Categoria: Approfondimenti

Commercialisti, l'esame è una scommessa - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti / seconda puntata

Continua il viaggio della Repubblica degli Stagisti nel pianeta praticanti, per capire meglio chi sono, cosa fanno, come vivono. Dopo gli avvocati, ora è la volta dei commercialisti. La Catanzaro dei commercialisti è Milano. La calabrese città dei tre colli è stata per anni la Mecca di tanti praticanti avvocati che potevano contare su un’altissima probabilità di promozione [almeno fino alla riforma Castelli del 2003, che ha previsto la correzione delle prove in corti di appello di altre città].L’estrema disparità tra le diverse sedi nella percentuale di promossi si ha anche per l’esame di abilitazione alla professione di dottore commercialista. E a sorpresa è l’università Bicocca di Milano a risultare l’ateneo più generoso: secondo le statistiche del ministero dell’Istruzione, nel 2006, ultimo dato disponibile, il 94,6% di chi ha effettuato l’esame alla Bicocca (88 su 93 esaminati) è stato promosso. La media nazionale si era invece fermata al 45 per cento. In tutta Italia, sempre nel 2006, i praticanti commercialisti che si sono presentati all’esame di abilitazione sono stati 10.024, di cui sono stati promossi 5.432.Lotteria promozione. Non che si sia di fronte a una spaccatura Nord-Sud rovesciata: dietro Milano Bicocca, tra gli atenei più generosi, spiccano Foggia, Messina, Torino, Napoli Seconda e Napoli Parthenope. Le università più severe sono state invece Trento (solo il 16,4% di promossi), seguita da Bari, Siena, l’Aquila e Salerno [la classifica completa si trova in questo articolo del Sole 24 Ore].  La causa è da ricercarsi, piuttosto, in una differenza di severità tra singoli atenei e nel fatto che – diversamente da quanto avviene per gli avvocati – i compiti sono predisposti in autonomia dalle singole università.Esame in quattro mosse. L’esame si compone di tre scritti (uno sulle novità fiscali, uno su un approfondimento di questione teorica e una prova pratica) e di un orale. Il costo di iscrizione all’esame varia da università a università ma è di circa 150 euro. Intorno ai 150 euro all’anno è anche la quota di iscrizione ai diversi ordini locali. Non sono previste scuole come per gli avvocati, ma gli ordini organizzano di solito dei corsi concentrati nelle settimane prima o diluiti nell’anno precedente l’esame.Praticantato lungo ma anticipabile. Per presentarsi all’esame bisogna affrontare un lungo iter: il praticantato dura tre anni sia per i dottori commercialisti che per gli esperti contabili. C’è però una novità positiva: la possibilità di cominciare il tirocinio durante gli anni della laurea specialistica. Il discorso interessa chi si vuole iscrivere alla sezione A, destinata ai dottori commercialisti, per accedere alla quale è necessaria la laurea magistrale (3+2). Ora è possibile svolgere due anni di pratica durante l’università, mentre un terzo anno va svolto dopo la laurea. Per accedere alla sezione B dell’albo, dedicata agli esperti contabili, invece, è sufficiente la laurea triennale. Altre informazioni sull'accesso si trovano sul sito del Cndcec.Rimborsi a discrezione. Il rimborso spese per i praticanti varia da studio a studio e da regione a regione. Non esistono attualmente delle norme che prevedano un compenso minimo. Secondo il Codice deontologico dei dottori commercialisti, «il rapporto di praticantato - considerato come periodo di apprendimento – è per sua natura gratuito. Tuttavia, il dottore commercialista non mancherà di attribuire al praticante somme, a titolo di borsa di studio, per favorire ed incentivare l’impegno e l’assiduità dell’attività svolta». Quanto prendono, insomma, i praticanti? Un’idea ce la si può fare leggendo il sondaggio che ha lanciato il blog dei praticanti commercialisti. Le risposte sono state le più varie: delle 16 persone che hanno partecipato, 4 hanno risposto zero, tre 300 euro al mese, due 400 euro,  tre 500, due 700 e due 1.000. Per tutti, tranne per chi è rimasto a zero, l’importo è salito con il passare degli anni. «L’importante è chiarire il senso del tirocinio» commenta il presidente dell’Unione giovani dottori commercialisti, Luigi Carunchio: «in un vero praticantato si impara a diventare professionisti e ci si prepara alle responsabilità richieste dalla professione. Non deve invece essere possibile un lavoro dipendente mascherato, dove ci si limita a fare bassa manovalanza».Giovani in bolletta ma con prospettive d’oro. Che la carriera del professionista all’inizio non sia tutta faville lo dicono i dati della Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei dottori commercialisti. Dai dati 2007 (ultimi disponibili)  si scopre che gli iscritti con meno di 30 anni hanno un reddito Irpef di 9.830 euro, cioè 812 euro lordi per 12 mensilità. Tutto cambia negli anni successivi: tra i 30 e i 39 anni il reddito balza in media a 31mila euro, tra i 40 e i 49 a 65mila, tra i 50 e i 59 addirittura a 105mila. Più piana la dinamica degli esperti contabili. Secondo la Cassa Ragionieri, nel 2008 il reddito medio degli iscritti di 30 o meno anni è stato di 29.833 euro, contro una media di tutti gli iscritti di 49.532 euro.Un ordine affollato. Anche se le due casse previdenziali rimangono separate, i due ordini dei dottori commercialisti e dei ragionieri si sono da poco fusi in uno solo (Cndcec). Sono però rimaste due sezioni distinte, la A per i dottori commercialisti e la B per gli esperti contabili, cioè gli ex ragionieri. In totale il numero degli iscritti all’albo unico nel gennaio 2008 era di ben 107.499 iscritti, di cui il 61% commercialisti e il 39% provenienti dall’albo dei ragionieri. Il confronto con gli altri Paesi è sempre stridente, se si considera che in tutta la Francia i commercialisti sono solo 18mila. Secondo il rapporto 2008 dell’Istituto di ricerca dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, le donne sono solo 28%, ma la quota è in crescita da un decennio. Non a caso le donne sono decisamente più giovani: se complessivamente il 54% degli iscritti ha meno di 45 anni, in questa fascia rientra il 70% delle donne. Il 40,6% degli iscritti si trova al Nord, dove è anche più alto di iscritti per abitante, il 21,5% al Centro e il 37,9% al Sud. Dominus solo rodati. Per iniziare la pratica un neolaureato si può rivolgere a qualsiasi studio purché il “dominus” sia professionista da almeno cinque anni (art. 42 comma 1 del D.Lgs. 28 giugno 2005 n.139). Ed è proprio questa norma a non andare giù all’Unione dei giovani dottori commercialisti, che sottolinea come il 25% dei dottori commercialisti è professionista da meno di cinque anni. «Noi crediamo – dice il presidente Carunchio – che non sia l’anzianità professionale ad offrire una migliore preparazione, professionale e deontologica, al praticante. Anzi, i colleghi più giovani spesso riescono a dedicare maggiore attenzione ai futuri colleghi». Fabrizio PattiVedi anche «Da grande voglio fare l'avvocato - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti / prima puntata»

