Categoria: Approfondimenti

Radiografia del reddito minimo garantito: cos'è, quanto costa, come funziona

Nelle ultime settimane si è parlato molto di reddito minimo garantito. Si tratta di un punto presente nei programmi di diverse forze politiche presenti nel Parlamento appena insediato ed è uno degli elementi programmatici fondamentali del M5S. Ma su cosa sia effettivamente c’è parecchia confusione. Prima di analizzare quale sia la proposta concreta dei singoli partiti su questo argomento, è bene fare un po’ di chiarezza e sgombrare il campo da possibili equivoci. Il reddito minimo garantito (Rmg) è una misura presente in molti Stati europei, volta a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti. È quindi un aiuto che lo Stato dà ai suoi cittadini affinché nessuno cada nella trappola della povertà e dell’esclusione sociale, ed è destinato principalmente a chi non ha redditi da lavoro o ha retribuzioni insufficienti. Si tratta di un programma universale e selettivo al tempo stesso, nel senso che è basato su regole uguali per tutti (non limitato ad alcune categorie di lavoratori), ma la concessione del sussidio è subordinato ad accertamenti sulla condizione economica di chi lo domanda e, generalmente, alla sua disponibilità a cercare un lavoro.Quindi il Rmg non è – solo – un sussidio di disoccupazione: quest'ultimo ha natura previdenziale (è finanziato con i contributi dei lavoratori), va soltanto a chi ha perso il lavoro e ha maturato una certa anzianità contributiva, è limitato nel tempo. Il sussidio di disoccupazione esiste anche in Italia e con la riforma Fornero è stato diversificato in due diversi strumenti, Aspi e MiniAspi, entrambi destinati ai lavoratori dipendenti. Secondo una proiezione della Banca d’Italia, mentre oggi solo il 50% dei lavoratori è coperto dal sussidio di disoccupazione, con la riforma Fornero questa percentuale aumenterà del 16%. Resterà comunque fuori più di un terzo dei lavoratori italiani, i più deboli, visto che Aspi e MiniAspi non includono chi ha un contratto di lavoro atipico. Né la nuova indennità una tantum per i collaboratori coordinati continuativi potrà colmare questa lacuna, dato che i parametri sono talmente stringenti da interessare potenzialmente meno del 10% dei parasubordinati, peraltro con importi pro capite bassissimi - compresi tra 750 e 4.500 euro l'anno. In molti Paesi europei il Rmg va proprio a coprire le fasce escluse dalle indennità di disoccupazione: precari, giovani alla ricerca del loro primo lavoro, persone che hanno cessato di ricevere il sussidio di disoccupazione, e anche chi, pur lavorando, non ha retribuzioni sufficienti a garantirgli una vita dignitosa. Un fenomeno che sembra tristemente in aumento in Italia, dove non esiste neppure il salario minimo, uno standard minimo di retribuzione oraria che deve essere inderogabilmente rispettato in tutti i rapporti di lavoro. In Francia per esempio è di 9,43 euro lordi all'ora, ovvero 1.430 euro mensili lordi per un impiego a tempo pieno. In Italia invece diversi livelli di salari minimi sono previsti, per ogni categoria di lavoratori, dalla contrattazione fra le parti sociali. Ma ancora una volta rimangono esclusi tutti coloro che “sfuggono” all’applicazione dei contratti nazionali (stagisti, parasubordinati o atipici ecc.). Nel dibattito politico italiano è poi molto diffusa la confusione tra Rmg e reddito di cittadinanza. Nonostante i due termini siano spesso usati come sinonimi, non lo sono affatto. Mentre il Rmg serve a dare una capacità di sussistenza a chi non accede a forme di retribuzione sufficienti, il reddito di cittadinanza è un sussidio dato a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione lavorativa e patrimoniale, finalizzato al godimento pieno e consapevole dei loro diritti. Il reddito di cittadinanza (o di esistenza) è un sussidio universale e non condizionato: in altre parole se fosse introdotto in Italia lo riceverebbero tutti (dal disoccupato allo stagista fino a Lapo Elkann, come hanno scritto recentemente Tito Boeri e Roberto Perotti su La Voce) per un tempo indefinito e indipendentemente dalla loro ricchezza, da altri redditi e dalla loro volontà di cercare un lavoro. Un vero e proprio reddito di cittadinanza incondizionato al momento esiste solo in Alaska. Il modello nasce nel 1982 grazie a un'idea del governatore Jay Hammond: alla ricerca di un modo per sfruttare la ricchezza del petrolio della Prudhoe Bay a vantaggio dei cittadini, Hammond decise di creare un fondo sui rendimenti, l'Alaska Permanent Fund (APF) legato a una condizione: che una parte della rendita fosse devoluta al pagamento di un dividendo annuale a tutti i cittadini, dalla nascita fino alla morte. Grazie all'APF ogni cittadino dell’Alaska ha ricevuto dal 1982 a oggi fino a 2.069 dollari l’anno - cumulabili con lo stipendio, senza alcuna condizione. Se il reddito di cittadinanza, per ovvie ragioni di costi oltre che di opportunità politica, esiste solo in Alaska (un territorio sterminato popolato da soli 700mila abitanti), forme diversamente declinate di Rmg rappresentano invece uno schema comune a tutti i Paesi europei, eccetto Italia, Grecia e Ungheria.Sono state proprio le istituzioni della Comunità europea a indicare in più occasioni agli Stati membri la necessità di introdurre programmi nazionali di lotta alla povertà e all’esclusione sociale che prevedessero strumenti universalistici di tutela a partire proprio dal Rmg. In particolare il 20 ottobre 2010 il Parlamento europeo ha varato a vasta maggioranza una Risoluzione sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa, che afferma: «un adeguato sostegno al reddito è un elemento importante per le politiche di inclusione, dato che per coloro che sono esclusi dagli ammortizzatori sociali e dai sussidi di disoccupazione, il reddito minimo può essere l’unico modo per sfuggire alla povertà». Secondo questa risoluzione il Rmg è in primis un diritto sociale fondamentale, che ha come parametro assoluto la protezione della dignità dell'individuo e della sua «possibilità di partecipare pienamente alla vita sociale, culturale e politica».Ma chi può usufruirne nel resto d’Europa? Solitamente bisogna essere cittadino o almeno residente nel Paese da un certo lasso di tempo, bisogna avere una certa età (18 anni nella maggior parte dei casi, ma in Germania ne hanno diritto anche i minori), bisogna dimostrare di non avere risorse finanziarie o patrimoniali sopra una certa soglia e di essere alla ricerca attiva di un lavoro. Nella maggioranza dei Paesi, il Rmg è costituito in parte da un sussidio monetario, in parte da agevolazioni per la casa, i trasporti, gli asili nido, le cure mediche, i servizi culturali. In molti Paesi, è inteso anche come mezzo per consentire ai giovani di rendersi indipendenti dalla famiglia: per esempio in Danimarca un under 25 che non vive con i genitori riceve 719 euro mensili come “contributo per l’avviamento a una vita autonoma”. In Olanda il sussidio comprende anche misure specifiche per avviare i giovani al lavoro o a un percorso formativo, e integra i loro redditi qualora siano insufficienti o intermittenti. In quasi tutti i casi si tratta di un diritto soggettivo, rilasciato cioè a titolo individuale e non in base alle condizioni economiche del nucleo familiare, anche se può venire ricalcolato in base al numero di persone a carico. Per esempio in Germania un single inoccupato riceve 364 euro oltre alla copertura delle spese di alloggio e riscaldamento, mentre per un single con tre figli il sussidio monetario sale a 1.017 euro. Di norma la durata è illimitata, fino al miglioramento delle condizioni economiche del beneficiario, ma in molti Paesi il sussidio decade qualora si rifiutino proposte di lavoro giudicate congrue.Il problema del reddito minimo è che rappresenta un costo ingente. Ma quanto, di preciso? Una relazione dettagliata del dicembre 2011 sui risultati e sui costi della Revenu de solidarité active (Rsa) francese consente di esaminare i costi sostenuti da un Paese considerato simile al nostro per popolazione, tasso di disoccupazione, struttura sociale e tradizioni giuridiche. Il Rsa è stato introdotto dal 2009 per sostituire il Revenu minimum d’insertion, una forma di reddito minimo che esisteva dal 1988, il sussidio per i genitori soli e i diversi meccanismi di incentivo alla ripresa dell’attività lavorativa. Il Rsa spetta a tutti i residenti in Francia da almeno cinque anni, il cui reddito sia inferiore a una certa soglia (per un single è il salario minimo mensile, per una coppia senza figli circa 1,4 volte tanto) e la cui età sia compresa tra i 25 anni (fatta eccezione per quegli under 25 che siano già genitori o che abbiano almeno due anni di lavoro alle spalle) e l’età pensionabile. Il sussidio è pari a 483 euro per un single senza altri redditi, a 724 per una coppia, a 868 euro per una coppia con un figlio ecc. Al crescere del reddito da lavoro, il sussidio diminuisce ma il reddito disponibile aumenta: se un single guadagna 400 euro, per esempio perché lavora part-time, gli viene riconosciuto un sussidio di 318 euro e il suo reddito disponibile sarà di 718 euro, se uno ne guadagna 800 riceverà 166 euro di Rsa, per un “totale” di 966 euro. Questo meccanismo è pensato perché il Rsa non si trasformi in un disincentivo al lavoro, un’accortezza che potrebbe essere importata anche in Italia per evitare i temutissimi effetti distorsivi di un eventuale reddito minimo nel nostro Paese. Per riassumerli con le famose parole del ministro Elsa Fornero: «C’è troppa gente che si adagia, anche sul poco; e in questo Paese quindi se tu dai una cosetta a uno ha la tendenza a non muoversi, visto che c’è il sole per nove mesi all’anno e più o meno si vive con pomodori e pasta».Per tornare al modello francese e ai suoi costi, nel 2010 i beneficiari del Rsa sono stati 1,8 milioni (intesi come nuclei familiari, quindi circa 4 milioni di individui), di cui il 64% risultava del tutto privo di reddito, mentre il restante 36% ha richiesto il sussidio “integrativo”. La spesa complessiva per il finanziamento del Rsa nel 2010 è stata di 9,8 miliardi di euro, comprensiva delle erogazioni dei sussidi (84,4%), delle spese per i percorsi di attivazione e di inserimento (14,1%) e delle spese amministrative per la messa in opera della misura (1,5%). È una cifra molto simile a quella che l’erario italiano spende attualmente per i suoi ammortizzatori sociali. Secondo un’analisi a cura della Uil, nel 2011 le indennità di disoccupazione, mobilità e cassa integrazione sono costate nel complesso 18 miliardi di euro, di cui ben 9 hanno pesato sulla fiscalità generale, cioè sulle casse dello Stato. Ciò significa che abbiamo speso per un sistema di welfare che tutela solo un lavoratore su due la stessa cifra che Oltralpe ha garantito a tutti i cittadini un programma di protezione universalistico e più equo.Anna GuidaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Reddito minimo garantito, le proposte dei partiti- Pietro Ichino: il reddito minimo può funzionare solo a certe condizioni- Luca Santini: sì al reddito minimo per affrontare la precarietàE anche:- Indennità una-tantum per cococo e cocopro: più che un ammortizzatore, una beffa- «Per garantire a tutti 600 euro al mese bastano 18 miliardi di euro all'anno»

