Categoria: Approfondimenti

Una startupper sarda negli States: «Qui conta il merito. Ma si può fare anche in Italia»

Oggi Lea Psiche parte per Los Angeles. Qui cercherà il successo per RunOrder, la start-up che ha fondato nel 2011 a New York. E lavorerà per far crescere UnsubscribeDeals, l'azienda cui ha dato vita a maggio di quest'anno insieme al suo fidanzato Edwin Hermawan [con Lea nella foto]. Nata a Sassari 28 anni fa, dopo un diploma di ragioneria si è iscritta ad Economia e marketing internazionale all'università di Modena, ma «non ho mai finito gli esami». Tornata in Sardegna, ha provato con Economia del turismo ad Olbia, anche in questo caso senza successo. Quindi ha trovato lavoro in uno studio contabile. Dopo due anni, però, ha lasciato un contratto part-time a tempo indeterminato e ha deciso di attraversare l'Atlantico.Nella Grande Mela Lea è arrivata nel 2009 per studiare l'inglese. Invece ha trovato un fidanzato, è riuscita a completare gli studi visto che a dicembre tornerà a New York per discutere una tesi in Business of administration alla Borough of Manhattan Community College, e ha lanciato due start-up. Appena arrivata, per riuscire a mantenersi ha iniziato a lavorare come cameriera in una pizzeria gestita da italiani. Un'occupazione che le ha dato da vivere fino ad oggi e che soprattutto le ha dato l'idea per Runorder. Sì perché a fine serata, oltre a pulire la cucina e apparecchiare i tavoli per il giorno successivo, i titolari devono anche ordinare cibo e bevande. «Si fa al telefono, lasciando un messaggio in una segreteria telefonica». Il risultato è che tra il caos del locale e le difficoltà linguistiche, «nelle cucine la maggior parte del personale parla spagnolo», non sempre quello che si ordina coincide con ciò che viene effettivamente consegnato: «con il mio accento italiano mi è capitato che chiedessi una cosa e ne arrivasse un'altra».Di qui l'idea di un sito che possa semplificare la vita sia ai ristoratori che ai distributori. «Come prima cosa sto lanciando una sorta di servizio di listing: si tratta di offrire ai locali una lista di fornitori». Dei quali Lea, che si definisce «ossessionata dalla ricerca», ha elaborato un portfolio di 25 aziende. Ma ha già raccolto altri 700 nominativi, che sta piano piano contattando per inserirli nell'elenco da sottoporre ai ristoratori. Il passo successivo è quello di permettere a questi ultimi di effettuare gli ordini via Internet. Pochi clic invece di una telefonata ad una segreteria telefonica nel cuore della notte. Bene, ma come guadagnerà l'azienda, che al momento non fattura ancora? «Ai distributori chiederemo un abbonamento mensile di 49,99 dollari. E quando partirò con gli ordini chiederò un contributo per ogni consegna».Al momento il servizio è pronto a partire a New York, ma da oggi Lea lavorerà per attivarlo anche a Los Angeles, la città natale del suo fidanzato dove si sono trasferiti insieme. E dove si sposterà anche la sede di RunOrder, visto che questa giovane startupper ha sempre lavorato alla sua azienda dal computer di casa. Il primo comandamento resta quello del contenimento delle spese: «finora ho investito meno di 10mila dollari, in parte risparmi miei, in parte della mia famiglia». Per quanto riguarda il personale, ci sono solo due collaboratori: il programmatore e il designer. Per trovare quest'ultimo «ho cercato su un sito che si chiama Dribbble.com e ho 'incontrato' questo ragazzo polacco: non ci siamo mai visti e ci sentiamo via mail». A queste si sono aggiunte alcune spese legali e di registrazione del marchio. E il capitale sociale? «Non c'è nessun capitale, visto che ho fondato una corporation». Qualcosa di simile alla ssrl italiana, la cosiddetta impresa a 1 euro.Una formula che in Italia è stata molto criticata: chi fornirà beni e servizi ad un'azienda che non ha capitale sociale? «È proprio questa la differenza: un americano non ti taglia le gambe, non ti chiede dove pensi di andare senza soldi. Piuttosto, pensa che hai un'idea e potresti fare milioni di dollari. E, se hai le carte, te le puoi giocare». Una reale meritocrazia, quindi? «Sicuramente puoi sentire quanto conti il merito, specie se avvii una tua attività. Anche il governo ti da un'opportunità di sviluppare i tuoi progetti, riducendo le tasse nel primo anno di start-up».Bene, ma tutto questo è fattibile in Italia? «Certo che si può fare, basta volerlo. Mi da fastidio sentire lamentele in continuazione: nemmeno in America avevo delle opportunità, me le sono create. So benissimo che potrebbe andare male, ma ho già in mente altri due progetti di start-up». Una è solo un'idea, che Lea si tiene ben stretta. L'altra, invece, ha già preso forma con UnsubscribeDeal, la società che ha fondato con il fidanzato Edwin. In un Paese in cui le caselle di posta elettronica sono invase ogni giorno da decine di email di annunci, sconti, promozioni, l'idea è di offrire un servizio che aiuti a mettere un po' d'ordine. «È nata come uno scherzo, poi a maggio di quest'anno l'abbiamo lanciata sul serio: gli utenti pagano 2,99 dollari al mese e il nostro software li cancella da tutte queste newsletter, cui magari non ci si è nemmeno iscritti, riconosce lo spam e pulisce la casella di posta. Dopodiché, l'utente può decidere di crearsi un'email in cui vengono elencate solo le offerte preferite». È per sviluppare queste due aziende che Lea si trasferisce in California: l'idea è di farle crescere innanzitutto negli Usa. Ma «sto già lavorando ad una versione italiana».Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Guk Kim, il giovane coreano che suggerisce agli italiani dove andare a mangiare: con un'app- Il mouse diventa smart grazie a cinque giovani startupper mantovani- Da Viterbo a Parigi passando per l'India, anche la moda fa start-up- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Riscatto della laurea: conviene ancora?

Giovani e pensioni, un binomio che preoccupa in tempi di disoccupazione e di salari bassissimi. E di lavoro che arriva in età sempre più avanzata. Ma per chi volesse iniziare in anticipo la propria vita previdenziale, senza aspettare l'inizio dell'attività lavorativa, esiste la possibilità di riscattare il periodo di laurea, opzione che peraltro non è granché pubblicizzata sui siti delle università. La richiesta, che può essere inoltratata in qualunque momento da chi abbia ottenuto un titolo accademico (valgono tutti i diplomi di laurea, i dottorati di ricerca, le specializzazioni di almeno due anni e anche la doppia laurea), può essere indirizzata all'Inps o alle altre casse pensionistiche dei professionisti, come l'Inpgi, l'istituto di previdenza per giornalisti, o la Cassa Forense per gli avvocati. Le condizioni sono simili: a cambiare sono soprattutto le modalità di pagamento e gli interessi applicati, ma per tutte resta ferma l'esclusione dei periodi di iscrizione fuori corso e di quelli già coperti da contribuzione obbligatoria, quindi i casi di studenti lavoratori con regolare contratto. Per le domande pervenute dopo il 2008 c'è poi una buona notizia: da questa data il riscatto della laurea è aperto anche agli inoccupati (prima era necessario il requisito di contribuente), con un onere molto più leggero rispetto agli stipendiati e suddivisibile, per l'Inps, fino a 120 rate senza l'aggiunta di interessi. Il calcolo qui va realizzato sulla base del «livello minimo imponibile annuo degli artigiani e commercianti moltiplicato per l'aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche». A conti fatti sono circa 5mila euro per ogni anno da riscattare (sul sito Inps è possibile anche simulare il calcolo) e il riscatto è deducibile con una percentuale del 19% sull'Irpef (vale anche per chi è a carico dei genitori).Ma dopo l'approvazione del decreto salva Italia e la conseguente riforma del sistema pensionistico, conviene ancora riscattare la laurea? La questione centrale è capire se far fronte all'onere sia utile al fine di diminuire i tempi necessari per andare in pensione. La stretta sull'età pensionabile introdotta con la riforma Monti, per cui - al netto degli adeguamenti nel corso degli anni - non si va in pensione prima di raggiungere i 66 anni di età, ha reso pressoché illusoria la possibilità di avvalersi del riscatto della laurea ai fini del raggiungimento del diritto alla pensione. E questo perché l'unica strada per poterlo fare sarebbe quella di richiedere la pensione anticipata, ovvero a prescindere dal requisito dell'età, una volta raggiunti i 42 anni (41 per le donne) di contribuzione - sempre al netto degli adeguamenti all'allungamento della durata della vita. Ma è decisamente più frequente il caso di chi riesce a maturare la pensione per età che per anni di contributi versati: si dovrebbe infatti immaginare il caso limite di un trentenne che abbia iniziato a lavorare molto presto, a 22 anni, e che riesca a riscattare i quattro anni del corso di laurea e a mettersi a riposo a 65 anni, invece che a 67 (perché avrà maturato i suoi 41 anni e passa di contributi). Se però avesse iniziato a lavorare a 25, come più probabile, allora il computo degli anni di laurea sarà del tutto inutile perché potrà lasciare il posto di lavoro per motivi di età prima che per aver versato 40 anni di contributi. Stesso discorso per le generazioni successive: quello che paga è aver cominciato a lavorare prestissimo, altrimenti è molto più facile che arrivi prima l'età pensionabile che la pensione anticipata (considerando i progressivi adeguamenti alla durata della vita).  C'è poi la valutazione di convenienza dal punto di vista economico. Per questo aspetto la matassa risulta ancora più ingarbugliata perché occorre mettere sul piatto della bilancia la spesa da affrontare e la stima di quello che si andrà a percepire in futuro. E le variabili da mettere in conto sono molteplici. Per quanto riguarda il calcolo dell'importo da versare, si legge sul sito dell'Inps che per i periodi da riscattare anteriori al 31 dicembre 1995 «l’onere sarà diverso in rapporto a fattori variabili quali l’età, il sesso e le retribuzioni percepite negli ultimi anni». Qui infatti si applica ancora il sistema retributivo. Per chi invece rientra in toto nel sistema contributivo (primo contributo dopo il 1° gennaio 1996), «si applica  l'aliquota contributiva in vigore alla data di  presentazione della domanda di riscatto». Perciò, ipotizzando un reddito lordo di 14mila euro l'anno (la media per un giovane precario), con un'aliquota del 33%, per riscattare la laurea sarebbero necessari circa 18.500 euro. Per chi guadagnasse 32mila il costo complessivo dell'operazione lieviterebbe a circa 42mila euro. Una cifra non da poco, che merita un'attenta valutazione. A detta dell'ufficio stampa dell'Inps «la situazione è talmente variabile da persona a persona, che è praticamente impossibile stabilire la convenienza o meno del riscatto». «L'incidenza sull'importo della pensione dipende anche dalla durata della vita per cui è davvero difficile trarre delle conclusioni» aggiunge uno degli addetti stampa alla Repubblica degli Stagisti. È evidente infatti che il calcolo dei contributi versati potrà essere spalmato su solo pochi anni o su decenni, a seconda della longevità di un individuo. Su Facebook l'ente previdenziale ha creato una pagina dedicata all'argomento, postando video e aggiornamenti di status che invitano i giovani a «trasformare i propri anni di studio in anni di lavoro». A dimostrazione che ci tiene proprio a che nascano nuove generazioni di contribuenti pronte a crearsi una prima assicurazione sul futuro. Ma su quanti in effetti abbiano usufruito negli ultimi anni di questa possibilità non c'è per ora un dato certo: la Repubblica degli Stagisti ha chiesto all'Inps il numero dei riscatti richiesti negli ultimi anni ma purtroppo il dato non è immediatamente disponibile. Quando sarà noto quel numero, si potrà anche capire se il trend dei riscatti è in crescita o in decrescita.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- «Caro Gesù Bambino, ti chiediamo una pensione per i precari»: il direttore della Repubblica degli Stagisti e altri quattro giovani scrittori lanciano una proposta- «Le mie pensioni»: quanto prenderanno domani i precari di oggi?- Lavoro e pensioni, cosa sono i contributi figurativi e come cambierebbero con la riforma- Emergenza contributi silenti: le idee in campo per risolvere il problema delle pensioni di domani dei precari di oggi

Guk Kim, il giovane coreano che suggerisce agli italiani dove andare a mangiare: con un'app

«L'idea mi è venuta viaggiando. Per cercare un ristorante contattavo i numeri a pagamento, ma l'operatore mi dava solo l'indirizzo. Toccava a me camminare fino al locale per scoprirne l'aspetto, l'offerta e i prezzi. Da lì ho deciso di costruire un'app che fornisse tutte queste informazioni, dando risalto alle immagini». Guk Kim spiega così la genesi di Cibando, applicazione gratuita per iPhone e Android scaricata su più di 450mila telefonini.Nato 23 anni fa in Corea del Sud, si è trasferito a Roma quand'era molto piccolo, ha studiato nel nostro paese e si sente a tutti gli effetti italiano: tutti meno uno, visto che sta ancora aspettando di ottenere la cittadinanza. Sul recente dibattito sulla possibilità di riconoscerla ai figli degli immigrati nati in Italia infatti ha le idee molto chiare: «Mi scontro tutti i giorni con le difficoltà incontrate dagli stranieri. Eppure col mio lavoro di imprenditore io contribuisco allo sviluppo del mondo degli affari italiano, fornisco impiego, creo reddito e indotto».Sono infatti una cinquantina i blogger, fotografi, videomaker coinvolti nel progetto Cibando. Tutti «liberi professionisti che collaborano con noi», raccontando i ristoranti che scelgono questo canale innovativo per farsi conoscere. Oltre a loro ci sono due persone assunte, il responsabile del settore commerciale e la content manager. Il loro compito è quello di aggiornare giorno dopo giorno l'applicazione, che rappresenta una vetrina per gli esercizi che, pagando una somma una tantum - un po' meno di mille euro - ottengono la possibilità di pubblicare una descrizione del locale, del menù e del servizio, corredata di immagini e video. C'è poi un motore di ricerca che permette di visualizzare su una mappa il ristorante più vicino: così, dopo essersi fatti un'idea sull'offerta, ogni utente può decidere se cenare lì o continuare a cercare.La formula ha già convinto un migliaio di locali: un portafoglio clienti importante per una start-up nata solo nel 2011, anche se «non siamo ancora arrivati al pareggio». Laurea in Economia ottenuta alla John Cabot University, ateneo americano con sede a Roma, Guk in realtà lavora da quando era adolescente. «Sono molto orgoglioso del mio percorso» racconta «ho cominciato a sviluppare siti web a 15 anni, mentre ancora andavo a scuola, lavorando sulla personalizzazione delle pagine MySpace». Quindi tre anni fa ha creato Mobatar, società che si occupa di promozione e marketing web sui cellulari. E da qui è nata Cibando, un capitale versato di 20mila euro e spese di avvio complessive per 50mila euro, tutte finanziate «grazie ai miei risparmi. Non mi sono mai sognato di chiedere un finanziamento alle banche, visto che gli istituti di credito non fanno investimenti rischiosi in start-up». Per questo Guk ha iniziato, lo scorso anno, a presentare il proprio progetto a fondi di venture capital a livello internazionale. Il primo riscontro positivo è arrivato dal tedesco Point Nine Capital, che gli ha concesso un finanziamento - il cui ammontare resta però riservato. A quel punto, era l'agosto del 2011, il giovane startupper si è trovato di fronte alla necessità di dare con urgenza una forma giuridica a Cibando. Non trovando un notaio disponibile in Italia è volato a Londra, dove ha dato vita ad una stable organisation, quella che per il diritto britannico è una società intestata ad un non residente. Volendo fare un paragone con l'Italia, si tratta di «una sorta di società a responsabilità limitata, ma più snella».Il nome invece è nato «da un brainstorming intorno ad una tavola imbandita, tra amici». Superate le difficoltà iniziali, legate ai «costi elevati del notaio» (evidentemente anche in Inghilterra questa categoria spicca per le parcelle salate), Guk si è concentrato per promuovere la sua start-up «con un marketing aggressivo e una presenza virale in rete. Poi col tempo e i finanziamenti abbiamo strutturato un budget per investire nell'autopromozione». A metà settembre Cibando ha rinnovato il proprio sito web, dando maggiore risalto alle immagini del cibo e inserendo una sezione dedicata alle novità, ovvero agli ultimi ristoranti che hanno deciso di utilizzare questa applicazione per farsi conoscere. Ed è stato inserito tra i media partner per la prima edizione di Taste of Roma, festival della ristorazione che ha appena chiuso i battenti dopo tre giorni intensivi di performance di 12 tra chef e ristoranti della capitale. L'azienda è stata coinvolta nella produzione dei video che hanno accompagnato la manifestazione. 'Conquistata' Roma, Guk non ha però alcuna intenzione di fermarsi: «Ci stiamo attivando per espandere l'attività e coprire un territorio sempre più vasto, offrendo Cibando su scala internazionale». Nella speranza che, nel frattempo, la sua domanda per diventare cittadino italiano a tutti gli effetti ottenga una risposta.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Il mouse diventa smart grazie a cinque giovani startupper mantovani- Da Viterbo a Parigi passando per l'India, anche la moda fa start-up- I video virali partono da Palermo: la storia di Mosaicoon, start-up dell'anno 2012- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Le aziende cercano grafici e ingegneri del web: ma non ce ne sono

Gli esperti lo chiamano skill shortage (letteralmente 'mancanza di competenze') ed è uno dei paradossi del mercato del lavoro italiano. A fronte di numeri sulla disoccupazione in continua crescita (le ultime stime Istat arrivano al 35% per i 15-24enni) esistono infatti dati altrettanto allarmanti sui posti di lavoro che restano scoperti ogni anno per l'impossibilità da parte delle aziende di reperire risorse adeguate: secondo l'ultimo rapporto Unioncamere nel solo 2011 sono sfumate ben 117mila occasioni di lavoro. Ma a essere interessate dal fenomeno – e questa è la vera notizia - non sono soltanto le professioni più strettamente manuali (falegnami, piastrellistri, carpentieri...) - per lo più snobbate da chi ha una formazione accademica e a ragione si orienta su altro - ma anche mestieri che richiedono una preparazione teorica, perfino universitaria. Come è possibile? La Repubblica degli Stagisti vuole fare luce sulla questione attraverso una serie di focus sulle professioni che rimangono ai margini della domanda di lavoro. Dai numeri di Unioncamere emerge che uno dei settori colpiti è quello dell'informazione e comunicazioni, dove è il 3% delle offerte di lavoro a restare senza risposta, lasciando vacanti posti di lavoro come ingegneri delle comunicazioni, gestori e grafici web, designer. Secondo il rapporto più di un quinto delle posizioni aperte nelle aziende (il 22% del totale delle assunzioni) riguarda questo settore, eppure tali risorse sono considerate di difficile reperimento per ridotto numero dei candidati o loro inadeguatezza. Per la maggior parte di queste imprese (di cui l'insieme principale, circa 20mila, è situato al Nord Ovest) il motivo è che poche persone esercitano la professione o sono interessate a esercitarla. Una percentuale, pur molto ridotta (il 2%), pensa di rivolgersi quindi a personale immigrato per mancanza di italiani dotati delle necessarie competenze. «Non mi stupiscono questi dati» riconosce Luigia Carlucci Aiello, preside della facoltà di Ingegneria dell'informazione, Informatica e Statistica (così accorpata nel 2010 a seguito del riordino dell'ateneo), della Sapienza di Roma. «Per quanto riguarda l'occupazione le rilevazioni di Almalaurea che riguardano i nostri studenti sono estremamente positive. Il tempo che passa tra il conseguimento del titolo e il primo impiego è il più basso tra tutti i tipi di lauree, si parla di due o tre mesi, e lo stipendio iniziale medio è di quasi 1300 euro al mese sia per i laureati di primo che di secondo livello». Questo a un anno dalla laurea, poi «la retribuzione cresce più rapidamente». E in effetti, per gli ingegneri delle comunicazioni lo scoglio della disoccupazione non sembra costituire un problema: secondo il consorzio Almalaurea, nel 2011, a un anno dalla laurea, il 78,6% dei laureati è occupato. A Lettere e filosofia, da sempre accusata di essere un raccoglitore di futuri disoccupati, si arriva al 49,3. «Se tutti trovano lavoro vuol dire che c'è una forte domanda da parte del mercato. Si tratta di professioni stimolanti, il che è un ottimo incentivo per proseguire in questo tipo di lavoro», dichiara la preside. Un ingegnere del settore informazioni e comunicazione si occupa infatti della progettazione dei sistemi di trattamento e trasporto delle informazioni, tutt'altro che qualcosa di meccanico o ripetitivo. È lui a progettare apparati e dispositivi per il digitale e per Internet (come non pensare qui ai geni della Silicon Valley?). Ed è chiaro che in una società sempre più digitalizzata ci sarà un crescente fabbisogno di competenze scientifiche come queste. Eppure le immatricolazioni a questa facoltà (alla Sapienza) sono state nell'ultimo anno accademico 1708 (e in mezzo ci sono anche gli iscritti a Informatica e Statistica), contro i 2577 di Ingegneria civile e industriale e i 5243 di Lettere e Filosofia. Se si guarda ai dati nazionali invece, gli iscritti a Ingegneria dell'informazione (per l'anno accademico 2010-2011) sono 7mila, contro i 16mila immatricolati a Ingegneria (intesa nel suo complesso), le 179mila nuove leve di Lettere e Filosofia e i 195mila di Giurisprudenza. Insomma, tutto secondo la consuetudine. Per la Aiello una spiegazione plausibile è che «le tradizioni sono dure a morire. Se l'ingegneria civile esiste da secoli, l'ict ha più o meno cinquant'anni, e questo può influenzare le famiglie, che preferiscono indirizzare i propri figlio verso discipline più consolidate». Tendenzialmente infatti gli studenti dell'ict, a suo dire, non provengono da famiglie con un background professionale nello stesso settore. «Per iscriversi da noi, a una facoltà innovativa, servono dunque più grinta e coraggio» chiosa la preside. Forse ancora una volta il problema è da ricercare nell'orientamento offerto ai ragazzi prima di iscriversi all'università. A loro andrebbe suggerito un percorso con sbocchi professionali certi e non una strada che porti solo all'arricchimento culturale o a inseguire un sogno, per poi alla fine stupirsi se il povero laureato non ha granché voglia di cimentarsi a fare magari il falegname. Come se questo si potesse improvvisare, dopo anni di investimenti sulla propria formazione accademia. Dello stesso parere anche Ivan Lo Bello [nella foto a destra], vicepresidente di Confindustria con delega all'Education, che a proposito degli ultimi dati Ocse recentemente ha puntato il dito sui percorsi formativi poco orientati al mercato: «Troppi giovani scelgono percorsi di  studio destinati alla disoccupazione. Troppe  aziende  non  trovano i tecnici che cercano. Le specializzazioni tecniche devono crescere nel nostro sistema educativo che è ancora troppo condizionato da stereotipi del passato e poco attento alla domanda delle imprese». Il fenomeno dello skill shortage in questo settore, e più in particolare nella grafica del web, non se lo spiega neppure Alberto Iacovoni [nella foto], l'architetto che dirige lo Ied (Istituto europeo di design) di Roma: «I nostri corsi di grafica web non hanno così grande successo, nonostante siano di stretta attualità. Basta vedere quante risorse economiche vengono investite sul web, che ormai assorbe grande quantità dell'economia e sviluppa ricchezza». Chi studia queste materie matura pure competenze interdisciplinari, spiega alla Repubblica degli Stagisti, «perché deve sì conoscere la grafica ma anche sapere quali tecnologie si nascondono dietro il web e le sue strategie. I video virali ne sono un classico esempio». Eppure, nonostante la diffusione dei social network e l'enorme dispendio di energie quotidiane davanti a uno schermo, i giovani preferiscono restare sul tradizionale e di fronte a un diploma «moderno come il corso di media design o il master in web design scelgono corsi come fotografia o grafica». I numeri dello scorso anno parlano chiaro: 10 gli iscritti a Media Design e 15 quelli a Video Design, contro i 30 di Fotografia e i 44 di Graphic Design. «Sembra che a questa professione manchi appeal, o che sia passata di moda», commenta. Iacovoni ammette anche che «spesso riceviamo dalle aziende richieste che non riusciamo a evadere», molte di queste alla ricerca di un buon sito aziendale. E pronte ad accogliere personale disponibile a svolgere un'attività creativa e spesso ben remunerata. Tutte informazioni che potrebbe fornire un servizio di orientamento strutturato a dovere, se solo esistesse.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:  - Il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, un problema sottovalutato - Ingegneria ma non solo: quali sono le lauree più utili per trovare lavoro? - Trovare lavoro dopo la laurea o il master, attenzione alle percentuali di placement: a volte possono riservare sorpreseE anche: - Dallo studio al lavoro: viaggio negli uffici placement, a sorpresa quasi nessuna università monitora l'esito occupazionale degli stage

«L'Italia riparta dalle start-up»: ecco il piano del ministro Passera

Opera da meno di 48 mesi e, anche avendo un fatturato che non supera i 5 milioni di euro, non distribuisce utili ai soci. I quali, almeno per il 51%, sono persone fisiche. Il suo campo d'azione? L'innovazione tecnologica, eventualmente con vocazione sociale. È questa la definizione di start-up contenuta nel rapporto Restart-Italia, elaborato da una task force voluta dal ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera e presentato giovedì scorso a Roncade, nella sede dell'incubatore d'impresa H-Farm.Un pacchetto di misure che, questo l'impegno del governo, saranno tradotte in legge entro la fine del mese di settembre. E che vogliono sostenere la nascita di giovani imprese, più che di imprese guidate da giovani. Non è infatti previsto alcun limite di età per gli startuppers, che possono quindi avere vent'anni ma anche settanta. Pur nella convinzione che a beneficiare di questi incentivi «nella maggior parte dei casi saranno giovani», la task force non ha voluto limitare l'applicazione delle proprie proposte agli under 35 perché, si legge nel rapporto, «il Paese ha un bisogno impellente di liberare le energie di tutti coloro che sul nostro territorio vogliano contribuire a generare ricchezza e lavoro».Non si guarda alla carta d'identità, dunque, ma al campo di attività. Sì, perché per poter considerare la propria azienda una start-up è necessario che abbia come «oggetto sociale lo sviluppo di prodotti o servizi innovativi, ad alto valore tecnologico». Un criterio, quest'ultimo, che la stessa relazione riconosce come difficile da determinare. La proposta è che un'impresa per essere tecnologicamente innovativa debba presentare una di queste caratteristiche: investire una certa percentuale degli utili in ricerca e sviluppo, avere una determinata percentuale di dipendenti che siano altamente qualificati (in possesso di dottorato, ricercatori, titolari di un brevetto), oppure essere uno spin-off universitario - ovvero essere nata in ambito accademico per poi passare sul mercato.Viene poi riconosciuta una seconda tipologia di start-up, definita «a vocazione sociale». Realtà attive nell'assistenza socio-sanitaria, nell'educazione, nella tutela ambientale e nella cultura, per le quali valgono comunque i criteri di 'anzianità' e fatturato previsti per quelle tecnologicamente innovative. Vengono inoltre inserite nel novero le imprese che svolgono una ricerca scientifica «di particolare interesse sociale». Così come le cosiddette rescue company, ovvero società finalizzate «a salvaguardare una parte dei posti di lavoro e creare continuità di business con aziende in crisi e a rischio di parziale o completo fallimento». L'impatto sociale sarebbe quindi legato alla tutela dell'occupazione che queste realtà dovrebbero garantire.A tutte queste imprese sono richieste una contabilità trasparente, - che non richieda l'uso di cassa contanti - e l'iscrizione a una directory delle start-up istituita dalle singole Camere di Commercio, una sorta di database pubblico che raccolga informazioni su queste aziende. Per i primi quattro anni di attività la formula societaria potrà essere quella della isrl, ovvero della cosiddetta società a statuto zero: costituibile online ad un costo simbolico (la proposta è 50 euro), esente dai diritti di bollo e segreteria così come dalle tasse annuali sui libri sociali, autorizzata a sostituire tutti gli adempimenti burocratici con delle semplici autocertificazioni. La isrl avrà inoltre la possibilità di pagare con stock options, in pratica delle azioni dell'azienda, una parte dei compensi dei dipendenti. Lo stesso discorso vale per i fornitori: la task force ha proposto di introdurre un meccanismo di work for equity. In pratica, per ridurre le esigenze di cassa, l'idea è che si possano saldare le fatture dei fornitori con una partecipazione al capitale sociale. In pratica, si chiede loro di assumersi parte del rischio d'impresa della start-up. In cambio, il fornitore non pagherebbe le tasse sul fatturato 'investito' in questa maniera. Trascorsi i 48 mesi, l'isrl si trasformerebbe in una semplice srl.Va detto che qualora questa proposta venisse approvata si tratterebbe del terzo intervento in tema di diritto societario del 2012, dopo quello che a gennaio ha introdotto la ssrl, ovvero la società semplificata a responsabilità limitata, per gli under 35 e quello che, a giugno, ha esteso questa formula anche agli over 35. C'è poi un elemento tanto importante per gli startupper, che nei primi anni di attività devono fare i conti con una scarsissima liquidità, ma che potrebbe suscitare reazioni critiche da parte degli imprenditori che lo chiedono da tempo e per tutte le aziende. Si tratta del passaggio da competenza a cassa per quanto riguarda Iva e Ires. In pratica oggi, per le aziende con un giro d'affari inferiore ai 2 milioni l'anno, queste imposte si pagano nel momento in cui viene emessa una fattura, indipendentemente dal fatto che sia stata o meno saldata. Col rischio che, in caso di mancato pagamento, si sia versata un'imposta su un introito che non si è concretizzato. Il passaggio alla cassa proposto per le start-up prevede invece che Iva e Ires siano versate allo Stato solo dopo il saldo delle fatture.Il rapporto contiene infine una serie di proposte che favoriscano l'investimento nelle nuove aziende. Innanzitutto con la creazione del cosiddetto Fondo dei fondi, che finanzi le attività dei venture capital, ovvero di quelle realtà che immettono risorse nelle start-up entrando nel capitale sociale, e riservi il 20% delle proprie attività per le imprese a vocazione sociale. Si propone quindi un fondo seed, che cioè offra dei prestiti a scadenza quinquennale, con una costituzione mista pubblico-privata. Tra i suggerimenti, la deducibilità del 35% degli investimenti di un'azienda in una start-up e la detassazione fino al 30% di quelli di un privato. A questo proposito, Restart-Italia pone l'attenzione anche sul crowdfunding, ovvero la raccolta di fondi attraverso piccoli contributi di singoli cittadini.Quste le proposte della task force. Il ministro Passera si è impegnato ad approvare le prime norme entro la fine del mese: tutto sta a capire cosa esattamente diventerà legge. Anche perché, per quanto le singole idee possano essere apprezzate o meno, l'idea che ha animato il gruppo di lavoro è che le iniziative contenute in Restart-Italia «produrranno una scossa solo se saranno considerate come un “pacchetto unico”, solo se portate avanti tutte insieme».Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itSe hai trovato interessante questo articolo, leggi anche:- Impresa a 1 euro, dopo otto mesi la promessa del governo è finalmente realtà- Tra burocrazia e ritardi, l'impresa a 1 euro resta ferma al palo- Che fine ha fatto l'impresa a 1 euro per i giovani? Incagliata nella burocrazia- Imprenditoria giovanile, ecco chi la sostiene- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireE anche:- Il mouse diventa smart grazie a cinque giovani startupper mantovani- Da Viterbo a Parigi passando per l'India, anche la moda fa start-up- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impres

Come cambia lo stage in Europa: viaggio nei Paesi scandinavi

Nell'immaginario comune i Paesi scandinavi rappresentano una (pen)isola felice: competitivi, con ottimi tenori di vita, welfare solido, all'avanguardia nella ricerca. Per scoprire se anche in fatto di stage il modello scandinavo è vincente, la Repubblica degli Stagisti ha sfogliato le pagine dell'Overview on traineeship disposto dalla Commissione Ue - voci "Svezia", "Finlandia" e "Danimarca". Per i giovani svedesi l'ingresso nel mondo del lavoro avviene piuttosto tardi, soprattutto perché in molti scelgono l'università - il 45% dei diplomati - rimanendoci anche a lungo: nel 2010 gli universitari erano 370mila, un quarto dei quali sopra i 30 anni. La crisi poi ha generato il tasso di disoccupazione più alto dal secondo dopoguerra, ora al 30% (anche se il periodo medio di inattività è di appena un mese). Esistono quattro tipologie di stage, normati nelle loro linee essenziali dal testo unico sulla formazione entrato in vigore lo scorso primo luglio. Si parte sin dalle superiori: qui i tirocini, destinati a studenti dell'ultimo triennio, sono obbligatori per alcuni corsi, durano circa 15 settimane e non sono pagati, anche se i ragazzi «possono richiedere un contributo per l'intero periodo di stage». Nel 2010 in quasi 200mila hanno fatto questa esperienza. La scuola superiore inoltre è stata recentemente oggetto di un'importante riforma, che punta ad avvicinare il mondo del lavoro; e tra le misure più innovative spicca l'investimento di 85 milioni di euro in tre anni per creare 30mila nuovi posti di apprendistato - l'unica tipologia di cui si ha notizia nel testo. L'apprendistato però, a differenza di molti altri Paesi Ue, in Svezia non costituisce rapporto di lavoro, e lo studente non riceve  alcuna remunerazione. Pagati ma non sempre, a seconda degli accordi tra istituzioni formatrici e aziende, sono i tirocini inseriti in corsi di formazione professionale, che durano da uno a tre anni, di cui lo stage occupa in genere sei mesi. Ci sono poi naturalmente i percorsi universitari, curriculari e no, rimborsati e no. Dipende molto dalle facoltà scelte: «gli studenti di architettura ricevono anche 2mila euro al mese, mentre gli ingegneri civili non vengono pagati affatto»; fortunati anche gli giornalisti, categoria notoriamente bistrattata, che ricevono la metà della retribuzione minima dall'associazione di riferimento (in Svezia non vige il salario minimo). Chi fa un tirocinio per acquisire la qualifica psicologo, a studi conclusi, riceve invece oltre 2300 euro; e i medici anche di più. Ad ogni modo, se lo stage è gratuito, gli studenti possono sempre chiedere aiuto alle università. Infine ci sono i programmi di Politiche attive per il lavoro. Il Youth employment garantee ad esempio si rivolge ai disoccupati dai 16 ai 25 anni, aiutandoli a trovare un impiego ed erogando un sussidio di disoccupazione. La fascia d'età più rappresentata è comunque quella 25-34, anche in virtù della lunga permanenza sui banchi universitari.A sovraintendere il sistema dei controlli ci sono due agenzie indipendenti, che fanno capo al ministero dell'Ostruzione. La Skolverket ad esempio stabilisce rigidi criteri di qualità per le istituzioni scolastiche ed universitarie, da cui riceve report annuali sui percorsi attivati; mentre l'Ispettorato scolastico vigila su municipalità e scuole indipendenti. Nonostante ciò però l'Ocse nel 2008 ha espresso scetticismo sugli standard qualitativi utilizzati nelle scuole superiori, «carenti di credibilità sul mercato del lavoro». Da cui probabilmente la riforma del 2011. Anche in Finlandia lo scenario appare a tratti problematico. Mai così alta in dieci anni, la disoccupazione giovanile tocca il 20%, a fronte di un dato generale del 7%. Lo scorso autunno il governo ha lanciato un fondo di garanzia sociale per i giovani, che sarà pienamente attivo solo nel 2013 ma già stabilisce che ad ogni under 25 e laureato sotto i 30 anni disoccupato da più di tre mesi siano fatte offerte di lavoro, tirocinio o studio, così da contrastare il fenomeno Neet. Qui sono circa 60mila su una popolazione di 5 milioni: un dato tutto sommato contenuto. Gli stagisti godono di diverse tutele, pur mancando un quadro legislativo specifico. Una definizione di tirocinio ad ogni modo c'è, anche se datata: già nel 1972 il ministero dell'Istruzione ne parlava come di «un'esperienza di lavoro legata ad un programma di studio che ha lo scopo di aumentare conoscenze e competenze [del tirocinante] sotto la guida di un datore di lavoro, o di un suo rappresentante, in un reale ambiente di lavoro». Definizione che, quindi, non sembra contemplare la possibilità di percorsi post formazione - tipologia che pure esiste. «In Finlandia le istituzioni formative hanno una lunga tradizione di cooperazione con i datori di lavoro locali, per permettere ai loro studenti di trovare subito lavoro» si legge nel report. La maggior parte dei percorsi ha appunto luogo all'università; quelli curriculari richiedono un impegno pari ad almeno 30 Ects (cioè 15 cfu, 375 ore) e non sono retribuiti; più lunghi, fino a sei mesi full time (cioè 40 cfu), quelli dei cosiddetti "politecnici", o università delle scienze applicate, corsi che rilasciano titoli equivalenti alle lauree triennali, pur durando un po' di più. Nel 2010 in 82mila si sono laureati con almeno un tirocinio di questo tipo alle spalle. Gli studenti che invece scelgono in autonomia di diventare stagisti, il più delle volte riceve un aiuto finanziario, in genere erogato dalla Kela, l'istituto nazionale di sicurezza sociale, sotto forma di borsa di studio, contributo sull'alloggio o prestiti; e per chi va all'estero c'è una cifra extra per l'alloggio. Questo per «garantire un introito anche a quanti non possono essere sostenuti dai genitori»; qui lo stagista appartiene quindi ai più diversi contesti sociali. Il sistema di istruzione dà a tutti l'opportunità di formarsi e anzi proprio «l'istruzione è concepita come il modo migliore per prevenire l'esclusione delle fasce giovani».Per l'inserimento o il reinserimento di giovani e adulti infine anche qui vengono attivati percorsi AMLP (Active Market Labour Policies), finanziati con soldi pubblici, che privilegiano i settori  sanitario, assistenziale  e  business administration. In questo come in tutti gli altri casi, nessun onere finanziario grava sulle aziende che ospitano stagisti.Last but non least - anzi - la Danimarca. Il Paese che a detta di molti giuslavoristi, senatore Pietro Ichino in testa, possiede il migliore sistema europeo di flexsecurity: lineare, organico, con tutele erga omnes. Secondo l'Ocse è qui che si registra il più alto tasso di mobilità sociale Ue e c'è addirittura chi lo elegge «Paese più felice del mondo». Gli stagisti danesi magari non saranno i più felici del mondo, ma possono contare su una solidissima tradizione di scambi e alternanza tra mondo della formazione e del lavoro: un adolescente su due nella fascia 15-19 anni e i due terzi dei giovani fino a 24 anni risultano occupati, seppure part time; nonostante la crisi abbia avuto anche qui effetti disastrosi sui giovani, richiedendo un intervento statale di 13milioni e mezzo di euro. Quasi tutti i percorsi di studio, anche alle superiori, prevedono un tirocinio: i principali programmi VET - di stampo tecnico-professionale e che riguardano studenti dai 14 ai 25 anni circa - hanno una quota di formazione lavorativa che va dal 50 al 70% del monte orario complessivo, pagata con somme definite dai vari contratti nazionali di lavoro. Nel 2011 sono partiti 50mila tirocini di questo tipo, tutti regolamentati da un'apposita legge. Anche per conseguire una laurea triennale bisogna quasi sempre "spendere" in tirocinio dai 30 (750 ore) ai 60 cfu (1500 ore, un anno universitario) e «quelli gratuiti sono ammessi solo in circostanze particolari». Un caso a parte, degno di nota, è quello degli aspiranti giornalisti: per loro la formazione dura quattro anni, di cui ben un anno e mezzo sul campo, con un contributo di oltre 1700 euro al mese. Naturalmente uno studente può anche fare uno stage volontario, ma in questo caso di rado riceve rimborso. L'obbligatorietà del tirocinio però, nota l'agenzia di valutazione nazionale Eva, può essere un'arma a doppio taglio e «impedire persino il conseguimento del titolo per abbandono dello studente», se questi non riesce ad individuare il percorso adatto né riceve supporto dall'istituto - circostanza che interessa per lo più gli studenti immigrati. Del resto, i giovani scelgono scuole ed università anche in base alla qualità della formazione lavorativa che sono in grado di offrire, giocando di prevenzione.  Il sistema formatvo danese abitua  suoi giovani, sin da adolescenti, a "pensare doppio": da un lato i libri, dall'altro l'esperienza diretta nel mercato del lavoro, aumentano le probabilità di un ingresso fluido, indolore e spesso precoce rispetto agli standard europei.Annalisa Di PaloPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Come funziona lo stage in Europa: viaggio in Germania e Olanda- Paese che vai, stage che trovi: maxi report della Commissione europea- Nuova risoluzione Ue, regolamento europeo sugli stage più vicino

Il mouse diventa smart grazie a cinque giovani startupper mantovani

All'apparenza sembra un semplice mouse, certamente dal design avveniristico. Al suo interno, però, c'è un bluetooth integrato che permette di collegarsi a qualunque computer, un sistema di puntamento ideale per le presentazioni, un'applicazione per i giochi. E una scheda di memoria da 2 o da 4 giga, a seconda del modello, che permette di salvare i dati direttamente sull'apparecchio. Tutto questo è Ego!Smartmouse, il prodotto che la start-up mantovana LauraSapiens si prepara a lanciare sul mercato con l'inizio del prossimo anno.I cinque startupper che hanno dato vita a quest'azienda stanno lavorando al progetto dalla fine del 2009. A dare il via è stato il più giovane di loro, il 26enne Matteo Modè [a destra nella foto insieme a Ghidoni e Fornacciari], laureato in Ingegneria gestionale a Parma nel 2010 dopo un diploma di perito elettronico all'Itis di Mantova, la sua città. In Emilia Romagna per ragioni di studio, prima ancora di laurearsi aveva iniziato a lavorare a quello che qualche anno più tardi sarebbe diventato lo Smartmouse. «Alla fine del 2009 ho scoperto il programma regionale Spinner, che offre borse a gruppi che vogliano creare aziende con idee innovative. Io avevo preparato un progetto ma mi servivano altre persone: così ho iniziato a cercarle». Alla fine ha trovato Matteo Fornacciari e Stefano Salati, due 27enni, Stefano Ghidoni e Stefano Garusi, che con 32 anni a testa sono gli "anziani" del gruppo.Insieme a loro ha realizzato il primo prototipo e, soprattutto, ha ottenuto nell'ambito del progetto della regione Emilia Romagna un finanziamento di 38mila euro, oltre a consulenze legate a ricerche di mercato e pianificazione aziendale. Il progetto si è concluso all'inizio del 2011, ma i cinque hanno deciso di continuare la loro collaborazione e ad aprile hanno fondato LauraSapiens. «Ci occupiamo di relazione tra uomo e computer e di identità digitale, quindi abbiamo voluto darne una forte all'azienda, esprimendola attraverso un nome di persona». E il latino? «Richiama i simboli di saggezza e vittoria». Ma anche il fatto che la sede è a Mantova, città di Virgilio.Per la loro impresa Modè e soci hanno scelto la formula della srl, con un capitale sociale di 62mila euro costituito in parte da liquidi e in parte da tre brevetti - uno dei quali depositato anche negli Stati Uniti e in Cina - che i cinque hanno registrato nella fase di progettazione. Ad oggi la fase di ingegnerizzazione - ovvero gli aspetti legati alla produzione dei componenti e all'assemblaggio, due attività che vengono svolte all'esterno - è terminata, e si lavora per rendere commerciabile lo Smartmouse. In questa fase solo Modè, che ricopre il ruolo di amministratore delegato e si occupa di logistica e produzione, riceve uno stipendio. Gli altri quattro continuano a svolgere un altro lavoro, dedicando il tempo libero alla start-up - addirittura Garusi vive in Finlandia e scende in Italia per confrontarsi con i suoi colleghi un paio di volte al mese.Per sostenere la propria attività LauraSapiens ha partecipato ad un bando emesso da Finlombarda che nell'agosto 2011, attraverso un fondo di rotazione, ha messo a disposizione 150mila euro. «Si tratta di un finanziamento che dovremo restituire tra tre anni, in un'unica soluzione, ma con tassi molto agevolati: è uno strumento che mi sento di consigliare a tutti gli startupper». Denaro importante per un'azienda che genera una spesa pari a circa 8mila euro al mese, tra l'affitto di un ufficio e i pagamenti dei dipendenti, due persone con contratto a progetto. «A breve lo trasformeremo in apprendistato, sfruttando le agevolazioni della riforma Fornero e del decreto SalvaItalia che hanno ridotto i costi per i contributi previdenziali a carico delle aziende».Il pareggio di bilancio però è ancora lontano. «Forse ci arriveremo alla metà del 2013, intanto abbiamo chiuso il 2011 con un disavanzo di 11mila euro, legato agli investimenti sostenuti». L'idea era quella di iniziare con le vendite prima della fine dell'anno, ma «stiamo scontando un po' di ritardo: con il mese di settembre inizieremo con i preordini, consentendo l'acquisto ad un prezzo vantaggioso. Ma cominceremo a vendere tra gennaio e febbraio». Intanto a metà ottobre LauraSapiens sarà presente con un proprio stand alla Smau, la fiera dell'informatica di Milano: palcoscenico ideale per far conoscere lo Smartmouse al grande pubblico.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Da Viterbo a Parigi passando per l'India, anche la moda fa start-up- I video virali partono da Palermo: la storia di Mosaicoon, start-up dell'anno 2012- Quando «l'arte del bere» si fa start-up per tradizione di famiglia- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Tirocini Mae-Crui, la Crui non vuole rischiare che siano cancellati: forse perchè ci guadagna?

Se davvero verrà introdotto per legge l'obbligo di rimborso spese per gli stagisti, sarà un grande passo avanti per tutti. Finalmente i tirocinanti otterranno un giusto riconoscimento per l'apporto fornito e per il tempo e l'impegno dedicati al percorso formativo. La riforma Fornero sembra muoversi proprio in questo senso, stabilendo che agli stagisti debba essere corrisposta una «congrua indennità»: per ora è solo una indicazione di principio, ma entro la metà di gennaio dovranno essere emesse in questo senso delle linee guida definite dal governo e dalle Regioni. Lo stesso provvedimento però stabilisce che l'introduzione di questi rimborsi obbligatori non debba generare «nuovi o maggiori oneri a carico della pubblica amministrazione». Che vuol dire? Che, una volta introdotto questo obbligo, gli enti pubblici saranno automaticamente esonerati dall'ottemperarlo? Questa interpretazione, sostenuta e avallata da alcuni – tra cui la stessa Avvocatura dello Stato – sembra alla Repubblica degli Stagisti assolutamente in contrasto con la ratio della (futura) legge.La soluzione al problema peraltro esiste già: basterebbe rivedere i bilanci dei ministeri o dagli altri enti che ospitano tirocinanti e riorganizzare le spese, a saldi invariati, così da ricavare i fondi necessari. Per esempio per quanto riguarda il ministero degli Esteri la Repubblica degli Stagisti ha formulato quest'estate una semplice proposta che permetterebbe di garantire un rimborso ai circa 1.800 ragazzi che ogni anno vengono coinvolti nei percorsi formativi del programma Mae-Crui, che ormai da 10 anni porta studenti e neolaureati a fare stage alla Farnesina o nelle ambasciate, consolati e istituti di cultura in giro per il mondo.Tutti d'accordo? Non proprio. All'inizio di luglio, all'indomani della momentanea sospensione del II° bando Mae-Crui 2012 – quello con i tirocini in partenza in questi giorni – la Fondazione Crui aveva arditamente dichiarato che le prescrizioni contenute nella riforma del mercato del lavoro avrebbero reso «di fatto impossibile prevedere esperienze di formazione on the job nella pubblica amministrazione». Una volta ripristinato dal Mae tale bando, con la motivazione della non-retroattività di una norma che ancora deve vedere la luce, la Crui però non ha fatto retromarcia. E il suo presidente Marco Mancini [nell'immagine a fianco] ha auspicato in una nota «che nelle linee guida che dovranno essere prodotte nei prossimi mesi si tenga conto, una volta per tutte e in maniera definitiva, della differenza esistente fra i tirocini formativi offerti dalle università in collaborazione con la pubblica amministrazione e tutti gli altri». Ma dov'è questa differenza? Cosa vuol dire il presidente Mancini? Sta forse inviando un messaggio al governo, suggerendo che gli stage vengano normati con due pesi e due misure? Che la «congrua indennità» promessa dal ministro Fornero debba essere introdotta solo per gli stage nelle imprese private, e non per quelli negli enti pubblici, o addirittura per tutti quelli promossi dalle università?E in caso fosse così, cosa può spingere la Crui a prendere una tale posizione, che va contro le legittime aspettative e il benessere di migliaia e migliaia di giovani studenti universitari e neolaureati italiani? La Repubblica degli Stagisti ha più volte contattato nelle scorse settimane l'ufficio stampa Crui, per richiedere di poter intervistare il professor Mancini, senza purtroppo ricevere risposta.In attesa di delucidazioni, si può ipotizzare che forse il punto stia nel fatto che se i ministeri – invece di rimodulare i propri bilanci per trovare i fondi per le indennità – dovessero decidere di chiudere i programmi di stage, ciò inciderebbe negativamente sui bilanci della Crui. Infatti le università convenzionate con questo organismo, come la Repubblica degli Stagisti è in grado di documentare, versano ogni anno una somma parametrata al numero di studenti e neolaureati che presentano domanda di partecipazione ai bandi. Attenzione: non in base a coloro che vengono effettivamente selezionati per lo stage. Il conto viene fatto in base alle richieste presentate. Si tratta di un aspetto molto importante specie se si considera che per esempio il programma Mae-Crui del 2009, come al solito suddiviso su tre bandi, mise complessivamente a disposizione 1.784 percorsi di tirocinio – ma che le candidature furono oltre 18mila, e su quest'ultimo numero la Fondazione Crui ricevette i finanziamenti dalle università. Come avvengono i pagamenti? Ogni ateneo – i convenzionati sono una settantina – versa 1.100 euro se i candidati sono meno di 25, che diventano 2.200 se sono tra 26 e 50 e crescono fino a 5.200 se le domande di partecipazione sono comprese tra 51 e 100. Al di sopra di questa quantità, per ogni 50 candidature viene corrisposta la somma di 1.100 euro.Calcolare a quanto ammonti il contributo che gli atenei italiani versano alla Fondazione Crui è complesso. Intanto perché i programmi di tirocinio attivi sono ben 12, alcuni dei quali suddivisi in più bandi nel corso dell'anno. Inoltre bisognerebbe sapere quanti sono i candidati per ogni singola università, tenendo conto che realtà di grosse dimensioni come La Sapienza hanno un ufficio stage per ciascuna delle facoltà. La Repubblica degli Stagisti ha provato a chiederlo ad alcune università, per ora ricevendo risposta solamente da Ca' Foscari: nel 2011 i candidati al bando per i tirocini al ministero degli Esteri provenienti da questo ateneo sono stati 131 – il che permette di calcolare, a spanne, che per quell'anno il contributo di Ca' Foscari alla Crui per il Mae-Crui sia stato di circa 6mila euro. Nell'attesa di poter ottenere dati anche da altri atenei c'è però un dato, nel bilancio della Fondazione, che può aiutare a comprendere l'ordine di grandezza del fenomeno. Si tratta della voce «valore della produzione - altri ricavi e proventi - contributi in conto esercizio»  che, nel solo 2010, rileva nelle casse dell'ente 2 milioni e 452mila euro. Non tutti questi soldi certamente arrivano dagli atenei: ma rimane il fatto che le università pagano la Crui per poter permettere ai propri studenti di candidarsi al programma Mae-Crui e a tutti gli altri programmi sovrintesi dalla Crui. E questi proventi rappresentano una voce non indifferente dell'intero bilancio dell'ente.Due sono dunque le domande finali. La Repubblica degli Stagisti vorrebbe avere l'opportunità di porre direttamente ai vertici della Conferenza dei rettori almeno la prima, e cioé: che tipo di servizio eroga e svolge la Crui a fronte dell'obolo che chiede ai singoli atenei? In cosa consiste, in concreto, la sua intermediazione e quali vantaggi assicura agli altri soggetti coinvolti vale a dire i soggetti ospitanti (i ministeri), i soggetti promotori (le università) e i candidati che risultano vincitori (gli stagisti)? La seconda domanda è invece diretta alla politica e all'opinione pubblica: è accettabile che la Conferenza dei rettori delle università italiane lanci messaggi al governo al fine di non far entrare appieno in vigore un principio sacrosanto, quale l'introduzione dell'obbligo di erogare una congrua indennità agli stagisti, per non rischiare di perdere il denaro che attualmente ricava dall'intermediazione di programmi di stage in enti pubblici?Eleonora Voltolinacon la collaborazione di Riccardo SaporitiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Ministero degli Esteri, 555 stage Mae-Crui bloccati e non si capisce il perché- Mae-Crui sospesi: una pressione per essere esonerati dal (futuro) obbligo di compenso agli stagisti?E anche:- Mae-Crui, la vergogna degli stage gratuiti presso il ministero degli Esteri: ministro Frattini, davvero non riesce a trovare 3 milioni e mezzo di euro per i rimborsi spese?- Ministero degli Esteri, ancora niente rimborso per i tirocini malgrado i buoni propositi della riforma- Stage, il ddl Fornero punta a introdurre rimborso spese obbligatorio e sanzioni per chi sfrutta- Quanti sono gli stagisti negli enti pubblici? Ministro Brunetta, dia i numeri

Impresa a 1 euro, dopo otto mesi la promessa del governo è finalmente realtà

Impresa a 1 euro, adesso si può davvero. Lo scorso 29 agosto è infatti entrato in vigore il decreto 138, che ha definito il modello standard dello statuto della cosiddetta società semplificata a responsabilità limitata. Ovvero l'ultimo tassello necessario per completare il mosaico della ssrl, introdotta dall'esecutivo alla fine di gennaio con l'obiettivo dichiarato di favorire l'imprenditoria giovanile.Lo spirito della norma è quello di ridurre i costi di avviamento di un'impresa, a cominciare da quelli legati al capitale sociale versato: si parte da un minimo di 1 euro fino ad un massimo di 9.999, appena sotto la soglia dei 10mila euro necessari invece per fondare una società a responsabilità limitata. La diminuzione delle spese passa però anche attraverso altri aspetti, come appunto la definizione di un modello di statuto standard. In questo modo i notai dovranno limitarsi a compilare un modulo prestampato, senza dover redigere un vero e proprio atto, ma soprattutto senza alcun onere per i contraenti. Una formula che contribuirà a far scendere per gli startupper lo stanziamento legato alla costituzione dell'azienda. Per quanto rimangano comunque da versare l'imposta di registro (168 euro), la tassa annuale per la bollatura dei libri contabili (309,87 euro) e l'iscrizione alla Camera di Commercio (200 euro). Col risultato che, alla prova dei fatti, la costituzione di un impresa a 1 euro ne costerà comunque almeno 700.Introdotta con un decreto approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 24 gennaio, la ssrl avrebbe dovuto diventare operativa entro il 25 maggio. Per quella data infatti i tre ministeri coinvolti nell'iter legislativo, ovvero quello dello Sviluppo economico, quello dell'Economia e quello della Giustizia, avrebbero dovuto emanare il decreto contenente il modello standard di statuto. In quella stessa giornata, però, da via Arenula la documentazione è stata inviata al Consiglio di Stato, chiamato per prassi ad esprimere un parere sul testo. Nel frattempo montavano le polemiche, a cominciare da quelle mosse dagli aspiranti imprenditori che aspettavano la ssrl per fondare una società e chiedevano a gran voce al governo di mantenere la promessa. Al punto che l'onorevole Amalia Schirru (Pd) arrivò a presentare un'interrogazione parlamentare per chiedere lumi rispetto all'entrata in vigore della norma.La Repubblica degli Stagisti aveva seguito l'iter della ssrl, pubblicando a fine luglio un articolo in cui si denunciava il fatto che la ssrl sembrava essere rimasta incagliata nelle secche della burocrazia. Lo stesso dicastero di Grazia e Giustizia non era stato in grado di fornire indicazioni rispetto alle tempistiche di emanazione del decreto necessario per rendere possibile la creazione delle società semplificate a responsabilità limitata. Ora si scopre che il 23 giugno il Guardasigilli ha emanato il decreto 138, contente appunto il modello di statuto, pubblicato però sulla Gazzetta ufficiale solo il 14 agosto. Ed entrato effettivamente in vigore 15 giorni dopo, ovvero il 29 agosto. A questo punto gli under 35 interessati a lanciare una start-up potranno farsi avanti e usufruire di questa normativa semplificata e più economica per lanciare la propria azienda. Nel frattempo il governo ha anche risolto i dubbi di chi sosteneva che nessuno avrebbe concesso crediti, né fornito beni ad imprese che di fatto hanno un capitale sociale nullo, pari anche a 1 solo euro. L'esecutivo ha infatti stabilito che il 25 per cento degli utili dovrà essere accantonato fino a che non sarà raggiunta la somma di 10mila euro, a garanzia dei creditori.Il requisito dell'età rimane fondamentale: la ssrl non potrà essere costituita da persone giuridiche, e tutti i soci dovranno avere meno di 35 anni. E una volta che saranno 'diventati grandi'? La norma stabilisce che, al momento in cui uno dei soci compie il 35simo anno di età l'azienda si trova di fronte a due possibilità: la prima prevede l'uscita dalla compagine societaria di chi non abbia più i requisiti anagrafici, la seconda la trasformazione della formula giuridica dell'impresa. Ovvero il passaggio da ssrl a srl, piuttosto che a spa.Con l'entrata in vigore di questa norma, diventa così effettivo il primo dei meccanismi pensati dal governo per incentivare l'imprenditoria giovanile. In attesa che, il prossimo 13 settembre, il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera sveli i contenuti delle proposte del governo in tema di agenda digitale e start-up.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itSe hai trovato interessante questo articolo, leggi anche:- Tra burocrazia e ritardi, l'impresa a 1 euro resta ferma al palo- Che fine ha fatto l'impresa a 1 euro per i giovani? Incagliata nella burocrazia- Imprenditoria giovanile, ecco chi la sostiene- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireE anche:- Da Viterbo a Parigi passando per l'India, anche la moda fa start-up- Dal design al social network: Domenico Gravagno, startupper seriale- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impres