Stage all'estero, Mae-Crui ma non solo: attenzione all'assicurazione sanitaria

Romina porta ancora sul volto i segni del suo stage: una cicatrice provocata da un virus, curato come un semplice herpes in una clinica di Chicago. Vincitrice di un bando Mae-Crui – il programma di tirocini del ministero degli Esteri in collaborazione con le università – da febbraio a maggio del 2009 è andata in stage all'Istituto di cultura italiano della terza metropoli statunitense. Lì ha contratto l'herpes zoster, meglio conosciuto come fuoco di Sant'Antonio: un virus, lo stesso della varicella, che attacca le cellule del sistema nervoso. Faccia piena di bolle, mal di testa martellante, occhi gonfi come palle: «Attenta perché può provocare la cecità», l'ha avvertita qualcuno su un forum italiano di medicina dove aveva cercato informazioni su quello che le stava accadendo. «Nessuno mi aveva detto che il mio periodo all'Istituto di cultura non prevedeva un'assicurazione sanitaria. E nel bando di partecipazione allo stage non c'era scritto. Così quando mi sono sentita male» racconta la ventiseienne «ho telefonato al direttore dell'istituto, che però non conosceva medici italiani che mi potessero visitare privatamente. Per fortuna una famiglia italiana conosciuta al consolato mi ha portato dopo qualche giorno in una clinica privata». Dove paga il conto (fortunatamente non troppo salato, considerando il sistema sanitario USA) di tasca sua.Romina è una dei 10.210 stagisti partiti tra il 2001 e il 2008 per un'esperienza formativa all'estero attraverso i tirocini Mae-Crui: sessantasei atenei coinvolti in uno dei programmi di stage più richiesti tra i 15 gestiti dalla Fondazione Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane) in collaborazione con enti e pubbliche amministrazioni. In questo caso, con il ministero degli Affari esteri (Mae, appunto): qui i tirocini (da tre a sei mesi) vanno dalla Farnesina, sede centrale del ministero, a ambasciate, consolati e istituti di cultura in giro per il mondo. Molti di questi stage avvengono fuori dall'Unione europea, ma per chi vince il bando non è prevista nessuna copertura sanitaria. E se tutti i cittadini dell’Ue hanno diritto all’assistenza in qualsiasi Stato membro si trovino e nei Paesi che fanno parte dello spazio economico europeo (See - Islanda, Liechtenstein e Norvegia), non è così quando si esce da quest’area. Secondo la Fondazione Crui, che ci sia o meno l’assicurazione sanitaria dipende dalle singole università che propongono agli studenti lo stage e non dall’ente ospitante, ad esempio l’ambasciata, il consolato o per loro il ministero degli Affari esteri. E non ci sarebbe nessuna legge che obblighi chi propone uno stage ad offrire una copertura sanitaria ai partecipanti – mentre è prevista l’apertura di una posizione Inail per eventuali infortuni sul lavoro. Così, a sorpresa, nemmeno alcune università private come la Bocconi assicurano gli stagisti che mandano fuori dall’Europa. Un problema di costi? Probabilmente. Racconta Luigi Somenzari della Fondazione CRT, Cassa di risparmio di Torino, che ogni anno spedisce circa settanta stagisti (con assicurazione) in giro per il mondo attraverso il progetto Master dei Talenti, che la spesa che loro sostengono per garantire l’assistenza sanitaria si aggira intorno agli undicimila euro all’anno: circa 160 euro a stagista. Troppi, probabilmente, per la maggior parte delle università (anche se è ragionevole credere che, su numeri dieci o venti volte superiori, il conto diminuirebbe). Gli atenei quindi scaricano anche questi costi sulle famiglie dei ragazzi, già gravate dalle spese di vitto e alloggio. Basta andare a dare un'occhiata alla sezione «Interviste ai tirocinanti» sul sito Mae-Crui e leggere i primi commenti per capire che le spese sono elevate: Veronica, 24 anni, laureata in Lettere e filosofia, in stage all'Istituto di cultura de La Valletta, a Malta, dice: «Lo consiglierei dal punto di vista professionale, anche se richiede un impegno economico notevole», e Aldo, stessa età, laureato in Economia ed ex stagista presso la Camera di commercio di Barcellona, specifica: «Consiglierei a tutti di farla nel caso in cui si abbia alle spalle una università o una istituzione che finanzia questa esperienza perché vivere in una capitale (specialmente in un paese sviluppato) e lavorare full time senza essere pagati presuppone una notevole quantità di denaro».«Chi viene da un certo tipo di studi» racconta Ilaria, di Foggia, che nel 2006 a 23 anni è andata ad Istanbul anche lei all'Istituto di cultura «tiene molto a fare un'esperienza di questo genere, a qualsiasi condizione». E aggiunge: «In Turchia per fortuna il costo della vita non era più alto che a Perugia, dove ho studiato: spendevo 700 euro al mese. In effetti, però, ora che ci penso quello dell'assistenza sanitaria non è un problema che mi ero posta ai tempi: fortunatamente non ebbi problemi di salute! Trovo comunque ancor più scandaloso che non sia previsto nessun rimborso spese». Che poi lo stage sia utile o meno probabilmente deriva dal luogo e dall’ufficio in cui si va, oltre che dal periodo. «Dipende molto da come è organizzato il lavoro, se si arriva in un momento di "stanca" può anche capitare di trovarsi a non aver nulla da fare per giorni» conclude Ilaria: «In generale, comunque, gli stagisti sono spesso sfruttati. E lo stage può trasformarsi, così, in una perdita di tempo e di denaro».Giuseppe VespoPer saperne di più su questo argomento, leggi anche l'articolo «Stage all'estero senza assicurazione sanitaria: le storie di chi ci è passato»