L'artigianato si vende in Rete grazie alla startup fiorentina Buru-Buru

«Cercavamo una parola che descrivesse il valore aggiunto di un oggetto artigianale unico rispetto ad uno inserito nel circuito della grande distribuzione. Ci siamo rifatte al verso, allo stupore di un bambino che vede qualcosa di nuovo». E così è nata Buru-Buru, la start-up che Lisa Gucciarelli (29 anni, al centro nella foto) ha fondato insieme alla sorella Sara (33) e a Sara Campani (27). L'azienda si occupa di «rendere più fruibile il prodotto delle piccole realtà creative italiane».Non si tratta semplicemente di un sito di e-commerce. «Da un lato noi vendiamo creazioni artigianali selezionati, dall'altro produciamo internamente delle cose, selezioniamo delle grafiche che stampiamo su poster fine art e anche su t-shirt». L'idea di inserirsi in questo settore è nata partecipando a Free Shout, un festival della creatività andato in scena a Prato dal 2006 al 2009. «Abbiamo conosciuto molte persone che producevano complementi di arredo piuttosto che gioielli, molto belli e a prezzi accessibili ma che per diverse ragioni non riuscivano a venderli. Ci siamo rese conto che mancava un negozio trasversale e fluido nella gestione dei contatti».Esattamente quello che Buru-Buru si propone di essere. Per arrivare a crearla, però, c'è voluto del tempo. Laureatasi nel 2006 in Organizzazione di eventi culturali, per tre anni Lisa Gucciarelli ha lavorato per una cooperativa di Firenze. Poi, nel 2009, è partita per Roma: «per sei mesi mi sono arrangiata con dei lavoretti, poi ho trovato in un settore affine al mio percorso di studi. Ma solo con contratti a progetto, nulla di esaltante». Finché, lo scorso anno, ha deciso di seguire una sua «aspirazione», quella cioè di «arrivare intorno ai 30 anni ad aver costruito un lavoro legato ad un progetto che fosse nato da me. Le mie esperienze lavorative mi hanno portato a pensare che se in un contratto non c'è uno stipendio adeguato, né la tutela dei diritti, allora tanto vale provarci piuttosto che essere dipendente di qualcuno che non ti fa stare bene».Per «provarci» Gucciarelli ha coinvolto la sorella Sara, laureatasi a Prato in Ingegneria dell'informazione telematica: «lei si occupa degli aspetti legati al software, mantenendo i contatti con gli sviluppatori». Poi è arrivata Sara Campani. «A maggio dello scorso anno siamo entrate nell'Incubatore tecnologico fiorentino», realtà creata dal comune e dalla Camera di commercio di Firenze per favorire la nascita di nuove imprese. Qui le due sorelle hanno ricevuto la proposta di partecipare a «Firenze crea impresa», un'iniziativa promossa da Confindustria per far incontrare dei giovani startupper con degli studenti di marketing, a cui veniva chiesto di realizzare una presentazione dell'azienda per cercare degli investitori. «Noi non ne abbiamo trovati, però Sara è rimasta con noi».E così a settembre dello scorso anno le tre giovani hanno dato vita a Buru-Buru che, al momento, è una ditta individuale con il regime dei minimi intestata a Sara Gucciarelli. «È la forma che ci costava meno». Al momento l'azienda già sta fatturando, ma non in misura sufficiente a garantire uno stipendio alle tre fondatrici. Campani sta ultimando gli studi, Sara Gucciarelli continua a lavorare con ingegnere a partita Iva e solo la sorella Lisa è impegnata a tempo pieno nella start-up. «Ci aiuta nostra madre, la nostra business angel. Lei ha avuto un'attività per trent'anni e ora ha creduto di aiutarci a costruire un lavoro». Grazie all'aiuto della famiglia, che una volta di più si conferma colonna del welfare in Italia, le tre imprenditrici possono lavorare al loro progetto. Intanto a dicembre hanno lasciato l'Incubatore fiorentino per trasferirsi all'interno di Nana Bianca, acceleratore d'impresa che ha sede sempre a Firenze. «Abbiamo trovato persone con cui confrontarci rispetto al web: ci aiutano a realizzare campagne pubblicitarie, a lavorare sulla user experience, ad ottimizzare il sito».Il tutto in forma completamente gratuita. O meglio in base al principio del work for equity: «abbiamo firmato un contratto per cui ci impegniamo a dare all'acceleratore una quota della società non appena l'avremo costituita». Sì, perché le tre startupper sono alla ricerca di un finanziatore che consenta loro innanzitutto di dar vita ad una società a responsabilità limitata, quindi di investire sul marketing. «All'inizio abbiamo utilizzato i social network, da poche settimane abbiamo introdotto AdWords», servizio offerto da Google che permette di promuovere a pagamento il collegamento al proprio sito, che compare come link sponsorizzato come risposta ad alcune chiavi di ricerca. Ma l'obiettivo è quello di «acquistare spazi pubblicitari sui siti che si occupano di moda, nuove tendenze e artigianato». Mentre, a brevissimo, verrà aperto un blog, sul quale si potrà seguire il percorso di Buru-Buru. Che Gucciarelli traccia già con sicurezza: «abbiamo già iniziato a fatturare, contiamo a raggiungere il pareggio di bilancio entro la fine dell'anno». Per poi continuare a crescere.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull Studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game- Tekné Italia, quando la tradizione si fa start-up- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresaVuoi saperne di più sugli incubatori di impresa? Leggi anche:- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire- H-Farm. Boox e Nanabianca, un'«alliance» per sostenere le start-up- Milano capitale delle start-up grazie a Polihub e Tag Milano

Pubblico, cassa integrazione per i giornalisti assunti: ma ancora niente compensi ai collaboratori

