano nella crescente percentuale di giovani privi di impiego in Italia.Fin qui la distinzione tra disoccupati e inoccupati sembra lineare. Le cose si complicano quando si tiene conto delle condizioni per la conservazione dello stato di disoccupazione anche durante lo svolgimento di attività lavorative. Stando alla vecchia normativa (che verrà soppiantata a luglio dall’entrata in vigore della legge 92), chi è iscritto all’anagrafe dei lavoratori resta comunque disoccupato anche qualora abbia un contratto di lavoro dipendente, cococo o quale socio di una cooperativa, a patto però che il reddito annuo lordo imponibile non superi la soglia degli 8mila euro. Stesso discorso per i lavoratori autonomi, i liberi professionisti, i titolari di partita Iva e i prestatori d’opera occasionali che non guadagnino più di 4.800 euro lordi l’anno. Lo stato di disoccupazione è invece sospeso in presenza di rapporti di lavoro subordinato della durata inferiore agli 8 mesi (che diventeranno 6 con la nuova legge).Dov’è l’inghippo? «Il decreto 181 agisce come una legge quadro; sono le Regioni che devono disciplinare concretamente l’attuazione sul territorio» chiarisce Strano. E su questo punto specifico non tutte le amministrazioni locali hanno adottato un orientamento uniforme. Così, ci sono regioni che prendono alla lettera la definizione di “inoccupati”: «Basta avere effettuato anche soltanto un giorno di lavoro per passare dallo stato di inoccupato a quello di disoccupato», commentano dal Cpi di Catanzaro. Giuseppe Squillace, responsabile dei Cpi di Rozzano e Corsico (Milano), concorda con questa interpretazione e specifica ulteriormente: «Non importa la tipologia di rapporto di lavoro. Che sia un apprendistato portato a termine o lasciato dopo poche settimane, un cococo, una prestazione da libero professionista: aver svolto in precedenza una qualsiasi di queste attività comporta il passaggio da inoccupato a disoccupato». Restano esclusi da questo principio soltanto gli stage che, per l’appunto, non sono rapporti di lavoro ma di formazione.Ci sono poi le Regioni che hanno fornito un’elaborazione più articolata della legge. Il principio è questo: se i limiti di 8mila euro e 4.800 euro per i lavoratori dipendenti e autonomi sono sufficienti a conservare la disoccupazione, allora valgono anche per mantenere lo status di inoccupato. Dal Cpi di Empoli lo spiegano chiaramente: «Possono iscriversi alle liste degli inoccupati, fermi restando i requisiti generali, tutti i lavoratori che in passato abbiano avuto contratti di lavoro di durata inferiore a 8 mesi e con retribuzione compresa entro i 4.800 - 8mila euro lordi l’anno. Se un qualsiasi rapporto di lavoro passato ha superato queste soglie, allora è possibile iscriversi alle liste dei disoccupati».In questo quadro interviene , però, la distinzione tra inoccupati e disoccupati potrebbe diventare più chiara, o almeno essere trattata uniformemente a livello nazionale. «La legge 92, articolo 4, comma 33, lettera c, ha parzialmente modificato il decreto 181. Ha eliminato i requisiti di conservazione dello status di disoccupazione. Chi fa un lavoro temporaneo, anche da 2mila euro lordi l’anno, perde comunque lo stato di disoccupato. Le Regioni hanno manifestato la volontà di adottare delle discipline omogenee che recepissero le novità normative introdotte nel 2012. Hanno però riscontrato delle difficoltà a disciplinare in materia in tempi brevi. Si sono quindi date un limite temporale per l’emanazione dei regolamenti regionali: il primo luglio del 2013», conclude Strano.In attesa del nuovo quadro disciplinare omogeneo, ad oggi è possibile dare i seguenti consigli pratici ai giovani senza lavoro che debbano iscriversi ai Centri per l’Impiego: prima di tutto, è bene tenere conto di tutti i lavori svolti in passato, anche quando si trattava di collaborazioni occasionali. Per sicurezza, conviene chiamare il Cpi di riferimento sul territorio e chiedere quale sia la politica locale in materia di disoccupati e inoccupati. Infine, non bisogna confondere l’apprendistato (che è un contratto a tempo indeterminato a tutti gli effetti) con i tirocini (che sono invece rapporti di formazione e quindi non vanno considerati al momento dell’iscrizione alle liste dei disoccupati o degli inoccupati). Tenendo sempre ben presente che da luglio cambia tutto.di Andrea CuriatPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Inoccupati, disoccupati, stagisti: facciamo chiarezza- Tirocini extracurriculari, linee guida approvate: le Regioni legiferino entro luglio- Simoncini: «Positive le linee guida sugli stage: ora vigilate affinché ciascuna Regione le renda al più presto operative»- La Corte costituzionale annulla l'ultima legge sugli stage: «Solo le Regioni competenti in materia»

Reddito minimo garantito, le proposte dei partiti

Cosa pensano i partiti in tema di reddito minimo? Alcuni, come il Movimento 5 Stelle, fanno della proposta di introdurre sussidi universalistici pagati dallo Stato una vera e propria bandiera. Ma con cognizione di causa?Nelle 15 pagine di programma del M5S si trova il sussidio di disoccupazione garantito; però a più riprese nei comizi elettorali Beppe Grillo a dire il vero ha parlato di reddito di cittadinanza: «Il lavoro non c'è più. Io voglio fare solo una cosa: mettere la possibilità di sopravvivere senza un lavoro. Fare un reddito di cittadinanza». Il che significherebbe stabilire una cifra mensile che ciascun cittadino, senza nessuna restrizione, avrebbe diritto di ricevere dallo Stato in cui vive: questo è, tecnicamente, il reddito di cittadinanza – una misura molto più onerosa per le casse dello Stato. Grillo sostiene che l’Italia è l’unico Paese a non averlo in Europa, e nei comizi aggiunge: «Allora hai tre anni di tempo per cercarti un lavoro che ti compete un po' di più, perché accettare qualsiasi lavoro non è lavoro». Da tutto questo si capisce che il M5S fa un po’ di confusione con la terminologia, e che quello che si ripropone di realizzare è una versione ibrida di reddito minimo garantito – infatti alcuni parlamentari del M5S parlano di “sussidio condizionato”. Anche il Pd ha toccato l’argomento negli “otto punti per un governo di cambiamento” presentati dopo le elezioni: Bersani ha proposto un salario minimo per chi è senza copertura contrattuale, un'indennità di disoccupazione universale, e un reddito minimo di inserimento, un termine, quest'ultimo, mutuato dai nostri cugini d'Oltralpe. Nel programma di Sinistra Ecologia e Libertà si parla invece esplicitamente di un reddito minimo garantito di 600 euro al mese, ma in diverse occasioni Nichi Vendola ha affermato la necessità di introdurre un reddito di cittadinanza. Per capire in cosa consistono concretamente le proposte delle tre forze politiche presenti in Parlamento che chiedono l'introduzione di in reddito minimo, La Repubblica degli Stagisti ha chiesto chiarimenti a tre esponenti esperti in materia. La proposta del M5S. Sussidio di disoccupazione, reddito di cittadinanza o reddito minimo garantito? «In realtà si tratta di un ibrido tra un reddito di inserimento e un sussidio di disoccupazione, una sorta di “salario sociale”», spiega Mauro Gallegati, 55 anni, professore di Economia politica all'università politecnica delle Marche e consulente economico del M5S. «Quello che abbiamo in mente è un sussidio di 1.000 euro erogato per tre anni a tutti i disoccupati, indipendentemente dalla forma contrattuale, a condizione che il beneficiario si impegni a cercare attivamente lavoro. Accanto a questo sussidio vorremmo poi introdurre una sorta di “reddito di inserimento” per i giovani alla ricerca della prima occupazione: potrebbero essere 500 euro per un massimo di quattro anni. Il fatto che si tratti di misure limitate nel tempo fa sì che non si creino pericolosi meccanismi di disincentivazione al lavoro e rende economicamente sostenibile la proposta. Secondo le nostre stime, costerebbe circa 25-30 miliardi all'anno. Ma da questa somma bisognerebbe scorporare i 18 miliardi di costi degli ammortizzatori sociali già esistenti, frammentati e non universali (indennità di disoccupazione, cassa integrazione, mobilità), che verrebbero assorbiti da questo sussidio». Quanto al meccanismo di decadenza, Gallegati ha in mente una sorta di “condizionatezza temperata”: «Nella nostra idea, che però è ancora in fase embrionale, il sussidio cesserebbe solo se il beneficiario rifiutasse offerte di lavoro “congrue”, cioè adeguate alle sue qualifiche. Non si può chiedere a un ingegnere di accettare un impiego da cameriere, non perché sia un lavoro meno dignitoso, ma perché in questo modo andrebbero persi talenti e competenze preziosi per la nostra società». 