Stagista a quarant'anni: un libro per riflettere sul mercato del lavoro

Quante sorprese riserva la vita: uno a vent’anni suonava in una band, a trenta i suoi videoclip giravano su MTV lasciando presagire un futuro luminoso da rockstar, e a quaranta si ritrova in un centro per l’impiego a sentirsi proporre uno stage. Accade davvero: a raccontarlo è Andrea Bove, già leader del gruppo Dottor Livingstone che attraversò il panorama musicale italiano intorno alla metà degli anni Novanta – e però poi si sciolse. Così lui, che di mestiere sapeva fare solo il musicista, si trovò di fronte a un problema non da poco: trovarsi un lavoro normale per portare a casa uno straccio di stipendio. Il risultato delle sue peripezie è un racconto autobiografico davvero ben scritto, Stagista a 40 anni, pubblicato l’anno scorso dalla piccola casa editrice piemontese Riccadonna. Qui Bove racconta la sua vita fin da quando, bambino, studiava per ore il pianoforte («è lo stillicidio del tempo trascorso quotidianamente con lo strumento a rendere, infine, musicisti»), passando per il rapporto con i membri della band («manipolo di pazzoidi»), il matrimonio, la nascita del pargolo, la fine dell’avventura musicale. E l’inaspettato contatto con la realtà del centro per l’impiego, che per costruirgli una professionalità non trova di meglio che mandarlo in stage, come un pivellino.Il libro potrebbe essere un atto d'accusa, ma non lo è. Anzi, assomiglia più a un malinconico e amaro mea culpa: «Una delle caratteristiche dello stagista di quarant’anni è il senso di colpa. Perché in qualche modo dev’essere per colpa sua. Da qualche parte deve aver sbagliato, a un certo punto della propria vita, per essere costretto a elemosinare impieghi precari in un’età cui solitamente si associa la piena maturazione delle competenze e dell’efficacia lavorativa».Vien voglia di dargli una pacca bella forte sulla spalla e dirgli che può capitare a tutti di dover ricominciare daccapo, che anche lui può ancora andare «a caccia di futuro», e che se per trovare un impiego a un uomo adulto non c'è niente di meglio che un corso formativo con annesso stage gratuito forse qualche problemino ce l’ha non solo quell’uomo, ma anche il mercato del lavoro. Perché poi ovviamente nell'esperienza di Andrea Bove c'è un’altra fastidiosa problematica, la scarsissima disponibilità economica: «Può essere sorprendente scoprire quante cose non si possono fare, con il salvadanaio di uno stagista di quarant’anni». Specie se con quel salvadanaio non ci si devono comprare solo le sigarette e il biglietto del cinema, ma si deve mandare avanti una famiglia, pagando l'affitto e la rata dell'asilo.Grazie ai buoni uffici del centro per l'impiego, Bove fa due stage: il primo in un’associazione che sviluppa progetti editoriali e multimediali dove lo usano come tuttofare, correttore di bozze, runner su un set, addirittura autista. Il secondo, più breve, in un museo, «con incarichi più da bidello che da esperto d’arte». Sempre rigorosamente senza farsi illusioni sulle reali possibilità che lo stage possa essere il preludio di un’assunzione: «Nessuno stagista dovrebbe» consiglia, perché «nel novanta per cento dei casi non andrà così. Qualche possibilità in più per uno stagista è che gli venga proposto un contratto a progetto» –  iperbole non molto lontana dal vero, se si considera che il dato rilevato da Unioncamere Excelsior è di tredici assunzioni su cento al termine di uno stage – «Ma ancor più probabile è che dopo il periodo di stage ci si saluti per sempre e basta: è stato bello ma adesso non abbiamo la possibilità di assumerla. E sotto con un altro stagista al posto nostro».Resta da scoprire: ora Bove un lavoro l’avrà trovato?Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- «Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia)- Giovani, lavoro e stipendi troppo bassi: quando al mutuo ci pensa papà (indebitandosi). Parola di Luigi Furini- Stage gratuiti o malpagati, ciascuno può fare la rivoluzione: con un semplice «no»- Stage in fabbrica raccontati in un libro al vetriolo: «Mi sento già molto inserito» di Mauro Orletti

Aiutati che il web t'aiuta: Dillinger, un sito per i giovani che hanno voglia di cambiamento

Il Dillinger "originale" nacque negli Stati Uniti all'inizio del secolo scorso. Si chiamava John e di mestiere faceva il rapinatore di banche, ma con stile: divenne famoso negli anni Venti perchè si opponeva con astuzia all'autorità, riuscendo a farla - quasi - sempre franca.Un altro Dillinger degno di menzione è un film del 1969, diretto da Marco Ferreri e interpretato da Michel Piccoli: la storia dura e quasi surreale di un quarantenne che per caso trova una pistola in salotto e  altrettanto per caso decide di usarla per ammazzare la moglie nel sonno.Il nuovo Dillinger invece - fortunatamente meno truculento - è un sito fatto da giovani per i giovani. «Siamo online dal 25 aprile» precisa Alessandra Magnaghi, coordinatrice e anima della redazione: «E oggi, a poco più di due mesi dal debutto, abbiamo quasi 8mila visite a settimana: un risultato lusinghiero, che ci spinge ad andare avanti con entusiasmo».L'ideatore di Dillinger è Michel Martone [foto], docente di Diritto del lavoro che di suo ha un curriculum ben poco ordinario: è diventato ordinario (con buona pace del gioco di parole) all'università di Teramo a soli 32 anni. Qui è opportuno ricordare che i docenti nelle università italiane sono oltre 62mila ma che gli ordinari sono meno di 19mila  – e di questi quelli sotto i 36 anni sono venti: e tra questi venti panda c'è appunto Martone (per la cronaca, gli ordinari ultrasettantenni sono quasi 1800).Il punto di partenza è stato il blog Itakapress, spazio online battezzato nel novembre del 2008 proprio da Martone con queste parole: «Un catalizzatore generazionale per dare voce a tutti quegli outsider che sono alla ricerca del cambiamento. Una lavagna da colorare con le parole, le musiche, le immagini e i video di una generazione che vuole costruire il futuro».Quindi Dillinger è un Itakapress elevato a potenza: ai contenuti ci pensa una squadra di giovanissimi, per la maggior parte studenti universitari, che si auto-presentano (spesso con tanto di foto) nello spazio "Autori" del sito. «Per cinque-sei di loro» continua Alessandra «questo sta diventando quasi un impegno a tempo pieno: ci mettono le idee, le energie, l'anima. Stiamo pensando a un modo per valorizzarli: per esempio registrando Dillinger come testata giornalistica online, e permettendo quindi che il loro lavoro si trasformi tra un paio d'anni in un tesserino da giornalista pubblicista».Le notizie sul sito sono suddivise in sei sezioni: Cultura («libri, cinema, arte e teatro, per scoprire e parlare delle novità e dei grandi classici»), Eco-logic («dai macrotemi ambientali all'ecologia domestica, per il futuro della nostra terra»), Economia («news e approfondimenti sullo scenario economico italiano e del mondo»), Politica («discussioni e confronto sulle faccende politiche di tutti i giorni: l'agorà di Dillinger») e infine Società («tendenze e testimonianze da una realtà in continua evoluzione - dai gossip alla satira»).Grande attenzione al multimediale, con molti video, tra cui anche uno spot: «Il nostro obiettivo è diventare una piattaforma di visibilità e coordinamento per tutti i ragazzi che non si accontentano di starsene con le mani in mano, e vogliono agire per migliorare e cambiare la società in cui viviamo» conclude Alessandra: «Daremo spazio e sostegno a tutte quelle iniziative di politica "concreta", alle associazioni di volontariato sul territorio, ai progetti sociali e politici che coinvolgano i giovani in prima persona. Crediamo che oggi più che mai sia importante dare ai giovani strumenti e spazi da cui farsi sentire, perchè il cambiamento deve partire da loro - da noi - senza aspettare che qualcun altro lo faccia al posto nostro».E poichè gli obiettivi di Dillinger sono decisamente simili a quelli di questo sito, ecco il primo passo della collaborazione: la Repubblica degli Stagisti inizierà a ospitare la videorubrica settimanale di Michel Martone «Freccette», ovvero: pillole per il cambiamento.Eleonora Voltolina

Da grande voglio fare l'avvocato - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti / prima puntata

Tempo fa la Repubblica degli Stagisti aveva acceso un faro sul pianeta praticanti, denunciando come - in modo analogo a quanto avviene per gli stagisti - sia una prassi comunemente accettata quella di lavorare senza una retribuzione o per cifre irrisorie. Oggi comincia un viaggio nel pianeta praticanti, per capire meglio chi sono, cosa fanno, come vivono. Prima fermata: i praticanti avvocati.   Quanti sono. Moltissimi. Secondo il Consiglio nazionale forense nel 2008 si sono presentati all’esame di  Stato 33.028 praticanti. Altri 6mila hanno fatto domanda ma non si sono presentati all’esame. Secondo la Cassa nazionale forense, il 52% dei praticanti iscritti alla Cassa è costituito da donne. Dai dati Almalaurea risulta che il 93% di chi ha una laurea a ciclo unico, e l’82% di chi ha conseguito la specialistica in Giurisprudenza, a un anno dalla laurea svolge il praticantato. Quanti diventano avvocati. L’esame di Stato viene passato, in media, da un terzo di chi si presenta. Nel 2006, a fronte di 41.400 presenti agli scritti, gli idonei sono stati 16.358. Nel 2007 la percentuale è scesa: su 40.000 presenti, gli idonei sono stati 9.905, circa uno su quattro. Non sono ancora noti i dati complessivi sul 2008. La severità crescente deriva dalla volontà degli organi dell’avvocatura di limitare gli accessi. I 200mila avvocati iscritti all’albo in Italia, infatti, sono una fetta consistente dei circa 850mila avvocati presenti in tutta Europa (dato Ccbe del 2005). In Francia il numero totale degli avvocati è di 50mila. Quanto costa sostenere l’esame. Per i giovani aspiranti avvocati i costi da affrontare in vista dell’esame sono di circa 50 euro (in pratica i bolli da accompagnare alla domanda stessa). Se si supera l’esame, ad altri tre bolli da 14,62 euro (per l’istanza e i certificati di compiuta pratica e superati esami) si aggiungono 168 euro per concessioni governative, 103 euro per tassa di iscrizione e 207 euro come contributo annuo all’Ordine (nell’esempio si tratta di quello di Milano).  Quanto guadagnano i praticanti. Non esiste una rilevazione ufficiale. In genere si tratta di un rimborso spese che cresce nel tempo. Nel Mezzogiorno una prassi diffusa consiste semplicemente nel non pagare i praticanti avvocati. In realtà come Milano, invece, un praticante guadagna all’inizio più o meno 500 euro al mese in uno studio tradizionale. Negli studi d’affari internazionali la retribuzione può salire fino a 1.500-2.000 euro al mese, a fronte di un impegno in termini di ore di lavoro molto elevato. La Cassa nazionale forense dà delle indicazioni interessanti sul reddito professionale ad inizio carriera, una volta che l’esame è stato superato: circa 10mila euro all’anno - meno di un quinto dei 51.313 euro del reddito professionale medio degli avvocati. Retribuzione minima? In Italia attualmente non esiste una retribuzione minima per i praticanti avvocati. Per quanto nel Codice deontologico forense sia previsto l'obbligo di corrispondere, «dopo un periodo iniziale, un compenso proporzionato all’apporto professionale ricevuto», l’indicazione non è vincolante. Una proposta di riforma dell’avvocatura approvata da tutte le organizzazioni della professione (e in particolare dal Cnf) e attualmente allo studio della commissione Giustizia del Senato prevede, tra l’altro, l’obbligo di retribuire i praticanti. Non si fissa, tuttavia, una soglia minima per il salario, perché, spiegano dal Cnf, «sono troppe le variabili da considerare, dal tipo di impegno al tipo di lavoro alla zona geografica dello studio».   Forme di salario minimo per i praticanti sono previste in Germania (circa 700 euro) e nel Regno Unito (almeno l’equivalente di 1.000 euro per i pupils aspiranti “barristers”).  Cosa fanno. Ci sono alcune attività tipiche. Come emergeva in un precedente post, il praticante in studio svolge delle ricerche propedeutiche al lavoro di altri avvocati e redige atti, memorie, comparse, citazioni. In tribunale, oltre ad assistere alle udienze, deposita atti presso la cancelleria, oppure  va all’ufficio notifiche per rilasciare atti da notificare. La procedura. La pratica dura almeno 24 mesi. All’inizio il praticante riceve un libretto, che ogni sei mesi dev'essere controllato da un “tutore” dell’Ordine e firmato dal “dominus”, cioè dall’avvocato presso cui si svolge la pratica. Sul libretto si devono segnare le udienze seguite (almeno 20 a semestre),  gli atti processuali e le attività stragiudiziali a cui il praticante partecipa; infine si devono trattare almeno dieci questioni giuridiche studiate durante il semestre. Alla fine di ogni anno si devono poi scrivere dieci relazioni sulle cause seguite e sulle questioni giuridiche osservate. Dopo il primo anno è possibile fare la domanda per ottenere l’abilitazione al patrocinio, che permette di seguire in proprio alcune cause minori, come quelle di competenza del giudice di pace. Per l'intera procedura si veda, per esempio, il vademecum dell'Ordine di Firenze. La scuola di specializzazione. Secondo l’attuale disciplina, dei due anni di pratica uno può essere sostituito dal conseguimento del diploma delle Scuole di specializzazione per le professioni legali. La riforma della professione allo studio al Senato prevede, oltre alla pratica negli studi, anche la “frequenza obbligatoria e con profitto”, per almeno 24 mesi, di corsi di formazione tenuti esclusivamente da Ordini e associazioni forensi. I corsi, particolare non  trascurabile, possono essere a pagamento. Fabrizio PattiPer saperne di più su questo argomento, vedi anche gli articoli- «Videointervista a Duchesne: il libro «Studio illegale» vola sulle ali del blog, e presto diventerà un film»- «Praticanti, ora la retribuzione è obbligatoria: ma è giusto non fissare un minimo - Intervista al presidente dei giovani avvocati»

Stage: che succede al rimborso spese in caso di assenza per malattia o interruzione anticipata?

Quando si parla di stage, l'aspetto del rimborso spese risveglia sempre un interesse particolare nei lettori. Alla Repubblica degli Stagisti arrivano spesso quesiti su questo argomento: «Se faccio uno stage che prevede un rimborso spese forfettario mensile, e alla metà di un certo mese decido per motivi personali o altro di interrompere anticipatamente lo stage, l'azienda sarà tenuta a darmi il rimborso spese? E se sì, di quanto? Di tutto il mese o solo delle due settimane effettivamente fatte?». Oppure: «Se sto a casa una settimana per malattia, il rimborso che l'impresa mi erogherà a fine mese sarà pieno, o decurtato del 25%?». O ancora: «Se mi ammalo non in mezzo allo stage, ma alla fine, che succede?».Per approfondire il tema la Repubblica degli Stagisti ha bussato ancora una volta alla porta di Maurizio Falcioni del Commercialista Telematico, testata online specializzata in notizie di carattere fiscale, societario e del lavoro.«Lo stage, o tirocinio che dir si voglia, non  è un contratto di lavoro dipendente - subordinato - ma è solamente assimilato fiscalmente a quest'ultimo» spiega Falcioni: «Quindi un'interruzione del rapporto prima dei termini pattuiti non obbliga e non determina diritti o doveri per ambo le parti. Se era stato concordato un rimborso spese forfettario e il rapporto si interrompe in anticipo rispetto alla scadenza pattuita, lo stagista non ha alcun diritto a percepire somme per il periodo non lavorato. E se l’interruzione avviene ad esempio a metà mese, avrà naturalmente diritto a percepire l’importo per il primi 15 giorni lavorati, ma non per il restante periodo». Rispetto all'assenza per motivi di salute vale lo stesso ragionamento: «Un eventuale periodo di malattia dello stagista non determina il diritto a percepire comunque il compenso. Naturalmente, invece, se la convenzione firmata tra l'azienda e l’ente promotore dello stage regola tali periodi di assenza, il datore di lavoro deve attenersi a quanto dettato dalla scrittura sottoscritta». Insomma: l'azienda non è tenuta a corrispondere per intero il rimborso spese se lo stagista sta a casa, a meno che non lo abbia messo per iscritto nella convenzione di stage. Ciò non toglie che possa farlo: «Nulla vieta al nostro datore di lavoro» conferma il commercialista «di corrispondere comunque l'indennità nei periodi non frequentati dallo stagista per cause derivanti da assenza per malattia o in caso di interruzione anticipata». Sta insomma al buon cuore dell'impresa decidere se decurtare l'importo del rimborso spese o no.E, andando ancora a monte, se un'azienda offre uno stage a X euro al mese e poi, quando lo stage comincia, cambia le carte in tavola dicendo «ci spiace, niente più rimborso spese», è nel pieno del suo diritto? Nella fattispecie, una segnalazione di questo tipo è arrivata alla Repubblica degli Stagisti da un ragazzo che frequentava un master: all'inizio dell'anno gli era stato detto che sarebbe stato mandato a fare lo stage di fine corso in un'azienda che gli avrebbe erogato un rimborso spese di 500 euro al mese; ma al momento di cominciare lo stage l'azienda ha ritrattato, dicendo che avrebbe erogato solo un buono pasto al giorno.«Il discorso è sempre quello: per attivare uno stage l'azienda firma una convenzione con un ente promotore - che può essere di volta in volta il liceo, l'università etc» chiarisce Falcioni: «Se le carte in tavola vengono cambiate, lo stagista ha diritto di fare riferimento all'ente sottoscrittore, che provvederà a verificare con il datore di lavoro le motivazioni che hanno portato a questo inadeguato comportamento». Ma molto spesso  l'ammontare e la stessa esistenza di un rimborso spese non vengono nemmeno specificati nella convenzione di stage: e in quei casi chiaramente il ragazzo non ha modo di avanzare pretese. Come si dice... verba volant, scripta manent!Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, vedi anche gli articoli: «Rimborso spese per lo stage: bisogna pagarci le tasse? Risponde un commercialista "telematico"»«Fisco e rimborso spese, ancora qualche chiarimento con il Commercialista telematico»

Apprendistato questo sconosciuto – Tiraboschi: «No allo stage come "contratto di inserimento": per quello ci sono oggi altri strumenti»

Lo stage deve svolgere esclusivamente una funzione di formazione e orientamento per i giovani: utilizzarlo in altro modo, come equivalente di un rapporto di lavoro a basso costo, è sbagliato. Ne è convinto Michele Tiraboschi [foto], giuslavorista e direttore scientifico di ADAPT - Centro Studi Marco Biagi: «Nel 1997, quando venne per la prima volta introdotto, lo stage rappresentava uno dei pochi canali di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Oggi, dopo le leggi Treu e Biagi, esistono moltissimi altri strumenti che la normativa prevede per agevolare l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».Per esempio? «Innanzitutto, quello che si chiama appunto il “contratto di inserimento”, dedicato in primis ai giovani sotto i trent’anni». Dura dai 9 ai 18 mesi, non è rinnovabile e prevede, come spiega il decreto legislativo 276/2003 (la fonte normativa di riferimento per l’attuazione dei principi contenuti nella legge Biagi), che i lavoratori siano inquadrati due livelli sotto la categoria spettante e non siano compresi nel «computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l'applicazione di particolari normative e istituti» (articolo 18, per intenderci). Una clausola interessante è quella che prescrive che, per utilizzarlo continuativamente, un’impresa debba assumere almeno il 60% dei lavoratori «il cui contratto di inserimento sia venuto a scadere nei diciotto mesi precedenti». Questo contratto esige l’esistenza di un «progetto individuale di inserimento, finalizzato a garantire l'adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al contesto lavorativo» e di un libretto formativo dove segnalare la «formazione eventualmente effettuata».Una cosa un po’ diversa, ma che può sempre tornare utile ai ragazzi per raggranellare qualche soldo extra, è poi il sistema dei «buoni lavoro»: «prestazioni di lavoro occasionale e accessorio» riservate  a giovani studenti, con meno di 25 anni, durante il fine settimana e le vacanze. Lo strumento può essere usato in tutti i settori produttivi per compensi non superiori ai 5mila euro annui. «Ci sono poi oggi i contratti a chiamata, un part-time più flessibile, il lavoro ripartito, il lavoro a progetto che consentono un impiego di lavoro flessibile con prestazioni retributive e contributive standard» ricorda Tiraboschi. E infine c’è l’apprendistato, che in effetti andrebbe considerato l’unico vero contratto di “formazione - lavoro” corretto, almeno secondo la circolare 40/2004 firmata da Roberto Maroni che all’epoca era ministro del Lavoro: «Con il decreto legislativo n. 276 del 2003 l'apprendistato diventa l'unico contratto di lavoro a contenuto formativo presente nel nostro ordinamento, fatto salvo l'utilizzo del contratto di formazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Nel settore privato, per contro, il contratto di formazione e lavoro continuerà infatti a trovare applicazione in via transitoria e meramente residuale». Nemmeno il contratto di inserimento, a voler essere pignoli, potrebbe essere annoverato tra i contratti di formazione - lavoro, perché «la formazione del lavoratore è solo eventuale e non integra un elemento caratterizzante del relativo tipo contrattuale». Insomma, l’unica via giusta da seguire per formare un giovane dovrebbe essere quella del contratto di apprendistato, indicato nella circolare come lo «strumento idoneo a costruire un reale percorso di alternanza tra formazione e lavoro, primo tassello di una strategia di formazione e apprendimento continuo lungo tutto l'arco della vita».L’apprendistato, profondamente riformato dalla legge Biagi, oggi si divide in tre tipi: il primo dedicato ai giovanissimi (per il diritto-dovere di istruzione e formazione, con una durata massima di tre anni), il secondo detto «professionalizzante» (per il conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale, con una durata variabile da due a sei anni), e il terzo per «percorsi di alta formazione» (specificamente pensato per chi sta facendo l’università o altre forme di alta specializzazione). Quest’ultimo tipo di apprendistato, però, è  sottoutilizzato: «Negli ultimi tre anni ne sono stati attivati poco più di mille in tutta Italia: davvero troppo pochi» si rammarica Tiraboschi. Eppure l’apprendistato ha innegabili vantaggi per l’azienda: il limite numerico degli apprendisti è 1 a 1, cioè se ne possono avere tanti quanti sono i propri dipendenti (nel caso dello stage per esempio il rapporto è invece 1 a 10), la quota contributiva è bassa. Ma sconta il fatto di essere poco conosciuto: «La priorità oggi è incentivare al massimo questo strumento, che potrebbe in molti casi sostituire lo stage e permettere ai ragazzi di guadagnare mentre imparano – ma, a differenza dei rimborsi spesa, in maniera trasparente e coerente con la normativa» rincara il professore, aggiungendo che alla luce di questo quadro normativo «lo stage non può più essere utilizzato come contratto di inserimento, con mini retribuzioni, per un numero significativo di mesi, senza alcuna finalità formativa e di orientamento, ma al solo fine di abbassare il costo del lavoro». Con la flessibilizzazione del mercato del lavoro, insomma, secondo Tiraboschi lo stage dovrebbe «tornare a essere uno strumento di raccordo tra scuola, formazione e mercato del lavoro e non una forma strutturata di mini-lavori», e abbandonare quindi la funzione di inserimento lavorativo.In concreto, però, dei 300mila stagisti che ogni anno invadono le imprese private e gli enti pubblici, si può calcolare a spanne che almeno un terzo cerchi attraverso lo stage proprio una porta d’ingresso nel mondo del lavoro. Prova ne sia che gli stage vengono svolti non solo durante i percorsi formativi, ma anche dopo; che la funzione di inserimento lavorativo viene ribadita anche in programmi pubblici o semipubblici (ad esempio il Progetto Fixo, che prevedeva un premio in denaro per quelle aziende che avessero assunto uno stagista); e che gli stage sono ampiamente utilizzati anche dai centri per l’impiego, dove la gente va per trovare – appunto – un impiego. Professor Tiraboschi, questo si può ignorare? «Non si deve ignorare, ma correggere. Usare lo stage come inserimento lavorativo è una forzatura. Le aziende non dovrebbero utilizzare lo stage come periodo di prova allungato: dovrebbero invece cominciare a utilizzare gli altri strumenti che la normativa mette a loro disposizione a questo scopo».E allora, è giusto che anche i media e il web si impegnino per far conoscere l’apprendistato. La Repubblica degli Stagisti certamente farà la sua parte per promuoverne l’utilizzo: del resto, già nella Carta dei diritti dello stagista avevamo messo nero su bianco che lo stage non avrebbe dovuto essere considerato l’unico strumento per realizzare una formazione, e che sarebbe stato giusto incentivare proprio l’utilizzo dei contratti di apprendistato.Eleonora Voltolina

Aiutati che il web t'aiuta: Lavoratorio, annunci di lavoro e non solo

Con questo articolo la Repubblica degli Stagisti inaugura la rubrica Aiutati che il web t'aiuta, con l'obiettivo di presentare ogni settimana ai suoi lettori altri siti utili per trovare buona informazione e notizie sul mondo della formazione e del lavoro. Contravveniamo così alla regola n. 1 di Internet, non scritta ma ben conosciuta dagli operatori del settore: quella di non cedere mai lettori indirizzandoli altrove - insomma, di non aiutare la "concorrenza". Lo facciamo perchè pensiamo che la Rete debba essere una vera rete, fitta di interconnessioni, e non una finta rete in cui le collaborazioni fra siti si limitino allo scambio di link. Se oggi è normale sfogliare giornali espressamente dedicati agli annunci di lavoro, e avere su Internet l’imbarazzo della scelta con decine di siti di questo tipo, vent’anni fa le cose non stavano proprio così. «In effetti io mi definisco un po’ un pioniere» esordisce Roberto Marabini, 46 anni, giornalista professionista (nella foto), che dagli anni Novanta lavora in questo settore: «Cominciai facendo progettazione editoriale di giornali di annunci, che dalle testate “serie” venivano considerati di serie B».Oggi Marabini dirige Lavoratorio, quotidiano online dedicato alle offerte di lavoro, visitato ogni giorno da 15-20mila utenti. La redazione è sparsa per l’Italia: due giornalisti, Gioia Maria Tozzi a Roma e Roberto Grande a Lecce, due grafici (uno a Firenze e uno a Napoli) e infine due tecnici informatici che fanno base a Varese.Nel passato di Marabini ci sono due iniziative editoriali molto conosciute: «Anni fa fondai un giornale che si chiamava “Lavoro e Carriere”, concentrato inizialmente sulla zona del milanese. In quel caso mi “autoinventai” editore: poi, quando l'attività prese il via con 3-4mila copie a settimana, magicamente si risvegliò l’attenzione di un editore vero. Vendevamo 50-60mila copie dell’edizione a pagamento, che aveva articoli e approfondimenti oltre alle classiche inserzioni, e in più 200mila copie della versione free press, che invece conteneva soltanto le inserzioni. Intorno al 2000 tentammo poi il grande salto verso Internet lanciando Catapulta.it, versione online di “Lavoro e Carriere”, che fece un boom arrivando a un milione di visitatori al mese». Nel 2007 però, con il cambio di editore, Marabini sceglie di allontanarsi e cercare altre strade. E mette a punto un nuovo progetto: «Nel settembre 2008 è nato Lavoratorio.it. L’intenzione era creare un sito che potesse offrire agli utenti non solo annunci, ma anche uno spazio di confronto e approfondimento». Secondo Marabini, infatti, il problema più grande del nostro mercato del lavoro è che aziende e lavoratori non sono capaci di comunicare. «Guardiamo per esempio le inserzioni» spiega: «In genere sono fatte talmente male che nel sito, nella sezione “Tutto di più forse”, ho pubblicato un testo dal titolo "L’inserzione imperfetta"». Una sorta di manualetto per imparare a leggere gli annunci, anche i meno comprensibili: «Spesso non contengono nemmeno le informazioni fondamentali! Qui entra in campo anche mia vocazione giornalistica: io considero fondamentale l’aspetto della chiarezza». Marabini bacchetta le aziende ma non risparmia certo i giovani: «L’errore più frequente è inviare la propria candidatura a tappeto: bisognerebbe invece leggere bene l’inserzione e valutare, ragionare sull’opportunità di ciascuna candidatura, chiedersi "a chi sto mandando il mio cv? Sono adatto a questa mansione?" Invece spesso i ragazzi fanno affidamento sui grandi numeri, mandano centinaia di cv senza cavarne nulla. Ma io dico: se al ventesimo cv nessuno ti ha risposto, fermati. Vuol dire che stai sbagliando qualcosa». E poi il curriculum andrebbe ogni volta modificato: «Per mettere in evidenza le competenze più interessanti per quel particolare posto per il quale mi sto candidando» riassume il giornalista: «Anch’io una volta feci un errore di questo tipo: mandai il cv a un grande editore di libri dimenticando di mettere in evidenza l’esperienza che avevo fatto in ambito editoriale. E puntualmente al colloquio questa mancanza mi venne fatta notare».Insomma, c’è ruggine nel sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro. Lavoratorio vuole funzionare da antiruggine, e in questi mesi ha sperimentato una formula innovativa: articoli che riportano notizie sulle aziende e sulle opportunità di carriera. I redattori setacciano Internet alla ricerca di informazioni utili, e poi fanno verifiche incrociate; in più, ricevono comunicati dalle grandi aziende e dalle agenzie per il lavoro più importanti. «A settembre arriveranno alcune novità: torneranno le inserzioni vere e proprie, e avvieremo anche produzioni televisive interne. Contiamo di passare dagli attuali 2 milioni di pagine viste al mese a 5-6 milioni. Del resto il futuro di Internet si gioca su contenuti, credibilità e indicizzazione: e i siti di annunci non fanno eccezione». Eleonora Voltolina

Giovani, lavoro e stipendi troppo bassi: quando al mutuo ci pensa papà (indebitandosi). Parola di Luigi Furini

Leggere Luigi Furini (nella foto qui a fianco) è sempre uno spasso. Dopo Volevo solo vendere la pizza, racconto autobiografico e tragicomico del suo tentativo - ovviamente fallito - di avviare un'attività di pizza al taglio, e Volevo solo lavorare, in cui toccava la spinosa questione del mobbing sul posto di lavoro, il giornalista stavolta affronta il problema dei salari e dell'indebitamento. Il libro ha un titolo eloquente, L'Italia in bolletta (Garzanti), seguito da un sottotitolo ancor più esplicito: «Risparmi in fumo, debiti alle stelle: come si estingue il ceto medio». Prestiti, mutui, carte di credito revolving: ce n'è per tutti i gusti. A dispetto della copertina seriosa (nell'immagine sotto), come nei precedenti libri Furini scrive in prima persona, in maniera scanzonata, tratteggiando ritratti espressivi delle persone che incrocia sulla sua strada. Si parte con Roberto, guardia giurata strozzata dalle rate per i viaggi e per la casa; poi con lo scorrere delle pagine si incontrano Maria, pensionata che va a rifarsi i denti in Croazia col pulmino della Cigl, Massimo che ha perso la casa ed è in cassaintegrazione, il giornalista Marino che non osa confessarlo ma ha visto i suoi risparmi andare in fumo in Borsa...Giovani a dir la verità ce n'è pochi. Forse perchè per potersi indebitare almeno un contratto e uno stipendio bisogna averli? «Esatto» conferma Furini alla Repubblica degli Stagisti: «I ragazzi purtroppo molto spesso hanno redditi troppo bassi per mantenersi da soli. E allora capita che siano i genitori ad accollarsi il mutuo per la casa, o il finanziamento per la macchina». Insomma, i figli gravano sul bilancio di mamma e papà ben oltre il tollerabile: «Dopo i venti, venticinque anni dovrebbero diventare adulti a tutti gli effetti, poter disporre di un reddito proprio e vivere una vita autonoma. Ma non ce la fanno, perché raramente hanno una busta paga decente: e allora per loro garantiscono i genitori». Nel libro l'unico under 30 è Luigi, ventiseienne che prima spende e spande - per la macchina, la moto, la bella vita con la fidanzata - e poi non sa come spiegare alla madre che rischiano il pignoramento della casa. Guadagna 1200 euro al mese, e 1137 gli partono per le rate dei prestiti che ha chiesto: ma certo non può vivere con 63 euro... Una storia-limite, è chiaro. «Però bisogna ammetterlo: nei ragazzi di oggi, specialmente quelli con bassa scolarità, c'è una certa superficialità rispetto allo spendere. Sono molto condizionati dalla tv, assorbono i messaggi pubblicitari come spugne» riflette Furini: «Quello che era una voglia è diventato un bisogno, e quello che era un bisogno è diventato una necessità. Nessuno vuol mettere in dubbio che la macchina o il telefonino siano beni ormai indispensabili: ma c'è il cellulare da 100 euro e quello da 500, c'è l'auto da 10mila euro e quella da 30mila. Il problema è che se giri con una Punto sei un nessuno, e allora c'è bisogno del Suv: anche a costo di indebitarsi per anni. Ed è così con tutto. Perfino le ciabatte, che non sono altro che un pezzettino di gomma, devono essere griffate: e quindi invece che un euro ne costano 30».La crisi forse può contribuire a un'inversione di tendenza? «In effetti sto registrando negli ultimi mesi un movimento inverso, una timida riscoperta del valore di una riduzione dei consumi. Ma se la gente smette di consumare l'ingranaggio si ferma: e invece deve continuare a funzionare, altrimenti i pubblicitari e le aziende si disperano». Così gli italiani continuano a spendere più di quel che guadagnano, e finiscono in bolletta.Eleonora Voltolina

Per chi sogna di fare il designer, in un libro croci e delizie della professione (e qualche consiglio ai giovani)

Il fascino del design non tramonta, e ogni anno migliaia di ragazzi si iscrivono a scuole di architettura, disegno industriale, arti visive e chi più ne ha più ne metta con il sogno del cassetto di diventare i nuovi Philip Starck.E' appena uscito un libro in cui una cinquantina di grandi designer - quasi tutti italiani - si raccontano: «Pane e progetto», sottotitolo «Il mestiere di designer» [qui a sinistra, la copertina] scritto dall'architetto Stefano Follesa e pubblicato da FrancoAngeli. Sebbene dei protagonisti del volume i più giovani siano nati a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, attraverso questi racconti di vita vissuta anche i ragazzi di oggi possono riflettere, imparare, scorgere nuove prospettive.Molto spesso il libro riporta storie eccezionali, difficilmente ripetibili: come quella di Antonio Citterio, che racconta con nonchalance che fondò il suo primo studio a diciott'anni e che ancor prima di laurearsi aveva già la sua indipendenza economica («Erano chiaramente degli anni straordinari - ammette però - era tutto molto più semplice»). Oppure quella di Simone Micheli, che a venticinque anni, fresco di laurea, si ritrovò a dirigere un importante studio rimasto in panne per la morte prematura del proprietario: «La mia esperienza era pressochè nulla - ricorda - Fui subito catapultato in un vortice di lavoro iperbolico». Vortice da cui scelse di allontanarsi dopo pochi mesi, rifiutando una strepitosa proposta economica pur di «seguire il cuore». O quella di Matteo Ragni, che solo ventiduenne (correva l'anno 1995) aveva già il suo primo pezzo in produzione: tra l'altro Ragni è l'unico dei designer intervistati a raccontare di aver fatto un'esperienza da stagista, o meglio - nel gergo del settore - da "tiralinee". Tutti i pomeriggi, dopo le lezioni al Politecnico di Milano, andava ad aiutare un grande vecchio dell'architettura a selezionare il materiale da inserire in un libro sulla sua carriera. Stage atipico, però, perchè da tiralinee il «giovane apprendista, sprovveduto aspirante architetto» si trasformò quasi subito in "nipote acquisito", rimase a bazzicare in quello studio per tre anni, e ancora ricorda il vecchio maestro, ormai scomparso, come un nonno.La storia più bizzarra è forse quella di Gianfranco Gualtierotti, che da piccolo voleva fare il meccanico alla Ferrari - altro che designer! La sua gavetta è quindi molto diversa dagli altri: prima tornitore presso un'officina che produceva macchine e telai per tessuti, poi operaio meccanico alla Permaflex, in mezzo alle macchine che sfornavano i materassi a molle, per poi finire a progettare sedili, divani e poltrone. Certo, con le nuove leve questi designer non ci vanno col guanto di velluto: «La preparazione è molto teorica, conoscono poco l'evoluzione del design italiano, sanno ben poco di storia dell'arte - affonda Gualtierotti - per non parlare poi dei prodotti storici del design anni '60 - '80. Tecnologicamente poi sono completamente acerbi». Stefano Giovannoni consiglia di «non limitare il proprio orizzonte ad ambiti troppo specifici», Piero Lissoni mette in guardia dalle "superstar mediatiche", «piccoli mostri che dopo pochissimo, due anni o due progetti, spariscono nel nulla» e invita i giovani a cogliere le tante occasioni di lavoro del mondo di oggi facendo uno sforzo di «qualità quotidiana di continuità del lavoro».Una voce fuori dal coro è però quella di Giulio Iacchetti, uno dei più giovani designer intervistati nel libro (è nato nel 1966): «Si incontrano nella professione persone capaci che hanno avuto dei cattivi maestri e altrettante persone non brave che hanno avuto invece ottimi maestri. Arriva comunque il momento in cui l'allievo deve farcela da solo». Insomma, tutto sta nel talento e nella determinazione individuale: «Non mi piace sentir parlare di scuole di serie A e di serie B; se uno non ha la stoffa per fare il designer, non lo farà neanche se frequenta la Central St. Martins di Londra». Iacchetti poi suggerisce ai giovani di non puntare solo sulle grandi aziende di design: «Cercare un percorso standardizzato, del tipo diploma, laurea e poi tentare di lavorare per Cappellini, significa esporsi a un'alta probabilità di fallimento». E allora come muoversi per trovare la propria strada professionale? «Iniziare a guardare quello che succede sotto casa propria». Se da una parte quindi Iacchetti incoraggia i giovani a costruirsi il proprio percorso stando alla larga dagli schemi prestabiliti, dall'altra fustiga le scuole che crescono come funghi per succhiare soldi agli aspiranti creativi: «Si sta sviluppando un business intorno alla formazione nel campo del design: informarsi sugli effettivi benefits che ogni istituto vanta è un buon antidoto anti-fregatura» spiega, e conclude un po' indignato: «C'è una scuola di Milano che chiama i suoi studenti "clienti"!». Ma a fare i designer, poi, si riesce a mettere insieme uno stipendio decente? A rispondere senza peli sulla lingua, pragmaticamente, è infine una donna, la bolognese Miriam Mirri: «Non si guadagna poi così tanto. Oppure si guadagna, ma dura poco. Dipende anche dal tipo di contratto, io lavoro quasi sempre con contratti a royalties, diritti d'autore, quindi guadagno in base alle vendite degli oggetti che entrano in produzione e che vengono veramente venduti. Però, se su sanno gestire un po' le cose, la libertà di movimento e le esperienze che si possono fare sono una vera fortuna». Aspiranti designer avvisati, mezzi salvati.Eleonora Voltolina