«Cronaca di un giornalicidio». I redattori di Pubblico scelgono questo titolo per raccontare la fine della loro avventura nel quotidiano fondato dal direttore-editore Luca Telese. È il 30 dicembre 2012: il giorno successivo il giornale sarà in edicola per l’ultima volta con un enorme «Grazie» ai lettori in prima pagina. Dopo appena tre mesi da quel 18 settembre in cui si era presentato con il motto «Dalla parte degli ultimi e dei primi», il quotidiano con il logo ispirato a quello della testata francese Libération chiude i battenti. Venti redattori (17 con contratto a tempo indeterminato e 3 a tempo determinato), sei grafici e una settantina di collaboratori esterni perdono il lavoro. A tre mesi dalla fine delle pubblicazioni i 26 dipendenti, dopo un lungo periodo di incertezza, hanno ottenuto la cassa integrazione: percepiranno dagli 800 ai 900 euro al mese finché non troveranno un nuovo lavoro. Niente lieto fine invece per i giornalisti che hanno collaborato da esterni inviando articoli e reportage: aspettano ancora di essere pagati, e alcuni di loro hanno con il giornale crediti a tre zeri. Contemporaneamente all'avvio del processo di liquidazione di Pubblico srl, il comitato di redazione (organo di rappresentanza sindacale dei giornalisti), supportato dal sindacato Stampa Romana, ha firmato un mese fa in Regione l’accordo con l’azienda per 24 mesi di cassa integrazione per cessazione di attività, il massimo previsto dal decreto legge 78/2009. «Nei casi in cui una testata chiude lasciando da un giorno all’altro i giornalisti senza lavoro di solito si prevedono due anni» spiega Mariagrazia Gerina, membro del cdr «saremmo stati quindi un unicum se solo per la breve vita di Pubblico, ci avessero dato ammortizzatori sociali ridotti per scoraggiare avventure simili». Una possibilità evitata: «Sarebbe stata una beffa se avessimo dovuto pagare anche in questo modo la fine di questa avventura». Del resto in questo periodo a partire dalle grandi testate - come il gruppo Rcs che ha messo in atto un piano per 800 esuberi - alle piccole realtà che fanno in conti con la riduzione di vendite e pubblicità, si ricorre in maniera sempre più massiccia a cassa integrazione e prepensionamenti a cui le casse dell’Inpgi (Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani) fanno fronte con fatica crescente. «A un certo punto abbiamo temuto che ci venisse scaricato addosso anche questo problema». Nonostante l’offerta del finanziere milanese Alessandro Proto di rilevare il giornale, il cdr ha sempre ritenuto di tenere aperto il tavolo della cassa integrazione e di eventualmente revocarlo quando fosse effettivamente subentrato un nuovo editore. Una possibilità che non si è più ripresentata da quando la trattativa con Proto, intenzionato a riportare Pubblico in edicola facendosi carico dei 200mila euro di debiti e investendo 4 milioni, è finita su un binario morto dopo l’arresto del 14 febbraio scorso dell’imprenditore con l’accusa di manipolazione del mercato. La linea editoriale immaginata dal finanziere 38enne, azionista di minoranza di Rcs, lasciava comunque molti perplessi, a iniziare dal direttore di Pubblico. L’idea di un «Fatto Quotidiano di destra» scoraggiava tanti giornalisti che avevano deciso di seguire Telese in un’esperienza editoriale del tutto diversa, lasciando talvolta contratti a tempo indeterminato per rischiare l'avventura in un giornale «di sinistra, progressista, senza finanziamenti pubblici». Dopo una trattativa naufragata che ha sollevato problemi di coscienza, nella cassa integrazione è stata inserita la clausola del «rientro volontario». Nel momento in cui un nuovo editore dovesse farsi avanti, i giornalisti potranno liberamente decidere, in base alla nuova linea editoriale, se tornare o meno al lavoro senza perdere, in caso di rifiuto, l’ammortizzatore sociale. Ma l’ingresso di un nuovo editore è a questo punto importante anche per un altro motivo: garantirebbe finalmente il pagamento dei collaboratori esterni che da novembre, un mese prima della chiusura del giornale, non hanno più ricevuto compensi. Una settantina di giornalisti che hanno contribuito alla breve vita di Pubblico scrivendo da casa - peraltro il giornale prevedeva compensi di tutto rispetto, variabili tra i 60 e i 150 euro ad articolo. A loro l’azienda deve circa 80mila euro. «I processi di liquidazione sono piuttosto lunghi e non sappiamo quando effettivamente l’azienda salderà questo debito», spiega alla Repubblica degli Stagisti Stella Morgana, rappresentante dei collaboratori in cdr, che il 4 marzo scorso, tramite il sindacato Stampa Romana, ha inviato una lettera di sollecitazione a cui l’azienda non ha risposto. «In ogni sede abbiamo ribadito la posizione di creditori privilegiati dei collaboratori, sono loro i primi a dover essere pagati, questa per noi resta una priorità assoluta» chiarisce Gerina. Ma che lo affermi il cdr è quasi scontato: ben più significativa sarebbe una conferma in questo senso da parte della proprietà. Conferma che finora non è arrivata.A distanza di tre mesi dalla fine dell’esperienza di Pubblico, continuano gli interrogativi sui motivi che ne hanno determinato la chiusura. Il giornale, nato con un capitale sociale iniziale di 748mila euro, per sopravvivere avrebbe dovuto vendere 8mila copie ma non ha mai toccato neanche la metà. Oltra alla carenza di vendite, i redattori rintracciano in un prezzo di copertina troppo alto (1 euro e mezzo), nell’assenza di una campagna pubblicitaria che precedesse l’esordio del giornale nelle edicole e nella mancanza di un piano B imprenditoriale altri motivi che ne hanno determinato la morte. «Un’analisi chiara sarà possibile solo quando vedremo il bilancio con le voci di spesa dal primo all’ultimo giorno», afferma Gerina. Terminata l’avventura di Pubblico, i giornalisti cercano di proseguire la professione. Alcuni hanno iniziato collaborazioni o si sono lanciati in altri progetti: la Gerina per esempio, dopo aver lasciato un contratto a tempo indeterminato a L’Unità per seguire l’avventura del giornale di Telese, sta girando come freelance un documentario sulla rinuncia di Ratzinger. Molti dei collaboratori continuano a proporre pezzi ad altre testate, come la Morgana che, dopo aver lavorato come advisor durante la campagna elettorale, firma articoli e reportage su diverse riviste. «Nonostante la soddisfazione dopo l’accordo per la cassa integrazione» dice Paola Natalicchio, anche lei membro del cdr «alla fine di questa esperienza resta una cicatrice professionale, l’amarezza di tanti che hanno rinunciato a un posto di lavoro sicuro per portare il loro contributo nelle pagine di Pubblico: il giornale dalla parte degli ultimi e dei primi». Prima però di chiudere senza pagare i collaboratori.Annalisa AusilioPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Cassa integrazione per i padri, stage gratuiti per i figli: la perversa disconnessione fra paga e lavoro- Le scuole di giornalismo sono ormai solo per i figli dei ricchi- A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo

Vivere e lavorare all’estero, il web insegna come fare

La «fuga dei cervelli» non è soltanto un’espressione che trova ormai ampio spazio nel nostro linguaggio comune, ma un fenomeno supportato da dati statistici che purtroppo non preannunciano un’inversione di tendenza. Una delle ultime fotografie dell’Istat, riferita al 2011, individua una crescita del numero di laureati che lasciano il nostro Paese: se nel 2002 la percentuale era pari all’11,9% del totale dei laureati, nel 2011 è più che raddoppiata, balzando al 27,6%. Scende però, parallelamente, la quota di emigrati con licenza media, dal 51% al 37,9%: il che vuol dire in soldoni che l'Italia si fa sfuggire i giovani più istruiti, che sono anche costati fior di quattrini alle casse dello stato tra università e qualifiche post-universitarie, e si tiene quelli scarsamente specializzati. Principali mete di destinazione sono Germania, Svizzera, Regno Unito e Francia, paesi che insieme accolgono il 44% degli italiani di età superiore ai 25 anni che lascia il nostro Paese.Ma come si fa a cercare uno stage o un lavoro all’estero? Una delle fonti privilegiate è il web. E non a caso in Rete esistono non pochi siti dedicati ai giovani che decidono di intraprendere o hanno già iniziato una carriera fuori dall’Italia. In ambito europeo, uno dei portali di riferimento è La tua Europa, che fornisce indicazioni e suggerimenti utili per la mobilità. Il sito è articolato in due parti, una dedicata ai cittadini e l'altra alle imprese. «Viaggiare»; «lavoro e pensioni»; «veicoli»; «formalità di soggiorno»; «istruzione e gioventù»; «salute»; «famiglia e consumatori» sono le sezioni indirizzate ai cittadini. Una sorta di vademecum con informazioni utili per chi si vuole trasferire: dal tipo di documenti necessari alle procedure per la richiesta di cure mediche, fino a tutte le notizie utili relative a istruzione e formazione. Il sito presenta anche una sezione dedicata agli stage, con indicazioni su come ottenere un sostegno finanziario, grazie al programma Leonardo, e ricevere assistenza sanitaria nel paese di destinazione. Più che un portale per la ricerca di lavoro o stage, La tua Europa è soprattutto un sito divulgativo, dove trovare informazioni di servizio fornite direttamente dall’Unione Europea, che fa da «garante» della qualità dei contenuti pubblicati. L’area dedicata alle imprese è, infine, una guida pratica per chi vuole seguire la strada dell’imprenditoria in Europa, con le «istruzioni» necessarie per l’avvio e il mantenimento di un’attività all’estero e per ottenere eventuali finanziamenti.Eurodysée è invece indirizzato esclusivamente a chi è in cerca di uno stage in Europa. Il sito deve il nome a un programma di scambio organizzato dall’Assemblea delle Regioni Ue, rivolto ai giovani tra i 18 e i 32 anni che vogliono svolgere un tirocinio all’estero di durata compresa tra i tre e i sette mesi. Eurodysée presenta una mappa di tutte le regioni degli stati europei interessate dal programma, l’elenco delle offerte di stage attive e le indicazioni per fare domanda. Punto di forza è il costante aggiornamento della sezione stage: le offerte di tirocinio sono inserite in ordine cronologico e ciascuna riporta in evidenza il paese sede del tirocinio, le date di inizio e fine stage e la deadline per l’invio della candidatura. Non si può dire lo stesso per l’area news: l’ultima notizia risale a novembre 2012! Molto popolare è poi Eures, portale che fa riferimento all’omonima rete di cooperazione, nata nel 1993 tra la Commissione Europea, i servizi pubblici dell’occupazione degli stati membri dello Spazio economico europeo (Ue più Norvegia, Islanda e Liechtenstein) e della Svizzera, sindacati e organizzazioni dei datori di lavoro. Il sito è rivolto sia a chi è in cerca di lavoro che alle aziende. Nel primo caso i candidati hanno a disposizione una sezione dedicata dove inserire il proprio cv, modificare le informazioni personali e consultare le offerte di impiego. Va citata anche la sezione «vita e lavoro», che fornisce le informazioni pratiche, giuridiche e amministrative fondamentali per chi va all’estero. Lo studio e la formazione hanno il proprio spazio nell’area «apprendimento», con l’elenco di borse di studio o corsi attivi nei paesi Ue. L’area news, relativa ad aggiornamenti su lavoro e mobilità, è aggiornata al mese in corso e lo stesso vale per le offerte pubblicate. Eures ha, poi, una vocazione spiccatamente «social», non sempre esistente negli altri siti di settore: si trova su Facebook (oltre 47mila like), Twitter (più di 10mila followers), LinkedIn e Google+. E sappiamo tutti quanto conti il passaparola sui social media quando si cerca lavoro.Restringendo lo sguardo al nostro Paese, in Rete è famoso italiansinfuga, «creatura» di Aldo Mencaraglia, laureato al Politecnico di Torino ed emigrato per lavoro in Inghilterra, prima, e, successivamente, Cina, Taiwan e Australia. Mencaraglia fa tesoro della sua esperienza e nel 2008 dà vita al blog, diventato una specie di bussola per chi si avventura all’estero. Italiansinfuga si sviluppa in quattro direzioni: innanzitutto fornisce notizie suddivise per continente e per paese, da informazioni di servizio ad approfondimenti sui settori più gettonati o sulle professioni più richieste in quel determinato paese. L’interazione degli utenti è molto forte: gran parte degli articoli sono, infatti, commentati dai lettori. Se, però, le notizie in home suddivise per paese sono aggiornate quasi quotidianamente, la sezione in evidenza, dedicata agli «altri articoli recenti» pubblica pezzi del 2009, consentendo di risalire ai più recenti solo grazie alla ricerca d’archivio per anno e mese. La sezione «lavoro», poi, offre un elenco delle offerte attive in tutti gli Stati. Sul sito si possono trovare anche dei veri e propri corsi online, gestiti dallo stesso Mencaraglia, relativi, ad esempio, alla scrittura di un cv o una cover letter in inglese, oppure su come affrontare e gestire al meglio un colloquio di lavoro. Italiainsfuga punta a creare un network virtuale tra chi condivide o ha condiviso l’esperienza di lavorare fuori grazie ai suoi canali social, come una pagina Facebook forte di oltre 22mila fan e l’account Twitter seguito da 11mila followers. C’è, poi, Europalavoro, frutto della collaborazione tra ministero del Lavoro e Fondo Sociale Europeo. Il portale fornisce informazioni precise sulle politiche comunitarie in materia di occupazione giovanile, sui servizi di orientamento professionale italiani ed europei e sulle iniziative di formazione del nostro Paese e del resto d’Europa. Particolarmente dettagliata la sezione «lavoro», con alcuni passaggi importanti per facilitare la ricerca, notizie sui centri per l’impiego italiani e europei (Eures) e suggerimenti utili per fare impresa. Europalavoro è un po’ il corrispettivo nazionale de La tua Europa: un sito molto «istituzionale» che offre informazioni utilissime, ma non pubblica offerte di lavoro. Anche il sito del ministero degli Esteri ha una sezione aggiornata, interamente dedicata alle opportunità di studio e lavoro per giovani, dalle borse finanziate dalla Farnesina ai progetti di cooperazione allo sviluppo, fino alle opportunità nelle organizzazioni internazionali.Porta, infine, la firma dell’Isfol, in collaborazione con il programma Leonardo, il portale Prepara la mobilità, che offre una panoramica articolata sui sistemi di istruzione dei vari paesi Ue, sulle ricerche effettuate dall’istituto in materia di mobilità internazionale e sui progetti attivi, oltre a un elenco di link a istituzioni italiane ed europee. In particolare, la sezione link è utile per reperire i contatti delle agenzie nazionali, con il compito di gestire in ciascun paese europeo le iniziative che rientrano nel programma Leonardo.Una delle difficoltà maggiori di chi vuole espatriare è forse proprio quella relativa alla ricerca di informazioni e consigli per affrontare nel migliore dei modi la vita e il lavoro all’estero. Siti come questi intendono, quindi, essere un valido supporto per sopperire al problema.Chiara Del PriorePer approfondire questo argomento, leggi anche:- Trovare lavoro in Europa, per i giovani c'è Eures- Fuggi-fuggi dall'Italia: sono almeno due milioni i giovani all'estero- Basta davvero un clic per trovare lavoro? Il Ministero investe 400mila euro in un nuovo portale per l'impiego

Il camper di Renzi riaccende i motori, ora gira l'Italia alla caccia di nuove start-up

Il camper di Matteo Renzi torna a viaggiare. Questa volta però la politica non c'entra: il sindaco di Firenze ha infatti venduto il veicolo al giornalista Riccardo Luna, già direttore del mensile Wired e fondatore di StartupItalia, e Gianluca Dettori, inventore di Vitaminic e oggi presidente a tempo pieno di dPixel. I due sono pronti a lanciare lo StartupItalia Barcamper Tour, un viaggio che toccherà una quarantina di città e trenta università in tutta Italia alla ricerca della nuova generazione di aziende innovative.L'obiettivo è ambizioso. Come spiegano in una nota gli ideatori di questo progetto, si punta ad «incontrare mille start-up entro la fine del 2013». Le cento ritenute migliori avranno la possibilità di partecipare alle TechWeek, percorsi di allenamento intensivo della durata di una settimana, durante le quali gli startupper avranno modo di lavorare a stretto contatto con investitori professionali e specialisti che li aiuteranno a definire al meglio il proprio progetto imprenditoriale. È previsto un ulteriore percorso di selezione che porterà le migliori dieci start-up a prendere parte a TechGarage, evento conclusivo del tour che permetterà a questi giovani imprenditori di presentare la propria azienda di fronte ai principali protagonisti del venture capital e dell'ecosistema dell'innovazione italiana. Un'occasione unica per accedere a finanziamenti e sviluppare la propria impresa.Questo progetto nasce dall'incontro tra due esperienze, quella di StartupItalia e quella di Barcamper. La prima è una «piattaforma per l'innovazione», come la definisce il suo ideatore Luna, che dal prossimo 21 marzo si aprirà a tutto l'universo delle start-up. L'obiettivo è quello di creare un social network che favorisca l'incontro di startupper, venture capitalist, realtà di co-working. Il portale avrà due versioni, una in italiano e l'altra in inglese, perché «i migliori progetti italiani possano essere valorizzati in tutto il mondo». Barcamper è invece il programma di accelerazione per start-up lanciato nel 2012 da dPixel, società specializzata nel finanziare aziende tecnologiche. Lo scorso anno questa iniziativa ha toccato quindici città e dieci atenei, percorrendo 4.700 chilometri per incontrare 220 nuove imprese. «Abbiamo milioni di giovani ricercatori, creativi ed inventori in Italia. Si tratta della generazione probabilmente con i più alti livelli di istruzione nella storia» riflette Dettori: «milioni di persone con le idee e le competenze che ci servono per risollevarci dalle difficoltà e costruire le aziende in grado di competere sui mercati italiani».Il camper di Renzi subirà in questi giorni un restyling e verrà presentato nella sua nuova veste il 21 marzo nell'ambito di Codemotion, evento di riferimento per gli sviluppatori di software italiani in programma a Roma dal 20 al 23 marzo. Sarà attrezzato come un ufficio mobile e a bordo ricercatori e startupper potranno incontrare direttamente i rappresentanti di dPixel: avranno a disposizione venti minuti per presentare il proprio progetto e convincere il fondo guidato da Dettori ad investire nella propria idea. È possibile prenotarsi direttamente dal sito, che riporta l'elenco delle 60 tappe italiane del Barcamper, cui se ne aggiungono tre internazionali: il tour toccherà anche Berlino, Barcellona ed Amsterdam andando alla ricerca degli innovatori italiani che vivono all'estero. Per trovare anche i migliori "cervelli in fuga" e sostenerli nella loro impresa.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre iniziative dedicate alle start-up? Leggi anche:- Al via Wind business factor 2013, il campionato italiano delle start-up- Non solo mele, con TechPeaks a Trento si coltiveranno anche start-up- Gianluca Dettori: «Decreto start-up, un passo nella giusta direzione»- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire- H-Farm. Boox e Nanabianca, un'«alliance» per sostenere le start-up- Milano capitale delle start-up grazie a Polihub e Tag MilanoE anche le storie di start-up di successo:- Fattelo!, la start-up sostenibile nata dalle donazioni online- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Rilancio dell'apprendistato, mission (quasi) impossible