Come cambia lo stage in Europa: viaggio in Gran Bretagna e Irlanda

Uno dei Paesi europei in cui il dibattito politico sullo stage incalza è la Gran Bretagna, anche perché qui questo strumento viene troppo spesso usato in maniera distorta. Tutti i principali giornali se ne sono occupati a più riprese: «Tartassare gli stagisti sarà pure routine, ma rimane sbagliato», «I tirocini non pagati violano la legge sul salario minimo», «Stage: aspettando un lavoro» sono solo alcuni esempi dei titoli più recenti.  Per i giovani britannici, esordisce il report disposto dalla Commissione Ue, la situazione è particolarmente difficile. Quasi un quinto di quelli nella fascia 19-24 anni non studia né lavora - gli ormai famosi Neet  - una percentuale molto alta data l'età. La disoccupazione continua a crescere da quasi un ventennio e appare chiaro che «acquisire qualifiche elevate non è più sufficiente per garantire ai giovani posti nel mercato del lavoro». Le poche iniziative positive poi - come il Future Job Fund, in grado di garantire un impiego di sei mesi ai giovani disoccupati nel settore pubblico o assistenziale - sono state smantellate con il governo Cameron, annotano i due autori.  Oltremanica le principali tipologie di formazione lavorativa sono quattro. Gli internships in senso stretto - termine che può indicare tipologie molto diverse, e comunque non definito con precisione a livello legale - finalizzati a trovare un lavoro, che tipicamente interessano i laureati e durano dai tre ai sei mesi. Poi ci sono le cosiddette lauree sandwich, che prevedono un anno circa di "placement", quasi mai rimborsati, intrapresi dal 6% degli studenti - circa 120mila ragazzi. Gli stage inseriti nelle misure di politiche attive per il lavoro coinvolgono invece 16mila persone all'anno: in genere durano due mesi e danno diritto a indennità di disoccupazione (talvolta più redditizie di un lavoro vero ma sottopagato). Il report precisa però che il sistema pubblico di finanziamento «è confinato a interventi specifici di scala ridotta, durata limitata o entrambi». Infine ci sono i tirocini che in italiano verrebbero definiti "praticantati" per accedere a una professione - ad esempio medico, architetto, avvocato - regolamentati dai singoli ordini con i vari Medical Act, Architects Act etc. E controllati, il più delle volte. I solicitors ad esempio,  gli avvocati, fanno riferimento alla Sra - Solicitors Regulation Authority, che tra le altre cose vigila sull'obbligo di versare una quota superiore al national minimum wage. Proprio il salario minimo garantito, in vigore dal 1999 e oggi pari a circa 7 euro all'ora, è il nodo più difficile da sciogliere sullo stage, soprattutto in merito ai percorsi post formazione: uno stagista ne ha diritto o no? Secondo la legge inglese dovrebbe, se apporta il contributo di un lavoratore; altrimenti il rimborso è facoltativo - leggi raro. Ma in mancanza di precise griglie normative tutto è rimesso all'interpretazione, non sempre disinteressata. Pochi mesi fa i consulenti legali del governo inglese hanno espresso la loro, stimando che nel 2010 almeno 10mila stage, proprio perché non retribuiti, potrebbero essere stati illegali, e quindi risarcibili. Non sono comunque reperibili dati globali sullo stage negli UK e dunque il report pubblica solo resoconti molto settoriali, riferiti a singoli progetti o collegati situazioni particolari - come l'abbandono scolastico o universitario. «Le informazioni sui settori in cui lo stage prevale», e viene peggio usato, sono poi addirittura «aneddotiche». E l'aneddoto conduce ai soliti settori giornalismo, moda, media; ma anche a quello politico. Non a caso Intern Aware, l'organizzazione che si batte per i diritti degli stagisti britannici, ha chiamato in causa i tre principali partiti politici per verificare se predicano bene e razzolano altrettanto bene in fatto di mobilità sociale e opportunità per i giovani. Con risultati deludenti. Ancora più complicata è la situazione in Irlanda, dove la crisi ha triplicato i livelli di disoccupazione in pochi anni e dove gli under 35 con il solo diploma costituiscono mediamente il 40% degli inoccupati. I Neet sono un'altra emergenza molto costosa, che rosicchia 2 punti e mezzo percentuali del prodotto interno lordo. E a sorpresa sono gli uomini ad accusare di più il colpo: nel centro di Limerick sono senza lavoro addirittura i due terzi del totale. Tradizionalmente, il sistema scolastico irlandese è poco vocational: «solo una parte trascurabile di giovani sceglie scuole ad indirizzo lavorativo» e il 65% dei diplomati opta per l'università, anche se poi molti laureati finiscono col prendere la strada dell'estero (e, in generale, il 90% degli emigrati irlandesi sono giovani). Proprio per sanare la frattura scuola-lavoro e favorire la riqualificazione dei disoccupati, nell'estate 2011 è stato inaugurato Job Bridge - National Internship Scheme, che ha lanciato 6mila posti di "placement" nel settore pubblico e privato, con un'indennità settimanale di 50 euro, da aggiungere ad eventuali benefit sociali. Questo e altri programmi di stage sono affidati alla Fas, la National Training and Employment Authority, che opera tramite un network di 20 training centers e 66 uffici regionali. Ma ancora per poco: verrà a breve sostituita dall'agenzia Solas,di cui si sa ancora poco (lo stesso sito è in costruzione).In merito al numero di stagisti, anche il report irlandese fornisce dati piuttosto parziali. Si sa ad esempio che ogni anno circa 2500 ragazzi completano percorsi di inserimento lavorativo pensati per chi abbandona la scuola, in costante aumento dal 2004; mentre per tutte le categorie di disoccupati nel 2010 le azioni sono state 37mila, di cui 4mila e 500 stage in senso stretto (quasi il doppio di due anni prima). I tirocinanti universitari invece, esclusi quelli di medicina, hanno superato quota 10mila. Per contro crolla il numero di apprendistati attivati: nello stesso anno sono stati solo 1200, con un sonoro -68% rispetto a due anni prima (17mila complessivi invece quelli già in essere). Gli autori ipotizzano che ciò sia dovuto alla connotazione tipicamente maschile dell’apprendistato in Irlanda, frequente in settori come commercio e costruzioni, fortemente impattati dalla crisi.Per quel che riguarda il rimborso, si legge: «Gli stage universitari sono in genere gratuiti e talvolta i datori di lavoro ospitano studenti solo dopo essersi accertati che non dovranno pagarli». Esistono però anche i percorsi rimborsati, soprattutto nei settori ingegneria e informatica, talvolta con cifre che raggiungono quelle di uno stipendio. Ma si tratta di eccezioni, e il report non ne quantifica la frequenza. Più spesso, se un rimborso c’è, vengono applicati gli scaglioni definiti dal Minimum Wage Act del 2011, che variano dai 6 euro e 50 centesimi all’ora del primo trimestre di stage ai quasi 8 dell’ultimo. Una delle poche indagini a disposizione riporta che, secondo gli uffici placement universitari, il 36% delle loro  offerte di tirocinio risultano rimborsate. Una misura interessante è stata invece escogitata a livello centrale sul fronte controlli: il National Framework of Qualification del 2003 assicura la qualità di tutti i percorsi di formazione, da quelli scolastici  a quelli di dottorato, e compresi quelli lavorativi. Non ne viene però riferito il grado di efficacia.Annalisa Di PaloPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Da Londra arriva un primo alt ai tirocini: secondo i consulenti legali del governo violano la legge sul salario minimo- In Inghilterra un'impresa su cinque usa gli stagisti come lavoratori a basso costo- Gli stagisti inglesi visti dal Guardian: «carne da macello». E non è solo una metafora- Il Daily Telegraph mette il naso nella vita degli stagisti inglesi. Conclusione:non se la passano bene neanche loro- Stagisti inglesi, il Guardian svela: un'ente vigilierà affinché le aziende non li sfruttino- La denuncia del Financial Times: «Le aziende smettano di prendere stagisti per coprire i loro buchi di organico, e comincino a pagarli»