La proposta del Pd. Cos’è il reddito minimo d'inserimento, uno dei punti in programma per il prossimo governo? A spiegarlo è Stefano Fassina, deputato e responsabile del settore economia e lavoro del Pd, 46 anni: «Intendiamo un reddito di ultima istanza per chi, in età attiva, si trovi temporaneamente senza impiego e sia disponibile a lavorare e a partecipare ad attività di formazione per la rioccupabilità. Si tratterebbe quindi di uno strumento di contrasto alla povertà e insieme di reinserimento lavorativo. Andrebbe ad affiancare l’indennità di disoccupazione, che a sua volta dovrebbe essere riformata e universalizzata. Sarebbe una misura pensata per chi non ha mai lavorato, per chi ha esaurito il periodo di sussidio di disoccupazione e per chi lavora in modo discontinuo o intermittente. Lo immaginiamo come un reddito mensile di circa 500 euro, di durata illimitata ma strettamente condizionato alla disponibilità ad accettare un lavoro che rientri in in un range di adeguatezza rispetto al proprio profilo professionale». Il costo di una misura del genere? «Difficile dirlo, sono troppe le variabili da stabilire, come ad esempio la soglia reddituale e patrimoniale da non superare per averne diritto. Noi vorremmo dei parametri piuttosto stringenti, in modo da aiutare chi ha davvero bisogno di assistenza. Immaginiamo una spesa non troppo lontana da quella sostenuta dalla Francia, circa 10 miliardi di euro l'anno. Se è vero che il Pil francese è un quinto più alto del nostro, è vero anche che la soglia di reddito sotto cui intervenire sarebbe sicuramente inferiore, perché purtroppo in Italia gli stipendi sono più bassi e una persona che guadagna 1.400 euro lordi non è considerata affatto bisognosa di aiuto». La proposta di Sel. Reddito minimo garantito o reddito di cittadinanza? «La confusione è solo nella scelta lessicale, non nelle idee, che il partito ha molto chiare già da tempo» assicura alla Repubblica degli Stagisti Marco Furfaro, 32 anni, responsabile delle politiche giovanili di Sel, primo dei non eletti al consiglio regionale malgrado le 4.737 preferenze. «Un reddito minimo garantito di 600 euro al mese a tutte le persone inoccupate, disoccupate e precariamente occupate con un reddito personale imponibile inferiore a 7.200 euro, residenti sul territorio nazionale da almeno 24 mesi. Questa è la proposta di legge di iniziativa popolare che Sel ha fortemente sostenuto insieme a oltre 170 associazioni e che ora è pronta a sbarcare in Parlamento», afferma Furfaro. «Il sussidio andrebbe ovviamente ricalcolato in base al numero di familiari a carico: si passa dai 600 euro per un single ai 1.000 per un nucleo di due persone ai 1.330 per tre. Il mio partito intende il reddito minimo come un programma di welfare e non solo come misura assistenziale: è un'opportunità che consentirebbe di vivere con dignità le delicate fasi di passaggio tra un lavoro e l’altro e offrirebbe finalmente tutele adeguate anche ai soggetti più esposti ai rischi di esclusione sociale, come giovani, precari e donne». Come risolvere il problema di coniugare il reddito minimo garantito con l’esigenza di mantenere alta la propensione al lavoro? «Attraverso un sistema di ricollocamento attivo che segua in maniera efficiente il percorso di reinserimento di ogni singolo lavoratore, lo aiuti nell’attrezzarsi alle nuove sfide del mondo del lavoro e condizioni il mantenimento del reddito minimo alla sua disponibilità effettiva ad accettare offerte di lavoro compatibili con le sue competenze. A Roma per esempio nel 2011 è nata Porta Futuro, una struttura moderna pensata per incoraggiare l’incontro tra domanda e offerta. Qui disoccupati e inoccupati possono accedere a servizi di orientamento, bilancio di competenze, stesura del cv, mentre le aziende hanno a disposizione servizi mirati per il reclutamento del personale, che vanno dalla preselezione al career day. Non solo: il centro romano aiuta anche chi intende intraprendere un’attività autonoma, ad esempio favorendo l'incontro tra persone interessate a condividere spazi e spese attraverso il coworking».E i costi? «È molto difficile fare una stima, perché la platea dei possibili beneficiari cambia ogni giorno e perché molto dipende da come verrebbe riorganizzato il welfare, e quindi da quali e quanti strumenti esistenti verrebbero assorbiti. Per dare un'idea almeno sull'ordine di grandezza, Sel ha previsto un costo annuo compreso tra i 10 e i 14 miliardi di euro. Una cifra che potrebbe essere abbattuta se avessimo delle politiche per l'occupazione efficienti e funzionali, ma anche una riforma strutturale di questi servizi avrebbe ovviamente i suoi costi, difficilmente quantificabili». Al di là della proliferazione di termini, dunque, sembra che Sel e Pd possano facilmente convergere in una proposta di reddito minimo garantito che abbia caratteristiche di universalità, durata illimitata e condizionatezza “temperata”, subordinata cioè al criterio della “congruità” dei lavori offerti rispetto alle competenze del singolo. Una soluzione che, nonostante le tante variabili ancora da stabilire, si inserirebbe pienamente nello schema delle misure di sostegno al reddito europee. Paradossalmente la proposta del M5S, urlata dalle piazze di mezza Italia e presentata come rivoluzionaria ed “esplosiva”, è non solo quella ad oggi meno definita e più confusa, ma anche la meno innovativa, perché si configura più come un'estensione (nel tempo e nella platea dei beneficiari) del sussidio di disoccupazione che come un reddito minimo garantito. Una misura ancora una volta frammentata e non universalistica, che prevede significative differenze di tutela per disoccupati e giovani inoccupati. Alle urla di Grillo bisogna però riconoscere il merito di aver portato per la prima volta il tema al centro della discussione politica e di aver costretto a una presa di posizione più decisa anche un partito sinora molto cauto come il Pd. Anna GuidaPer approfondire questo argomento, leggi anche:- Radiografia del reddito minimo garantito: cos'è, quanto costa, come funziona- Abolire la legge Biagi e dare mille euro di sussidio a tutti: grillini, fate chiarezza sul programma e sulla copertura dei costiE anche:- Luca Santini: sì al reddito minimo per affrontare la precarietà- Pietro Ichino: il reddito minimo può funzionare solo a certe condizioni