Tanti dati e un'unica certezza: l'apprendistato, invocato e pubblicizzato da almeno un decennio come soluzione a tutti i mali del precariato e della disoccupazione giovanile italiana, è applicato pochissimo – secondo l'Isfol vengono attivati meno di 300mila contratti di questo tipo all'anno – e per giunta è in calo. L'alto apprendistato, ovvero quello rivolto ai laureati, va ancora peggio ed è quasi lettera morta. Di rilanciarlo se ne fa un gran parlare, soprattutto a seguito delle modifiche introdotte con il decreto legislativo 167/2011, in vigore dal primo gennaio. Tra le iniziative del momento c'è la proposta congiunta del ministero del Lavoro e Fixo (il progetto per il placement della Sapienza), che si sono uniti nell'intento di promuovere lo strumento di rilancio del mercato del lavoro per eccellenza. E che qualche giorno fa a Roma, in una conferenza affollatissima di studenti (soprattutto) e qualche azienda e professore universitario, hanno spiegato le nuove regole dell'apprendistato, impegnandosi a contribuire affinché questa tipologia contrattuale si affermi una volta per tutte. La Repubblica degli Stagisti ha però voluto scandagliare a fondo la questione con i relatori, chiedendo loro cosa si può fare in concreto perché le cose cambino davvero rispetto a un passato e a un presente in cui l'apprendistato è di fatto snobbato dalle aziende. Più che mai se si tratta della tipologia numero tre: quella che dovrebbe permettere ai giovani tra i 18 e i 29 anni di conseguire titoli universitari, post-universitari e il praticantato per le professioni associate a un ordine, che è quella sui cui puntano gli addetti di Fixo. Le risposte, dirette e senza filtri, non hanno lasciato molto spazio alla speranza. Carlo Magni [nella foto a sinistra], coordinatore scientifico del programma Soul della Sapienza, ne fa una questione pratica. «Premesso che l'apprendistato se applicato correttamente è la formula migliore in assoluto, e che se capita a un giovane un'offerta di questo tipo, ne è felicissimo, chi invece non è tanto contento sono le aziende». È chiaro infatti che «se devono ricorrere per esempio a una sostituzione maternità, o a risorse da impiegare nel breve periodo, non si mettono a cercare apprendisti, ma scelgono la via più breve: i contratti precari». Anche se in realtà l'apprendistato, pur essendo dal punto di vista giuslavoristico un contratto a tempo indeterminato, prevede comunque la possibilità di licenziamento con modalità abbastanza semplificate. Ma attivare l'apprendistato di terzo tipo per le università non è altro che un lavoro in più, e Magni lo racconta con preoccupante rassegnazione. «Abbiamo tagli ovunque, qui tutti hanno votato Grillo. Il turnover è praticamente azzerato. Chiedere a qualcuno di mettersi a fare tutta la trafila di moduli necessari ad attivare corsi o master per l'alto apprendistato significa lavoro in più» che nessuno dei dipendenti della martoriata università ha voglia di fare. Ma c'è anche un barlume di speranza: «L'università e il mondo produttivo devono smetterla di essere autoreferenziali e cominicare a parlarsi, perché questo significherebbe stare tutti un po' meglio. In questo senso è necessario un cambiamento di intenzioni, di consapevolezza». E poi, a dirla tutta, la responsabilità del sempre promesso e mai realizzato rilancio dell'apprendistato non grava solo su università e imprese. «Anche le Regioni sono coinvolte, devono legiferare per rendere applicabile il decreto, e anche le parti sociali hanno l'obbligo di fornire dei quadri di riferimento attraverso contratti collettivi. Dopodiché bisogna avere pazienza perché non è che in due mesi si risolve un problema che è lì da vent'anni». Ancora più pessimista è Pietro Lucisano [foto sotto], direttore scientifico di Soul, scettico soprattutto sull'uso dell'apprendistato per l'alta formazione: perché questa tipologia contrattuale è storicamente legata all'accesso a mestieri soprattutto manuali mentre «un dottore è uno che di ossa se n'è già fatte tante ed è un po' ridicolo che debba continuare a farsele».  E aggiunge: «Del resto se un'azienda vuole una risorsa qualificata, dopo un tirocinio trimestrale magari se la tiene senza troppi giri di parole... e di contratti». Ma il vero problema è la mancanza di domanda di lavoro: «Se non c'è è inutile inventarsi sistemi. La nostra è molto frammentata, e il comparto del pubblico, che non è una piccola fetta, si sta rivelando il più infame per i giovani». Come il collega Magni, anche Lucisano non nega la concorrenza dei contratti precari e degli stage all'applicazione dell'apprendistato, ma non vede in questo l'elemento determinante: «Con l'apprendistato puoi essere licenziato  in qualunque momento, quindi dire che non si tratti di un contratto precario bensì di un tempo indeterminato è una pura petizione di principio». Anzi, dice, «è più stabile un cocopro con cui almeno sei sicuro di lavorare un tot di mesi». Affermazione a dire il vero un po' ardita: la possibilità di lasciare a casa l'apprendista in effetti esiste, ma non proprio “in ogni momento”. Una volta sancita la conferma dopo il periodo di prova, salvo circostanze eccezionali, l'apprendista può essere “licenziato” (cioè non confermato a tempo indeterminato) solo al termine dei due, o tre, o sei anni di durata del contratto di apprendistato.Un altro grave problema è poi la comunicazione. A volte le aziende non sanno neanche che cos'è l'apprendistato. «È come se ti dicessero di sposarti senza conoscere il partner: è un contratto che, se presentato come fisso, spaventa le aziende» spiega Lucisano: «Va detto che non è così. E poi le regole cambiano di continuo, non si può pensare che il mondo delle imprese stia appresso a uno strumento così volatile e per la cui applicazione deve ricorrere magari a un commercialista specializzato. A questo punto preferisce prendere il tirocinante in nero». In pratica, dice il professore, si deve spiegare a un soggetto che ci sono sgravi retributivi e contributivi: l'apprendista può essere inquadrato fino a due livelli inferiori rispetto alla categoria spettante, statuisce la legge; poi le imprese che hanno più di dieci dipendenti godono di un'aliquota del 10%, mentre quelle con meno di dieci dipendenti hanno sgravi addirittura del 100%. E terminata la formazione il beneficio del 10% prosegue. Per l'alto apprendistato c'è persino un incentivo economico: 6mila euro per ogni assunto full time per almeno un anno e 4mila per ogni assunto part time per almeno un anno. Ma diventa tutto inutile se le regole cambiano continuamente: «è il terrore delle aziende» che allora ricorrono altrove. Allora meglio gettare la spugna? Lucisano risponde di no e suggerisce di far leva sugli aspetti di flessibilità e di sconti fiscali che sono quelli da cui è più attratta un'azienda. «Sarei contento di essere smentito» chiosa, smorzando un po' le proprie riserve. Più ottimista Luca Stefanini di Italia Lavoro: «Le aziende e le imprese non conoscevano l'apprendistato, stanno cominciando ora a capire cos'è. Fino a oggi hanno avuto notizie solo della tipologia del professionalizzante». Insomma dietro ci sarebbe solo un problema di comunicazione sbagliata. Stessa cosa per gli studenti, finora all'oscuro di tutto. E anche Stefanini, pur ammettendo la concorrenza sleale dei più facili contratti precari, sostiene che non stiano sullo stesso piano e quindi minimizza il loro ruolo. «Se nasce un  interesse reale da parte di un'azienda è perché c'è bisogno di inserire una persona qualificata e di tenerla nel medio-lungo termine». Sui numeri bassissimi dell'apprendistato però è meglio non farsi illusioni. «Probabilmente non ci sarà un'esplosione. Ma abbiamo visto l'interesse delle imprese nei progetti a lungo termine, già nel loro presenziare i seminari sull'argomento». E non solo grandi aziende, ma anche piccole e medie. «Magari comprendono che hanno bisogno di qualcuno che sappia per esempio il russo e come trattare con il mercato asiatico e così fanno  un investimento». La parte formativa del contratto di apprendistato viene strutturata a seconda delle dimensioni dell'impresa: se piccola si delega tutto all'università, altrimenti si fanno delle classi apposite. Quanto agli sgravi e al battere il chiodo su questo elemento per convincere le aziende, Stefanini ha un'idea diversa, certo che tutto dipenda dalle Regioni che devono stanziare i fondi. «Se ad esempio per l'apprendista laureato è previsto un master come percorso di formazione, e il corso viene pagato dalla Regione, l'azienda non è costretta a demandare questo onere al giovane. In questo modo si facilita il meccanismo del contratto». Tutti devono fare la loro parte: «La pratica è molto più complicata della realtà» ammette Stefanini, «le Regioni devono legiferare e le parti sociali devono stabilire contratti collettivi per evitare i buchi normativi e l'impasse». Ma è fiducioso rispetto al futuro: «Abbiamo fatto finora poche centinaia di contratti di apprendistato di alta formazione, però siamo partiti solo da un anno. Nel Lazio, dove ancora manca la regolamentazione applicativa, le università stanno aderendo quasi tutte».In conclusione, se non riparte l'economia e dunque la domanda di lavoro, c'è poco di concreto per confidare in un serio rilancio dell'apprendistato. Con buona pace delle promesse del ministro Fornero.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, rilanciare l'apprendistato non basta - Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione- Apprendistato: contratto a tempo indeterminato oppure no?- Il contratto di apprendistato dopo l'esame del Senato E anche: - Contratti di apprendistato in calo, nasce un sito per rilanciarli 

Fattelo!, la start-up sostenibile nata dalle donazioni online

Costruire oggetti di design da materiali di scarto, ricercare finanziamenti attraverso il crowdfunding e utilizzare i social network per diffondere l’idea. C’è tutto questodentro Fattelo! una delle prime start-up italiane nata dalle donazioni volontarie degli utenti del web. Loro sono quattro designer – tre di 28 anni e uno di 29 - che hanno coniugato sostenibilità, innovazione e manualità nella 01 Lamp, una lampada realizzata con il cartone della pizza ripiegato e dotato di luce a Led. Un team formato da Mattia Compagnucci un graphic designer e direttore artistico di uno studio grafico milanese, Antonio Scribano un esperto di web laureato all’Isia di Firenze (Istituto Superiore Industrie Artistiche) e Daniele Schinaia, product designer presso un’azienda che produce cucine. Ad avere l’idea è Federico Trucchia che da Londra, dove frequenta il Royal Collage Art of  London dopo aver chiuso a Firenze uno studio di modellazione professionale aperto con un altro giovane socio, contatta i tre amici – colleghi. A Daniele, Mattia e Antonio il prodotto piace, così a Ottobre 2011 iniziano a studiare diversi modelli di lampade. Un lavoro di squadra reso possibile dalle videochiamate via Skype che abbattono i 2mila chilometri di distanza (vivono tuttora in città diverse: Londra, Milano, Firenze e Ancona). Una volta sviluppata la versione definitiva della lampada, «Dopo aver mangiato una quantità industriale di pizza», racconta Antonio Scribano da Firenze, lanciano il loro progetto su Eppela, la piattaforma di crowdfunding che offre gratuitamente la possibilità di far conoscere la propria idea in rete, con uno scopo preciso: chiedere al popolo del web 5mila euro per dare vita alla loro una start–up. «Abbiamo chiesto un aiuto concreto per la nascita di Fattelo!» chiarisce Antonio «non avevamo capitale iniziale da investire e volevamo effettivamente capire se ci fosse qualcuno interessato a sostenere un progetto del genere, cercavamo una risposta dal mercato». Grazie a 94 donatori, in 42 giorni i quattro design hanno superato di mille euro il budget previsto. Il 7 Dicembre 2012 hanno raccolto 6mila euro e, pochi giorni dopo, il 21, hanno registrato una srls, la società a responsabilità limitata semplificata. «Raggiungere la cifra è stata una conferma ma allo stesso tempo una sorpresa», perché il crowndfunding è in Italia un fenomeno poco conosciuto. La scelta che offrono i ragazzi di Fattelo! è duplice: si può acquistare la lampada online per 35 euro e ricevere a casa il cartone già fustellato in una versione compatta per risparmiare sugli ingombri di spedizione, o scaricare gratuitamente dal sito le istruzioni per montare a casa l’oggetto. La seconda opzione utilizza la modalità di pagamento «Pay-with-a-tweet», cioè dopo il download della sagoma della lampada si autorizza l’invio di un tweet (“Oggi costruirò la mia lampada…”) o un “mi piace” sulla pagina Facebook del prodotto. Anche questo un sistema poco utilizzato nel nostro paese che Mattia, l’esperto di comunicazione del team che vive a Milano, ha importato dai paesi anglosassoni per polverizzare i costi della pubblicità. Convincere la gente a costruire la lampada è una parte fondamentale del progetto perché Fattelo! fa della partecipazione e del «Do it yourself» il suo motto. Su questo binario si svilupperà il futuro dell’appena nata start-up in una logica che invita al riutilizzo creativo di materiali che normalmente buttiamo. Un’idea che ha avuto già molto successo, i fratelli Freitag hanno costruito un mito con le borse ricavate da teloni di camion, camere d’aria di biciclette, cinture di sicurezza e airbag. Tutto  rigorosamente già usato. I finanziamenti del popolo del web sono stati tutti investiti: 996 euro di capitale sociale, i costi dell’apertura del conto in banca, l’iscrizione al registro delle imprese e le spese di produzione e spedizione delle lampade. Il tutto non è stato complicato: «la digitalizzazione della burocrazia e l’esenzione dei costi notarili per questo tipo di società ci hanno aiutato molto», spiegano. Conoscono, però, i problemi che dovranno affrontare, prima di tutto la «pressione fiscale e la difficoltà di accesso al credito», per questo nel loro futuro il crowdfunding e la partecipazione degli utenti continueranno ad essere determinanti. L’intenzione dei giovani designer è quella di continuare a vendere prodotti creati da materialidiriutilizzati e di creare una piattaforma open soruce in cui designer e utenti possano contribuire allo sviluppo e al miglioramento di prodotti eco-design. Le idee più apprezzate dalla comunità virtuale saranno messe in vendita in un marketplace con una maggiorazione del prezzo che sarà il guadagno dell’ideatore. Fattelo! per ora si occupa dell’assemblaggio e spedizione della lampada prodotta da un’impresa di cartotecnica ma il team punta a diventare produttore di cartoni della pizza già fustellati «così il cliente dopo cena può costruire la lampada!». «Abbiamo tante idee e facciamo fatica a seguire tutto anche perché ognuno di noi ha il suo lavoro e in questa fase iniziale non possiamo ancora lasciare», chiarisce Antonio: «per il momento nessuno di noi ha guadagnato un euro». La sera e nel week end lavorano alla progettazione di un altro oggetto di design di cui non possono anticipare nulla se non che «sarà ricavato da un altro tipo di cartone che normalmente buttiamo via», ancora una volta finanziato dal crowdfunding. «Abbiamo raccolto le donazioni puntando sulla sfida “Aiutaci a costruire un’azienda innovativa” e anche per questo nuovo prodotto dobbiamo utilizzare un tema forte per supportare la campagna che, questa volta, pensiamo di allargare al contesto europeo». La raccolta fondi online è la loro soluzione alla difficoltà di accesso al credito per i giovani, conoscono le potenzialità ma anche le difficoltà di questo nuovo strumento. «Non basta una buona idea per avere successo con il crowdfunding ma è necessario un progetto che unisca strategia comunicativa, conoscenza del web e design». Il lancio del secondo prodotto sarà la prova del nove e il popolo del web detterà il futuro della loro avventura.Annalisa AusilioPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Mirko Pallera di Ninja Marketing: «Startupper, contagiate la rete con le vostre idee»Vuoi conoscere altre storie di star-up?- La ssrls convince gli startupper, fondate 3mila in quattro mesi- Milano capitale delle start-up grazie a Polihub e Tag Milano- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game  

Università, ricerca al collasso: e il paradosso è che i dottorandi vengono considerati studenti

La ricerca è il fiore all'occhiello di un Paese: ma non in Italia. Basta leggere i dati pubblicati dal terzo rapporto Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani) su dottorato e post dottorato, presentato a Roma a febbraio, per convincersene. Le borse, tanto per dirne una, hanno subito una decurtazione pari a oltre 200mila euro soltanto considerando gli ultimi cinque anni (quindi dal 2008 a oggi), e basandosi sull'analisi di ventuno università. «Il numero complessivo di borse è passato da 5.045 nel 2008 a  3.084 nel 2012, con una media per ateneo scesa da 245,4 a 185,7» denunciano Nevio Dubbino [nella foto sotto] e Chiara Orsi nell'illustrare le cifre emerse dalla loro analisi. Invece di investire, si taglia - proprio in un settore strategico per qualunque Paese scelga di guardare al futuro. Ignorando l'apporto delle scoperte scientifiche sulla vita dei cittadini. Ma c'è di peggio. Per il 2013 risultano banditi ben 3.030 posti per dottorati di ricerca senza borsa, su un totale di 12mila attivati in media ogni anno: uno su quattro in pratica è gratis. Addirittura alcune università hanno aperto un numero di posti privi di copertura finanziaria superiori a quelli accompagnati da borsa (fa eccezione solo la Puglia che, precisa lo studio, dal 2006 finanzia i dottorati senza borsa con fondi stanziati dalla Regione equivalenti a quelli ministeriali). E se prima la legge prevedeva che il numero di dottorandi senza borsa non potesse superare la metà dei posti retribuiti, dopo la legge Gelmini (240/2010) «questo limite è stato soppresso» accusano dall'Adi, «lasciando agli atenei ampia discrezionalità sul numero di borse da assegnare». Ma il povero ricercatore costretto a studiare gratis per contribuire al sapere della collettività non dovrà solo arrangiarsi per poter vivere. Dovrà anche rimediare i soldi per pagare le tasse (da cui il borsista è invece, paradossalmente, esente), in continuo aumento destinate a crescere ulteriormente. A differenza dello studente che versa le tasse universitarie, a cui il dottorando è di fatto assimilato (succede solo da noi e in Lituania ed è «un errore» tuonano i rappresentanti della categoria, «perché si tratta di lavoratori a tutti gli effetti»), il dottorando senza borsa è esonerato dalle tasse solo in base al merito e non anche al reddito. Il risultato è «una selezione per censo» tra chi ha alle spalle una famiglia con i mezzi necessari a sostenere per tre anni il dottorando e chi no. E poi «esiste estrema eterogeneità e discrezionalità nella determinazione dell’importo della tassazione, cosa che di fatto crea una duplice discriminazione legata anche alla sede in cui si vince il concorso». Vincerlo alla Sapienza di Roma comporta ad esempio un obolo fino a duemila euro, a Napoli al massimo 900, mentre a Trento l'iscrizione costa 140 euro e a Pavia 300. La proposta di Adelaide D'Auria e Valentina Maisto è «di eliminare le tasse per i dottorandi senza borsa», portando lo status di dottorando a quello di lavoratore. «Il percorso di dottorato è fatto non solo di formazione, ma di osmosi tra formazione e ricerca. Riconoscere lo status professionale è doveroso così come chiede la Carta europea dei ricercatori adottata da tutti i rettori italiani nel 2005, secondo cui l'attività professionale inizia – sempre e comunque – subito dopo la laurea». Per Adi il dottorato va trasformato in un contratto a causa mista, in cui il «dottorando è un lavoratore a tutti gli effetti coperto dal welfare». Considerare chi fa ricerca come un semplice studente ha i suoi riflessi anche sul piano della rappresentanza. In base ai calcoli di Viola Galligioni dell'Adi «solo nel 25% delle università pubbliche i dottorandi sono dignitosamente rappresentati, mentre quasi nella stessa percentuale di atenei le possibilità di partecipare alle attività degli organi di governo sono fortemente limitate. Hanno al massimo la possibilità di essere rappresentanti nei consigli di dipartimento, mentre in altri organi collegiali come il cda, il nucleo di valutazione e così via, sono perlopiù aggregati agli studenti, un corpo elettorale di gran lunga più ampio». Non è cosa da poco. «Dottorandi, assegnisti e ricercatori a tempo determinato sono una parte fondamentale della comunità universitaria. Senza questa componente la ricerca - che, insieme all'insegnamento, è uno dei compiti degli atenei - non sarebbe possibile in molti campi». L'appello della Galligioni è deciso: «La comunità accademica dovrebbe smetterla di considerarli come soggetti esclusivamente produttivi e riconoscerli come partecipanti e attivi». Le previsioni per il futuro, come si intuisce da questo quadro, non sono rosee. «Il 93% degli assegnisti non continuerà a fare ricerca nell'università, e il 78% di loro uscirà dal percorso accademico al termine dell'assegno, mentre il 15% uscirà dopo aver ricoperto una posizione da ricercatore a tempo determinato» snocciola Saverio Bolognani: «Nel 2012 nelle nostre università si è raggiunto un traguardo storico: metà di chi fa ricerca ha un contratto a termine tipo cococo con la conseguenza di una costante fuga di competenze». L'assegnista di ricerca è quindi una figura transitoria che prima o poi abbandonerà l'università. Situazione aggravata in Italia dal fatto che il titolo di dottore di ricerca è scarsamente riconosciuto e spendibile sul mercato del lavoro (all'estero il problema dello spreco di competenze riguarda solo il 16% dei post-doc). E se a Torino, Milano, al Politecnico di Bari e a Firenze va sicuramente meglio che altrove (vanno dai 50 ai 70 gli assegnisti e i ricercatori stabilizzati su 100 strutturati), all'università di Bari, a Foggia, Napoli e Macerata si incontra la catastrofe: al  massimo dieci su 100 vengono stabilizzati. Infine, un'altra criticità: è vero che sono i settori scientifici e tecnologici quelli dove si fa più ricerca, ma questi sono anche quelli in cui è più difficile inserirsi con contratti a tempo indeterminato. Il problema è «il finanziamento statale assolutamente insufficiente e un reclutamento bloccato ormai da anni, vera causa della creazione di sacche di precariato». La stabilizzazione post dottorato è una vera chimera, spiega Alessio Rotisciani dell'Adi [nella foto in alto] alla Repubblica degli Stagisti. Concluso il ciclo ci sono tre strade: «o si inizia con una serie di contrattini tipo assegni di ricerca, contratti a tempo determinato etc, o si accede al concorso per ricercatore tramite RTDb - propedeutico all'assunzione come professore associato - oppure si chiude la propria carriera. Il problema è che con la legge Gelmini e i sistematici tagli al sistema, il contratto RTDa, che prima era prerequisito per accedere all'RTDb, non lo è più». Il risultato è che, saltando questo passaggio, si può passare di nuovo a uno stato di precarietà dopo l'RTDa, che in questo modo «si va ad aggiungere alla giungla dei contratti precari di post dottorato». Questi dati sono fonte di vergogna se comparati con l'Europa: siamo al quarto posto per numero di dottorandi (ne abbiamo 38mila, contro gli 85mila della Gran Bretagna, i 70mila della Francia e della Spagna), ma – considerando il dato sulla popolosità (numero dottori su 1000 abitanti) – precipitiamo al diciassettesimo dopo Islanda e Polonia. Con l'importo della borsa (da noi innalzato a 1.035 euro mensili netti) scivoliamo poi al 15esimo posto in Europa seguiti da Portogallo, Francia (che concede solo 500 euro in caso di borsa di studio, ma 1.550 come stipendio), e Polonia. I primi sono gli svizzeri e i norvegesi che elargiscono rispettivamente 4mila e 3mila euro ai propri ricercatori. Per loro infatti i dottorandi sono veri e propri dipendenti dell'università, perché, commenta Rotisciani, «con il loro lavoro quotidiano contribuiscono al funzionamento e alla competitività del sistema accademico». Altro che studenti.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Ricerca e start-up, centinaia di opportunità di lavoro per giovani imprenditori e ricercatori- Fuga dei cervelli, il 73% dei ricercatori italiani all’estero è felice e non pensa a un rientro- «Vivendo altrove, il confronto fra l’Italia e altri paesi diventa impietoso. E illuminante». In un libro le storie degli italiani che fuggono all'esteroE anche: - Fisica che passione: la testimonianza di Marco Anni, vincitore del premio Sergio Panizza nel 2009

Nelle statistiche ufficiali stagisti tra gli «occupati». Ma come, non erano in formazione?

Nelle statistiche sull'occupazione, le persone che si trovano in una fase di formazione professionale (tirocinio o praticantato) sono considerate “occupate” se ricevono un compenso in denaro o indennità accessorie. Questo è il caso degli stagisti che usufruiscono di un rimborso spese o di buoni pasto. A qualcuno potrà sembrare incredibile, perchè è chiaro che il 99% dei giovani impegnati in un tirocinio non si sente affatto «occupato» - anzi spera di trovare lavoro grazie allo stage; e non di rado lo abbandona senza rimpianti, se gli capita la fortuna di sentirsi proporre un vero contratto di lavoro da qualche altra parte. Eppure la pratica consolidata di annoverare gli stagisti nelle file degli occupati - anzichè dei disoccupati - viene confermata alla Repubblica degli Stagisti direttamente dall’Eurostat, l'ufficio statistico dell'Ue. Ai criteri adottati a livello europeo devono uniformarsi anche gli istituti di statistica dei singoli Paesi membri. Così anche la ricercatrice dell’Istat Rita Ranaldi conferma che «a partire dai dati del 2011, nelle note esplicative di Eurostat che il nostro istituto segue, sono state aggiunte alcune precisazioni riguardo la definizione di occupato: in particolare sono da considerare occupati anche eventuali stagisti che percepiscono una retribuzione sotto forma di rimborso spese o buono pasto». Il tutto nasce dall'esigenza di armonizzare i dati a livello europeo, avendo come punto di riferimento la definizione ufficiale di occupato, per la quale Eurostat si rifà all’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro: «È occupato colui che ha lavorato almeno un'ora nella settimana di riferimento».Gli stagisti che, invece, non ricevono alcun buono pasto o rimborso spese, sono considerati inattivi se nella settimana di riferimento risultano iscritti a un corso di studi senza lavorare almeno un’ora, e disoccupati se non risultano iscritti a un corso di studi e se hanno cercato attivamente lavoro, senza trovarlo.«La scelta di Eurostat di non includere gli stagisti nelle statistiche sulla disoccupazione ha una sua giustificazione razionale» spiega Maurizio Del Conte, docente di Diritto del Lavoro alla Bocconi di Milano. «Ma quando questa metodologia si trasporta automaticamente e senza mediazioni a un mercato del lavoro come quello italiano, il dato statistico finisce per avere un effetto profondamente distorsivo della realtà rappresentata. Chi conosce la complessa realtà dei nostri  stagisti sa bene come – non sempre, ma molto spesso – un risibile rimborso spese costituisca proprio la chiave di accesso al fiorente mercato dello sfruttamento della disoccupazione, che è oggi la risorsa più abbondante del nostro mercato del lavoro. In altri termini, il giovane vende all’impresa la propria disoccupazione in cambio di un sogno, quello di un posto di lavoro, pur nella consapevolezza che la probabilità che esso si avveri è assai remota. Ora, è ben vero che nulla vieta il mercato dei sogni, ma sarebbe meglio che restasse fuori dalle statistiche ufficiali» conclude il professor Del Conte.Secondo una ricerca realizzata dalla Repubblica degli Stagisti insieme all'Isfol tre anni fa, la prima e per ora unica che ha provato a fotografare la condizione degli stagisti anche dal punto di vista economico, poco più della metà degli intervistati (52%) non riceveva alcun compenso per lo stage finendo dunque, secondo le prescrizioni dell'Eurostat, nel novero dei disoccupati/inoccupati. Ma il restante 48%? Occupato: anche a fronte di un compenso bassissimo, pressoché simbolico. Sempre secondo il sondaggio RdS-Isfol, nel 14% dei casi al tirocinante venivano offerti meno di 250 euro netti al mese e nel 17% tra 250 e 500 euro al mese. Considerando il costo della vita nelle città dove più frequentemente si fanno stage, Milano e Roma, è evidente che 200-300 euro servono a poco o niente e lo stagista rimane a carico dei genitori. L’opportunità dello stage viene così preclusa a chi non ha un’adeguata disponibilità economica. Per chi con tanti sacrifici riesce comunque a fare quest’investimento sul proprio futuro, essere considerato occupato dagli istituti di statistica suona un po’ come una beffa. Forse anche Eurostat potrebbe stabilire dei criteri al rialzo per considerare gli stagisti tra gli occupati, al di là delle definizioni dell’Ilo: per esempio avere un compenso minimo mensile di 500 euro (quello che del resto da tempo propone la Repubblica degli Stagisti). O quanto meno non considerare tra gli occupati quelli che ricevono solo un buono pasto: se infatti il valore medio è di 5 euro, per 25 giorni di presenza al mese si porta a casa l'equivalente di 125 euro. Davvero poco per considerare i tirocinanti, nelle indagini statistiche, alla stregua di lavoratori che possono mantenersi con il proprio salario. Ma lo stage non era solo ed esclusivamente formazione? «Infatti non sapevo di questa regola di classificazione statistica» ammette alla Repubblica degli Stagisti Ilaria Lani, responsabile Cgil per le Politiche giovanili: «Ritengo sia assolutamente sbagliato che uno stagista sia considerato tra gli occupati se riceve un buono pasto o un rimborso spese. Creare una distinzione nelle statistiche tra gli stagisti a costo zero e quelli che ricevono un contributo minimo è ancora più grave perché è come legittimare un’area grigia di abuso: un minimo di compenso dovrebbe essere dato a prescindere, anche per un’attività formativa come lo stage e per il contributo che il tirocinante dà all’azienda, ma considerarlo tra gli occupati è un’assurdità».Il segretario confederale Cisl e responsabile del Dipartimento Mercato del lavoro Luigi Sbarra, invece, era a conoscenza di questo dettaglio statistico: «Il riferimento allo svolgimento di almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività, senza specificare che deve trattarsi di un contratto di lavoro, fa rientrare tra gli occupati anche i tirocinanti, purchè percepiscano un corrispettivo». E lancia un allarme per il futuro, legato all'attuazione delle linee guida sui tirocini extracurriculari concordate lo scorso gennaio in sede di Conferenza Stato-Regioni: «La rilevazione Istat sarà su questo punto ancora più fuorviante, in ragione dell’obbligo appena introdotto di erogare una indennità ai tirocinanti». L'introduzione di una misura in favore degli stagisti, insomma, potrebbe avere il risultato distorto di "dopare" ancor di più il dato sulla disoccupazione, riducendo la percentuale di disoccupati con la forzatura dettata dall'Eurostat di considerare occupato qualsiasi tirocinante percepisca una indennità, anche minima, anche miserrima come il buono pasto. E infatti Giuliano Ferrucci, ricercatore dell’Ires, sottolinea il rischio di sovrastimare i dati sull’occupazione considerando occupato chiunque abbia svolto almeno un’ora di lavoro remunerato nella settimana di riferimento. «Per questo motivo sono state proposte altre modalità di classificazione. Una di queste fa riferimento alla condizione auto-percepita dell’intervistato, in risposta alla domanda “In conclusione, nella settimana di riferimento, come si considerava?” del questionario della Rilevazione continua sulla forza lavoro». Su questo tema le istituzioni dovrebbero interrogarsi, per evitare ulteriori distorsioni della realtà. Specialmente in un momento in cui il mercato del lavoro è per la maggior parte dei giovani inaccessibile, e spesso l’unica speranza è l’inserimento attraverso l’esperienza di stage.Antonio SiragusaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Disoccupazione giovanile: alla ricerca dell'età più rappresentativa- In Italia un giovane su tre è senza lavoro. Ma è davvero così?- Cresce la disoccupazione giovanile europea. Scarpetta, dirigente Ocse: «necessari più sussidi per i precari»- Linee guida sugli stage, 400 euro al mese di rimborso «obbligatorio»: ma solo in teoriaE anche:- Inoccupati, disoccupati, stagisti: facciamo chiarezza

Al via Wind business factor 2013, il campionato italiano delle start-up

Prende il via la seconda edizione di Wind business factor Competition 2013, campionato per start-up promosso da Wind Business in collaborazione con TheBlogTV. Sono già ventuno i giovani imprenditori che si sfideranno in questa competizione, contendendosi l'accesso a fondi e finanziamenti, percorsi di formazione e soprattutto la possibilità di volare verso la Silicon Valley.Così come lo scorso anno, Wbfc si struttura in tre fasi distinte. O tre gironi, come vengono definiti, ognuno dei quali si articola in tre parti: Selection, Training e Performance. Il primo capitolo, aperto lo scorso 28 febbraio per concludersi il prossimo 29 aprile, chiede agli startupper di realizzare un video o una presentazione per far conoscere la propria azienda. Pubblicati sul sito della manifestazione, i contenuti potranno essere visualizzati e votati anche dagli utenti, oltre che dal team Wind business factor.Le dieci migliori aziende passerranno alla fase successiva, quella di Training, che prevede quattro settimane di business coaching e di mentorship, con l'obiettivo di aiutare gli startupper a perfezionare il loro modello aziendale e soprattutto di mettere a punto la presentazione della propria impresa. La prova finale prevede infatti un pitch round, ovvero un incontro con alcuni investitori che gli imprenditori dovranno convincere a finanziare la propria idea. Le tre aziende ritenute più interessanti dal team di Wbfc potranno così accedere alla fase di Performance, durante la quale avranno la possibilità di incontrare dal vivo venture capitalist, business angels e imprenditori di successo.A questi ultimi il compito di decretare il vincitore del primo girone, che potrà scegliere se essere premiato con un tour di formazione in Silicon Valley o con l'opportunità di essere incubato in uno degli acceleratori di impresa partner della manifestazione, ovvero Luiss/Enlabs, Tag e The Hub. Prenderà quindi il via, intorno a giugno, il secondo girone, strutturato esattamente come il primo e al quale potranno partecipare sia le aziende già iscritte che quelle che non hanno preso parte dall'inizio. Mentre, in autunno, ci sarà una terza competizione.La Wbfc 2013 è aperta alle start-up attive in quattro categorie: Hi-Tech, Digital, Green&Social e Made in Italy. È bene precisare che le idee si sfidano tutte tra di loro, senza alcuna divisione per il campo di attività. La partecipazione è completamente gratuita e di per sé offre due vantaggi. Il primo è la visibilità garantita dal sito e da una comunità Facebook seguita da oltre 13mila persone. Il secondo riguarda invece la possibilità di accedere a prezzi agevolati agli incubatori e ai coworking partner della manifestazione. Senza dimenticare che per i vincitori c'è la concreta possibilità di ottenere un finanziamento, come è avvenuto ai tre trionfatori dell'edizione 2012.Mangatar, piattaforma di social gaming, lo scorso anno si è aggiudicata il Premio nazionale dell'innovazione ed ha visto entrare nel proprio capitale sociale dPixel, il fondo di venture capital di Gianluca Dettori. Mentre BadSeed, vincitore del terzo girone, è stata selezionata dall'incubatore estone GameFounders, dove ora sta sviluppando i suoi videogiochi per mobile. Le ragioni per partecipare, insomma, non mancano. Possono candidarsi sia aspiranti imprenditori che presentino il progetto di una start-up che titolari di aziende attive da meno di quattro anni. Il termine per le iscrizioni alla fase di Selection del primo girone scade il 29 aprile.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre iniziative dedicate alle start-up? Leggi anche:- Non solo mele, con TechPeaks a Trento si coltiveranno anche start-up- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire- H-Farm. Boox e Nanabianca, un'«alliance» per sostenere le start-up- Milano capitale delle start-up grazie a Polihub e Tag MilanoVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull Studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa