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Bando agli stereotipi, con Bet she can si scommette sulle donne: fin da piccole

Investire sulle future generazioni e in particolare sulle bambine che diventano veicolo e centro del cambiamento: da qui parte la fondazione Bet She Can, (espressione inglese che vuol dire “scommetto che ce la fa!”) nata nel gennaio 2015 da un’intuizione di Marie Madeleine Gianni, 44 anni, oggi dirigente part time in una multinazionale italiana, con l’obiettivo di offrire a giovanissime gli strumenti per sviluppare la consapevolezza di se e delle proprie potenzialità.«Ho avuto la fortuna di vivere un’infanzia e un percorso professionale e personale da privilegiata, senza subire una serie di stereotipi e sovrastrutture, che hanno pesato meno rispetto ad altre coetanee sulla mia educazione. Ma, purtroppo, nelle nostre società occidentali ci sono ancora tante costrizioni per le bambine. E da qui è nato l’intento di ragionare in modo diverso dal solito concentrandosi sulle opportunità», spiega la presidente della Fondazione Gianni. Partire quindi con un approccio positivo e far crescere delle opportunità, altrimenti non prese in considerazione, proprio in una fascia di età in cui gli stereotipi non giocano ancora un ruolo predominante. «Tra gli otto e i dodici anni si può ancora agire in modo positivo e ottenere un cambiamento. Anche perché la fascia di età successiva, l’adolescenza, ha altre priorità e il dialogo con gli adulti diventa più complesso». Perciò la Fondazione ha scelto questo target, buttando un occhio a quello che succede all’estero. Se in Italia corsi di empowerment per donne non mancano ma sono principalmente dedicati alle giovani dai 16 anni in su, all’estero - in particolare in Canada e Stati Uniti - ci sono varie realtà che anticipano questo tipo di interventi.Al momento Bet she can offre vari progetti, in corso o in cerca di finanziamento, come la seconda edizione di “In viaggio con Rosetta”. «È un progetto che tocca il settore della robotica e dell’aeronautica e attraverso l’avventura della sonda Rosetta che va a raggiungere la sua cometa, le bambine svolgono dei laboratori di robotica e programmazione e dei workshop sui pianeti e le comete. Quindi nozioni base di astrofisica per avvicinarle a questi mestieri prettamente maschili». Oggi le donne rappresentano ancora solo circa il 10% degli ingegneri nell’industria aeronautica e aerospaziale. Un altro progetto che ha avuto molto successo è stato Cambiamo gioco, abbinato alla campagna «Barbie puoi essere tutto ciò che desideri» organizzato a Roma questa primavera con l’appoggio della Mattel, che lo aveva finanziato per diffondere il messaggio che la bambola «non sia tanto un recipiente di stereotipi ma un avatar che dà alle bambine la possibilità di sperimentare tutta una serie di opportunità di vita e di esperienze».La Fondazione ha una serie di progetti attivi, ma è sempre disponibile ad attivarne nuovi. «Prima li ideiamo e poi cerchiamo il finanziamento». Al momento sono tutti concentrati tra centro e nord Italia, ma solo perché ci sono poche risorse. «Mi piacerebbe svolgere i prossimi progetti al Sud, anche perché la portata della Fondazione è assolutamente nazionale. Purtroppo però non abbiamo una struttura fissa: sono la presidente ma faccio la dirigente in una multinazionale italiana, quindi la Fondazione è la mia passione ma posso seguirla nei ritagli di tempo. Trovare partner locali per strutturare un progetto prende molto tempo e al momento nessuna azienda del sud ci ha chiamato per realizzare qualcosa insieme. Ma siamo convinte che queste tematiche siano assolutamente trasversali, geograficamente ma anche culturalmente e in termini sociali e di religione».La Fondazione, poi, va oltre i corsi di empowerment. «Stiamo costruendo un database, raccogliendo i dati con dei questionari somministrati ai genitori, che a quell’età sono il punto di contatto delle bambine, per seguirle negli anni e vedere se rispetto alla media nazionale avranno strade diverse». Anche perché se vengono abbandonate e lasciate alla quotidianità ricca di stereotipi perderanno tutto ciò che hanno imparato. «Per questo sono importanti formule annuali come La Tribù. Di solito le bambine sono entusiaste, ma poi il corso finisce. La Tribù, invece, è ripetibile, con varie annualità, e superati i 12 anni si può anche diventare tutor delle bambine più piccole, dando continuità al percorso». Un modo per seguire queste giovanissime, pensando a tutte le difficoltà che a causa del loro genere saranno costrette ad affrontare: «Pensiamo che le iscritte al Politecnico di Milano ancora oggi sono il 10-20%: trovarsi in una classe di ingegneria meccanica dove si è l’unica ragazza è complicato, si vive una vita di minoranza. Ma se uno ha acquisito gli strumenti per affrontare al meglio queste difficoltà, allora sarà più semplice». Di strada, però, ce n’è ancora moltissima da fare. Basti pensare che nell’ultimo report del World economic forum sulla partecipazione delle donne alla vita sociale ed economica, il nostro Paese è 114esimo su 145. «Uno magari nella vita di tutti i giorni non se ne rende conto, ma questa è la realtà dei fatti».Bet she can è tra i pochi a prevedere percorsi di empowerment femminile per bambine così in tenera età. Ci sono però progetti simili realizzati per altre fasce di età. Per esempio il progetto La Nuvola Rosa, ideato da Microsoft Italia per sensibilizzare le studentesse tra i 17 e i 24 anni a colmare il divario di genere nella scienza, tecnologia e ricerca. Nel 2016, dopo le prime tre edizioni a Firenze, Roma e Milano, il progetto ha toccato il Sud, fermandosi a Bari, Napoli e Cagliari. In più di mille hanno potuto seguire dei corsi di formazione gratuiti, in ambiti molto tecnici, come il coding, per imparare basi di programmazione o sviluppare app o cloud computing.A giugno 2016 è partito il progetto biennale Women in Technology promosso dalla Fondazione Mondo Digitale con la Costa Crociere Foundation e dedicato a 150 studentesse tra Campania, Calabria e Sicilia per prevenire il fenomeno dei Neet e creare nuove opportunità di lavoro. In questo caso il progetto è applicato in tre istituti di istruzione secondaria superiore dove si svolgono una serie di attività che mirano a dare informazioni sulla redazione di un business plan e mentoring nello sviluppo del progetto. Con l’obiettivo di supportare i progetti imprenditoriali delle giovani donne nel settore delle tecnologie.Un altro programma tuttora in corso che cerca di aiutare le ragazze a raggiungere l’obiettivo della parità di genere nel mondo del lavoro – che secondo il World Economic Forum di questo passo non ci sarà prima di 100 anni – è Coding Girls. Promosso da Fondazione Mondo Digitale e dall’Ambasciata americana in Italia in collaborazione con Microsoft, cerca di raggiungere le pari opportunità nel settore scientifico e tecnologico. Destinatarie del programma sono mille studentesse di Milano, Napoli e Roma, suddivise in dodici scuole. Il progetto è partito nel 2014, durante il semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’Unione europea e nel 2015 ha coinvolto 400 studentesse di sette scuole secondarie di Roma e Napoli.Progetti apparentemente diversi tra loro per target, struttura e finanziamenti, ma accomunati dall’obiettivo di dare fiducia alle donne, fin dalla tenera età, e convincerle che tutte le strade nella loro vita saranno possibili. «Più una persona cresce, più si accorge dell’importanza di questi temi», spiega Marie Gianni motivando il perché abbia deciso di dare vita a Bet she can. Perché solo con corsi di questo tipo si potrà cercare di ridurre veramente il divario tra donne e uomini e dare alle prime la possibilità di fare nella vita tutto quello che desiderano e per cui si sentono portate, semplicemente alla pari dei maschi.Marianna Lepore

Trasferte all'estero, nessun problema: per l'Inail gli stagisti sono uguali ai lavoratori

Secondo l’Inail «gli stagisti sono lavoratori». Con una interpretazione opposta a quanto di continuo ripetuto dalle istituzioni, cioè che lo stage non è un rapporto di lavoro, l’Inail, l'Istituto italiano per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, equipara  di fatto i tirocinante ai dipendenti. La Repubblica degli Stagisti lo ha scoperto, quasi per caso, contattando l’Inail per avere chiarimenti sulla copertura assicurativa delle trasferte all’estero nell’ambito di tirocini nazionali.«Per quanto riguarda la trasferta, intesa come mutamento temporaneo del luogo di esecuzione della prestazione nell'interesse e su disposizione unilaterale del datore di lavoro e con previsione certa di rientro nella sede di lavoro di provenienza, il lavoratore inviato in qualsiasi paese estero rimane sempre assoggettato integralmente alla legislazione italiana» spiega Agatino Cariola, direttore centrale dell’Ufficio Rapporti internazionali e gestione prestazioni economiche Inail: «L’obbligo di comunicazione all’Inail, da parte del datore di lavoro, vige soltanto nel caso in cui il lavoratore venga esposto a rischi diversi da quelli per i quali è stato già assicurato presso l’Istituto». Alla richiesta della Repubblica degli Stagisti di specificare il trattamento del tirocinante, e non del lavoratore, dopo due mesi l’Istituto risponde così: «Per l’Inail lo stagista è un lavoratore, e come tale sottoposto alla disciplina di cui alla precedente risposta». Insomma, il tirocinante è equiparato al lavoratore a tutti gli effetti, quindi anche per le trasferte internazionali.Durante il periodo di tirocinio potrebbe infatti presentarsi l’opportunità di fare dei viaggi di lavoro, o anche una trasferta di un solo giorno. E, se l’azienda ospitante è una multinazionale o comunque è attiva sui mercati esteri, questi spostamenti potrebbero riguardare la visita di sedi aziendali in paesi stranieri oppure la partecipazione a eventi internazionali. Un’indubbia occasione di crescita e di confronto per chi si affaccia al mondo del lavoro nell’epoca globale. Ma questo tipo di esperienza è davvero consentita al tirocinante al pari di un lavoratore?Alla Repubblica degli Stagisti è giunta segnalazione, nei mesi scorsi, che alcuni enti promotori di tirocini in Lombardia vietano di mandare all’estero i propri stagisti. In particolare, le è presentato il caso di una società convenzionata, e quindi autorizzata alla promozione di stage, dalla Regione Lombardia. L’ente in questione aveva giustificato l’imposizione del divieto spiegando di aver contattato direttamente la Regione Lombardia per una delucidazione ufficiale, e di aver ricevuto conferma che uno stagista accolto presso un'impresa in Italia non può assolutamente svolgere nemmeno una piccolissima parte del proprio stage in terra straniera. La motivazione? Che il tirocinante, uscendo dai confini nazionali, non sarebbe più stato coperto in caso di incidenti. Eppure le trasferte all’estero sono consentite ad esempio dalle principali università milanesi. Ciò vuol dire che esse mettono a rischio i propri studenti? O... soggetto promotore che vai, regola che trovi?Sul sito ufficiale della Regione Lombardia nella sezione dedicata ai tirocini si legge: «Il soggetto promotore, o il soggetto ospitante se previsto dalla convenzione, è tenuto a garantire l’attivazione delle seguenti garanzie assicurative: assicurazione del tirocinante contro gli infortuni sul lavoro, presso l’Inail; assicurazione del tirocinante per la sua responsabilità civile verso i terzi durante lo svolgimento del tirocinio, con idonea compagnia assicuratrice. La copertura assicurativa deve comprendere anche eventuali attività svolte dal tirocinante al di fuori della sede ospitante». “Al di fuori” è un po' vago: al di fuori dalla sede, certo, ma anche della Provincia? della Regione? Dei confini nazionali?La Repubblica degli Stagisti ha chiesto conto alla Regione Lombardia della risposta data alla società convenzionata, interpellando la Direzione Generale Istruzione, Formazione e Lavoro. Il dirigente Alessandro Corno però smentisce tutto, negando che la Regione abbia mai vietato ai tirocinanti di effettuare trasferte all’estero: «In base alla normativa regionale vigente, la Regione Lombardia non dispone divieti circa la eventualità che la realizzazione del  tirocini possa svolgersi anche con attività  fuori sede, a condizione che vengano rispettate: le garanzie assicurative estese a tutte le attività rientranti nel progetto formativo; il tutoraggio; l'indennità di partecipazione; e la durata del tirocinio».Stessa risposta da parte dell’Afol Metropolitana, l'Agenzia per la formazione, l’orientamento e il lavoro di Milano. L'istruttore amministrativo Yeni Castaneda risponde così: «La trasferta breve all’estero, massimo una settimana, è consentita. Se la sede operativa viene spostata all’estero, allora il tirocinio non ha più validità. Il tirocinante deve essere accompagnato dal tutor o da un suo collega». Alla richiesta di un testo che lo formalizzi, la risposta è che si tratta di una «regola non scritta, che si è deciso di adottare per motivi assicurativi». Perchè proprio sette giorni, piuttosto che due o dieci? «Perché più il tempo di permanenza all'estero aumenta più aumentano i rischi», risponde Castaneda. La regola contrasta con quanto affermato dalla Regione, che non aveva parlato di limiti temporali. Come mai? «Le Afol Metropolitana dispongono di propri moduli per potere richiedere una eventuale trasferta all'estero da parte del tirocinante», è la risposta del dirigente Corno. Viene fuori quindi ancora una volta che in Italia basta spostarsi di ufficio... per trovare regole diverse.La Repubblica degli Stagisti ha condotto allora una piccola indagine fra gli atenei lombardi, per capire come si regolano nel caso in cui per i loro studenti si presenti l’opportunità di una trasferta all’estero. Ebbene, tutti confermano che la trasferta è consentita, se pur con condizioni che variano da un’università all’altra.«La nostra assicurazione come ateneo pubblico copre tutte le attività, comprese le trasferte all'estero», spiega alla Repubblica degli Stagisti Barbara Rosina, direttore del Cosp dell'università Statale di Milano: «La comunicazione di tali spostamenti deve essere inserita nel progetto formativo o, se essi subentrano in un secondo momento, basta inviare all'ateneo una mail precisa, che specifichi anche che il tirocinante è accompagnato da un tutor o che ne troverà uno nel luogo di destinazione». Ma difficilmente arrivano richieste di questo tipo: «I casi di trasferte all’estero nell’ambito di tirocini svolti in Italia sono molto rari, mentre capitano più di frequente stage interamente all’estero». Viene quindi da chiedersi se questa opportunità non venga davvero quasi mai sfruttata, magari per una questione economica, o se piuttosto lo step della richiesta di autorizzazione venga bypassato.Al Politecnico di Milano Cristina Perini, responsabile dell’ufficio Relazioni con i Media, conferma l’obbligo di comunicazione preventiva, che deve essere presentata dall’azienda con almeno 24 ore di anticipo all’Ateneo (Ufficio Career Service) via email, indicando il periodo di effettuazione della trasferta, le modalità di raggiungimento del luogo, le motivazioni e possibilmente anche l’accompagnatore. Qui emerge però anche una differenza di trattamento fra tirocinanti curriculari ed extracurriculari. «Lo studente o il laureato in trasferta in Europa risultano coperti dal Politecnico di Milano in termini di infortuni e responsabilità civile» puntualizza Perini: «Lo studente è coperto anche per trasferte extra-Europa, mentre il laureato in trasferta fuori dall’Europa perde la copertura per infortuni».All’università Cattolica funziona ancora diversamente. Qui i tirocinanti possono effettuare viaggi di lavoro all’estero anche da soli. Emanuela Gazzotti dell'ufficio stampa di ateneo – per conto dell’ufficio stage e placement – risponde infatti che «i tirocinanti sono obbligati a comunicare la trasferta ma non ad essere accompagnati dal tutor».E ancora, all'università di Brescia «i tirocinanti possono effettuare trasferte all'estero, ma sono tenuti a comunicare lo spostamento all'ateneo – spiega Elisa Fontana dell'ufficio stampa – e ad essere accompagnati da un tutor. La copertura assicurativa copre le trasferte sia nel paesi Ue che extra Ue, e senza differenze fra tirocinanti curriculari ed extracurriculari».Insomma: un tirocinante può effettuare una trasferta all’estero, a patto che il viaggio rientri nelle attività previste dal tirocinio, che l’azienda ospitante ne dia preventiva comunicazione al soggetto promotore, e che – a parte qualche eccezione – lo stagista sia accompagnato dal proprio tutor. Perché per l'Inail, a livello di assicurazione contro gli infortuni, la trasferta fuori Italia di uno stagista è esattamente identica alla trasferta di un lavoratore.Rossella Nocca    

"Stagisti Anonimi", al via gli incontri riservati per confrontarsi dal vivo

A volte – o per meglio dire, quasi sempre – quando si muovono i primi passi nel mondo del lavoro, ci si sente soli. I punti di riferimento sono pochi, instabili, spesso lontani. A chi confidare un problema senza mettere in pericolo la propria situazione professionale? Come risolvere un intoppo burocratico, o verificare il rispetto dei propri diritti? In che modo capire se la situazione che si sta vivendo è insolita, o se già altri ci sono passati? Noi con la Repubblica degli Stagisti ci muoviamo da molti anni su questo fronte, offrendo attraverso il sito un luogo di informazione, confronto, supporto. Il nostro Forum è uno spazio aperto e molto frequentato da tantissimi ragazzi che lo usano per condividere le proprie esperienze e cercare consigli.Ma a volte un sito non basta. Scrivere da casa propria, poter raccontare i propri dubbi attraverso una tastiera, ha certamente il vantaggio di potersi esprimere in anonimato, accedere a informazioni e supporto da luoghi remoti. Ma per quanto viviamo immersi nella società dei social network – e consideriamo ormai sempre più normale leggere i giornali online, coltivare rapporti di amicizia online, fare shopping online, corteggiarci online! – c'è comunque quel piccolo particolare che siamo animali sociali. Che la nostra vita acquista senso grazie ai rapporti umani offline che stabiliamo.Per questo come Repubblica degli Stagisti abbiamo spesso accettato e continuiamo ad accettare gli inviti di scuole e università, non solo per tenere workshop e seminari ma anche per fornire un "punto di incontro" e di ascolto in occasione di career day ed eventi speciali. Ma fino ad ora non ci eravamo mai spinti a organizzare noi stessi incontri di questo tipo. Adesso ne sentiamo l'urgenza: riteniamo che sia indispensabile creare delle occasioni di incontro faccia - a - faccia con i nostri lettori.Abbiamo dunque deciso di organizzare “Stagisti Anonimi”, una serie di incontri informali per dare la possibilità a piccoli gruppi di nostri lettori di venire a conoscerci, confrontarsi con noi, raccontarci le loro esperienze, condividere dubbi e riflessioni. Guardandoci negli occhi. Una delle particolarità degli incontri sarà la riservatezza: chi verrà a raccontare il suo problema avrà la garanzia non solo dell'anonimato ma anche della discrezione sui contenuti emersi.Il debutto di “Stagisti Anonimi” sarà a Milano mercoledì 1 febbraio, dalle 18:30 alle 20, nella sede della testata giornalistica online Linkiesta in via G. B. Morgagni n° 6; l'accesso sarà naturalmente libero e gratuito, ma solo per i primi 15 che si iscriveranno attraverso questo form. Ciascuno dei partecipanti avrà a disposizione un suo momento (all'incirca 5 minuti) per la sua riflessione, testimonianza o domanda; e oltre alle risposte di Eleonora Voltolina, fondatrice e direttrice della Repubblica degli Stagisti, ci sarà anche la possibilità di confrontarsi in maniera orizzontale, condividendo esperienze e consigli con gli altri. Vi aspettiamo.

Tasse in calo per gli studenti universitari, ma restano grandi differenze tra Nord e Sud

Quanto costa andare all’università? In tempi di crisi economica per le famiglie diventa sempre più difficile sostenere le spese necessarie per mantenere uno o più figli all’università. E allora l’indagine dell’Osservatorio Nazionale Federconsumatori sui costi degli atenei pubblici italiani torna utile per capire dove orientarsi e soprattutto quali differenze ci sono lungo lo Stivale. In linea generale, le tasse universitarie portano via da 158 a 3.890 euro, a seconda di quale ateneo si scelga e soprattutto di quale sia il reddito dello studente (o della sua famiglia) e il conseguente inserimento nelle fasce Isee che vanno dalla più bassa, fino a 6mila euro, alla più alta, oltre i 30mila.La ricerca, pubblicata un paio di mesi fa, ha cercato di dare un quadro il più possibile completo suddividendo l’Italia in tre macroaree geografiche e poi esaminando per ciascuna di queste le tre regioni con il maggior numero di studenti: Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia. In ognuna di queste regioni sono state considerate due università, scelte in base alla grandezza, e di cui sono stati analizzati gli importi previsti per cinque fasce di reddito Isee.I dati raccolti raccontano quello che sarebbe facile dedurre, ovvero che gli atenei del Nord sono più cari rispetto a quelli del Sud con una differenza particolarmente accentuata per le fasce medio basse. Uno studente di prima fascia, quindi fino a 6mila euro di reddito, in Veneto paga in media 624 euro contro i 456 del suo omologo a Palermo, con una differenza del 27% che sale ulteriormente se si prendono in considerazione le singole università di Verona e Palermo.La differenza Nord - Sud è costante: l'importo medio per gli appartenenti alla prima fascia, infatti, è negli atenei settentrionali oltre l'8% più alto di quello applicato nel Mezzogiorno. Ma, un po’ a sorpresa, le rette più basse sono richieste dalle università del centro Italia che, ad esempio nel caso della prima fascia di reddito, chiedono circa la metà delle somme previste negli atenei del nord.Come si spiega questo grande divario? È dovuto principalmente alle importanti modifiche introdotte nei sistemi di calcolo delle tasse, in particolare nelle università dell’Emilia Romagna, dove sono state inserite agevolazioni economiche per le prime tre fasce di reddito. Specie  nell’università di Parma, tra le due prese in considerazione nella regione, si è passati da sei fasce contributive dell’anno accademico precedente alle 24 di quello attuale e gli studenti con un Isee inferiore ai 23mila euro sono stati esentati totalmente dal pagamento di tasse e contributi universitari. Quindi chi rientra in questa categoria deve versare solo la tassa regionale. Ecco spiegato perché quest’ateneo che nell’anno accademico 2015-2016 aveva ottenuto il primato di più caro tra quelli presi in considerazione, quest’anno è, invece, con la sua media dai 158 ai 1600 euro, tra quelli con rette più basse.Se poi lo studente preferirà una facoltà scientifica piuttosto che una umanistica, allora dovrà mettere in conto di spendere, almeno per alcune università, un po’ di più. Per quanto riguarda la prima fascia di reddito, infatti, si vanno dai circa 80 e 70 euro in più per gli atenei del Salento e la Federico II di Napoli ai poco più di 30 de La Sapienza di Roma, con un aumento che va dai tre ai sette punti percentuali.In questo quadro c’è una buona notizia che val la pena ricordare: rispetto agli importi delle tasse del 2015, nell’anno accademico iniziato ci sono state delle diminuzioni tra il 4 e il 14% per le prime quattro fasce di reddito, con il picco della più alta riduzione per gli appartenenti alla terza fascia, cioè quella con un Isee tra i 10 e i 20mila euro. Diminuzioni che però, comunque, difficilmente arrivano davvero a fare la differenza, e aiutare le famiglie che in tempi di crisi devono affrontare lo sforzo economico di pagare gli studi dei figli.Anche il report ci tiene a sottolineare che nonostante tutto le rette restano alte e, soprattutto, che il metodo di calcolo degli importi in base al reddito non risolve i problemi connessi all’evasione fiscale. Motivo per cui il figlio di un evasore riuscirà ad usufruire di agevolazioni e rette più basse, pur non avendone bisogno, a differenza del figlio di un operaio che potrebbe trovarsi a pagare di più. E come se non bastasse riuscirebbe difficilmente a conciliare un eventuale lavoro con la frequenza universitaria. L’ultimo rapporto Istat sugli studenti universitari pubblicato mostra, infatti, come negli ultimi dieci anni (dal 2005 al 2015) sia dimezzato il numero degli studenti lavoratori che, l’anno scorso, erano appena il 2% del totale.Un quadro, quindi, solo parzialmente positivo. Perché poi alle cifre delle tasse universitarie vanno aggiunti i libri di testo e, nel caso dei fuorisede, anche tutte le altre spese necessarie per vivere lontano da casa. Costi che Federconsumatori aveva analizzato durante lo scorso anno accademico, in un rapporto in cui definiva “esorbitanti” le spese sostenute dalle famiglie dei circa 600mila studenti fuorisede. Obbligati a pagare tra gli 8mila e gli oltre 9.600 euro annui per coprire tutte le spese di vita lontano da casa.Tempi, quindi, un po’ duri per le famiglie che devono mantenere i figli all’università. Se, da una parte, possono festeggiare una parziale riduzione delle tasse, dall’altra devono affrontare i costi comunque alti per gli studenti fuorisede oltre, poi, a confrontarsi con un mondo del lavoro che non sempre è pronto ad accogliere e quindi a mettere effettivamente a frutto gli anni di studio universitario.A questo punto, però, non può mancare un confronto con l’estero, anche questa volta abbastanza deludente per il nostro Paese. I dati arrivano dal National student fee and support systems in European higher education 2016/2017  di Eurydice, la rete che raccoglie, aggiorna e diffonde informazioni sulle politiche e l’organizzazione dei sistemi educativi europei. Il rapporto offre una panoramica comparativa delle tasse e dei sistemi di sostegno per gli studenti nei 33 paesi che fanno parte della rete Eurydice. Ed evidenzia come l’Italia sia tra i paesi in cui meno di un terzo degli studenti ottiene borse di studio, elemento che sommato alle alte tasse universitarie rende i giovani totalmente dipendenti dall’aiuto economico familiare. Meglio di noi fa la Spagna, con quasi il 29% di studenti beneficiari di borse di studio, e decisamente meglio Germania, Danimarca e Svezia dove non sono previste tasse e le borse di studio arrivano a coprire, come nel caso svedese, quasi nove studenti su dieci.Marianna Lepore

Garanzia Giovani, troppi tirocini e pochi sbocchi professionali: più della metà si ritrova al punto di partenza

I Neet sono oggi in Italia 2 milioni e 279mila. Quando partì Garanzia Giovani «erano 2 milioni e 250mila, quindi 20mila in più». A fornire il dato è Andrea Brunetti, responsabile Politiche giovanili del principale sindacato italiano, la Cgil [nella foto sotto], a un incontro convocato appena prima di Natale per riflettere sui tirocini in Italia e in Europa e il futuro di Garanzia giovani. Presenti tanti esperti del mondo del lavoro: da Corrado Brachetti, coordinatore del mercato del lavoro della Cgil, a Cesare Damiano, già ministro del lavoro e oggi presidente della commissione Lavoro alla Camera; e poi Eleonora Voltolina, direttrice della Repubblica degli Stagisti, Anna Teselli, ricercatrice della Fondazione Di Vittorio, Diego Ciulli, policy manager di Google, e Claudio Treves del Nidil Cgil, solo per citarne alcuni. Obiettivo: interrogarsi su cosa di questo programma abbia, o non abbia, funzionato. Perché è evidente che se dopo un tirocinio svolto nell'ambito di Garanzia Giovani più della metà dei partecipanti si ritrova allo stesso punto di partenza (come rilevato da un questionario promosso dalla Cgil su un campione casuale di quasi mille persone, presentato all'evento) forse l'obiettivo non è stato proprio centrato.«Il quadro sarà più chiaro a marzo» riflette Gianna Gilardi, sindacalista, alludendo a una nuova indagine conoscitiva ufficiale sul programma che partirà a gennaio. Ma le fila si possono tirare sin da ora. «I mesi di tirocinio dei partecipanti non ne hanno cambiato la posizione, e ce li ritroveremo in carico nel nuovo programma». A tutte le perplessità sulla gestione del programma europeo dedicato ai Neet se ne aggiunge un'altra: e cioè che lo stage sia lo strumento su cui puntare tutto, come finora è stato. Il 'peso' dei tirocini nell'ambito del programma lo dà la percentuale di utilizzo, che è del 73% in media, secondo i dati Isfol di cui ha parlato la ricercatrice Giovanna Infante, con picchi «dell'88% nel Lazio».I risultati dell'indagine presentati da Brunetti la dicono lunga: per il 35% è stata l'unica proposta arrivata dall'ente incaricato della presa in carico, oppure la «scelta migliore» per il 31% degli intervistati, nei casi in cui con tutta probabilità l'alternativa non era un posto di lavoro ma un corso di formazione. La stragrande maggioranza finisce insomma in un percorso di tirocinio dopo l'iscrizione. E dopo cosa succede? Gli assunti con contratto a tempo determinato o indeterminato sono circa uno su dieci (secondo i dati Isfol invece chi trova un'occupazione dopo quattro mesi è un più soddisfacente 37%). Quasi il 60% resta disoccupato, oppure – in piccolissima parte – ha iniziato un nuovo stage. Chi insomma ha beneficiato in modo concreto di Garanzia Giovani, o trovando un impiego direttamente nell'azienda che lo ha ospitato o contando sulle competenze acquisite tramite quell'esperienza, supera di poco il dieci per cento.Ma almeno si sarà trattato di buona formazione? Niente affatto: per oltre la metà lo stage è stato vero e proprio lavoro mascherato, e solo per un ristretto 30% ha rappresentato una buona occasione di crescita professionale. Dunque bisogna lavorare anche sulla qualità dei tirocini, come ha ricordato Voltolina [nella foto a sinistra]. «Sul nostro forum non sono pochi gli interventi di chi racconta che sta facendo il tirocinio come cassiere in un supermercato». Se «utilizziamo fondi pubblici per regalare a un supermercato un addetto in più stiamo facendo una cosa contraria rispetto all'obiettivo di Garanzia Giovani». Quando è stato fatto presente, sottolinea, «Grazia Strano, direttore generale dei sistemi informativi del ministero del Lavoro, ha ammesso che non si fanno controlli a monte sulla qualità dei tirocini in Garanzia Giovani».  L'altro grande problema resta, come osserva Damiano [nella foto sotto], «la mancanza di continuità: non basta il contatto tramite lo stage». Naturale che quei giovani resteranno «delusi e distanti dalle istituzioni», se conclusa l'esperienza «quella porta viene subito richiusa». O meglio, «si apre un po' e poi la si richiude subito» come aggiunge Anna Teselli, che sul tema dell'efficacia dello stage ha da poco pubblicato il volume Formazione professionale e politiche attive del lavoro (Carocci editore). Non è detto che il tirocinio non possa valere come misura temporanea, ma per evitare che presti il fianco a distorsioni «deve essere utilizzato in tempi strettissimi». Questa tipologia di inquadramento deve valere come «l'anello di una catena». Sono tre i contratti attorno a cui si gioca la partita dopo lo stage: «altro tirocinio, una collaborazione, oppure l'apprendistato». Se nei 36 mesi non arriva il consolidamento però, «si è espulsi dalla carriera».In sostanza il tirocinio va ripensato come misura di politica attiva – specie in Garanzia giovani – perché nel 40% dei casi «chi partecipa non accede poi al mercato del lavoro dipendente». Treves propone anche un ripensamento dei criteri di profilazione, «rivedendoli attraverso una operazione di trasparenza che tenga conto delle prospettive economiche del territorio di riferimento». Senza sottovalutare l'aspetto da sempre troppo trascurato, che è il matching delle aziende con i candidati giusti.Lo ha ricordato Ciulli, responsabile di un progetto speciale all'interno di Garanzia Giovani, Crescere in digitale, che a differenza di quello generale non passa per le regioni. Crescere in digitale, gestito da Google in collaborazione con Unioncamere, organizza formazione e tirocini in ambito digital allocando ragazzi in aziende che hanno bisogno di aggiornarsi sulle nuove tecnologie. «Facciamo due call, una ai ragazzi interessati e una alle imprese, di cui molte sono nostri clienti». Ma queste «faticano a trovare ragazzi con le competenze giuste». Se non si interverrà eliminando le storture del mercato di oggi «pagheranno i nostri figli, cui si rischia di consegnare un futuro che tale non ha diritto di definirsi» paventa Brachetti. Assicura che il sindacato non si arroccherà in difesa: «è pronto a fare la sua parte». Ilaria Mariotti 

Miglior stagista dell'anno, quest'anno Bip premia i due assunti più giovani

Presto e bene. Iscriversi all'università giusta, macinare esami con buona lena, buttarsi in un'esperienza “on the job” ancor prima di essersi laureati. Fare uno stage mentre si scrive la tesi: doppio impegno, doppia energia. E a volte anche doppia ricompensa. Come è accaduto a Alia Falcone e Alberto Bruschi, che insieme non fanno mezzo secolo, e che hanno firmato un contratto a tempo indeterminato prima ancora di finire l'università. Ad assumerli è stata Bip, società di consulenza tra le aziende virtuose del network della Repubblica degli Stagisti, con tanto di Bollino OK Stage e di AwaRdS 2016 per il miglior tasso di trasformazione di stage in contratti (oltre il 90%!). L'altra sera, all'Alcatraz di Milano, alla convention annuale di Bip sono stati premiati come “migliori stagisti dell'anno”, scelti proprio con il criterio dei due più giovani assunti del 2016.«La consulenza è un mondo che mi ha subito affascinato» racconta il 24enne Alberto alla Repubblica degli Stagisti: «Fin dai primi anni di università lo sentivo come uno strumento per riconoscere e applicare i modelli teorici che stavo studiando a realtà sempre diverse, adattando e perfezionando via via le mie conoscenze». Originario di San Donato Milanese, attualmente iscritto alla facoltà di Ingegneria gestionale presso il  Politecnico di Milano – se tutto va secondo i piani, si laureerà nella primavera del 2017 – Alberto è entrato in Bip a marzo di quest'anno e, in pochi mesi, da stagista si è ritrovato assunto a tempo indeterminato. Un'esperienza che si sta rivelando strategica anche per la stesura della sua tesi di laurea: «Lo stage in Bip mi ha offerto un'opportunità molto interessante: lavorare su un progetto Six Sigma, uno dei temi che più mi avevano interessato in università. La tesi è venuta di conseguenza!»«Il mio percorso di ingresso nel mondo del lavoro è stato più "veloce" rispetto a quello dei miei compagni di corso» riflette Alia: «Molti miei amici stanno ancora aspettando risposte dalle aziende a cui hanno mandato cv o con cui hanno fatto colloqui, mentre altri sono ancora in stage». In tempi di disoccupazione giovanile al 40%, non capita spesso di firmare un contratto così a 23 anni, e la prima ad esserne stupita è proprio la diretta interessata: «Sicuramente non me lo sarei mai aspettato» confessa «ma è una sensazione “liberatoria”. So di poter crescere, senza dovermi preoccupare di altro».Originaria di Taranto, laureata in Management alla Bocconi giusto giusto tre giorni prima della convention in cui ha ricevuto il premio [nella foto qui a fianco, il momento della consegna della targa con Eleonora Voltolina, direttrice della Repubblica degli Stagisti, e Costanza Ramorino, vicepresidente di ValoreD], Alia considera il suo incontro con Bip una fortunata «opportunità. Mi ha inserita nel mondo del lavoro e mi fa crescere ogni giorno, mettendo a frutto quanto appreso in università». Oggi lavora in un team che si occupa di governante e PMO lato technology. La sua giornata tipo inizia alle 9: «generalmente ci si prende un caffè tutti insieme e poi si parte. Mi piace fare una lista delle attività delle attività da completare, così da non perdermi nulla e organizzare il mio tempo. Tipicamente si lavora a stretto contatto non solo all’interno del team, ma anche con i clienti. Gli imprevisti non mancano mai, ma è anche il bello della nostra attività».«Per me Bip rappresenta un modello di azienda per la quale sono orgoglioso di lavorare e alla quale voglio contribuire» aggiunge Alberto: «dal punto di vista professionale ha espresso fiducia anche nei confronti del più giovane arrivato, offrendomi attività stimolanti e la giusta autonomia. Dal punto di vista umano, pur crescendo molto e arrivando di fatto a affiancare come dimensioni in Italia le multinazionali anglosassoni della consulenza, Bip è riuscita a rimanere un ambiente più informale, con un'organizzazione di fatto orizzontale, molta collaborazione e attenzione alla crescita dei più giovani».Sia Alia sia Alberto non erano al primo stage. «Io ne avevo già svolto uno durante la triennale» ricorda Alia: «Nell’ambito di un progetto con l’università, che si intitolava “Dai un senso al tuo profitto”, avevo passato tre mesi in una cooperativa sociale, Dimensione Lavoro, che in provincia di Milano occupa persone con disabilità fisiche o mentali o con vissuti di emarginazione alle spalle». Un'esperienza lontana dal suo lavoro attuale, ma certamente molto formativa dal punto di vista umano.Più vicina alla consulenza, invece, la precedente esperienza di Alberto: «A 18 anni avevo passato un'estate presso una allora piccola società di consulenza in ambito farmaceutico a Boston» aggiunge Alberto: «Studiavo ancora al liceo, quindi il mio contributo all'azienda si limitava a curare i database e altro back office. Il vero contributo l'ho dato alla mia crescita: è stato il mio primo contatto "in solitaria" con una realtà estera e di convivenza quotidiana con ragazzi di altra nazionalità, da cui ho tratto molto».Su una cosa Alia e Alberto concordano: nel mondo del lavoro è meglio entrare con determinazione, senza paranoie. «Il consiglio che darei ai miei coetanei? Di non farsi scoraggiare dai primi no e di cercare un lavoro che consenta di continuare ad imparare» dice Alia. «Per prima cosa di non farsi prendere da ansia e paura durante la ricerca: a volte tutto quello che serve è tenere gli occhi aperti alle occasioni che ci si aprono davanti» aggiunge Alberto: «E poi seguire le proprie passioni, che a volte sono la chiave per conquistarsi una competenza particolare: io devo molto al fatto di aver coltivato il mio interesse per la statistica, che ora è parte importante della mia tesi e di alcune attività sul lavoro». Parola di stagisti dell'anno Bip!

Idee, proposte, analisi degli italiani “fuori dai piedi”: metti una sera al Meetalents a Bruxelles

«Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dov'è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi», la frase pronunciata qualche giorno fa dal ministro del lavoro Giuliano Poletti si cala nel dibattito molto acceso negli ultimi anni su quanti, per un motivo o per un altro, scelgono o subiscono un lavoro all'estero. Tematiche che di recente sono state al centro del MeeTalents 2016, l’appuntamento annuale organizzato da Italents, associazione che dal 2011 svolge attività per la promozione dei talenti entro e fuori i confini nazionali (a proposito: Italents ha pubblicato la lettera aperta di risposta di una expat al ministro Poletti, e ha lanciato una call dando la disponibilità a pubblicare altre risposta di expat!). L'evento si è aperto con un video “sempreverde” in cui Renzo Piano, architetto e senatore a vita, dice una cosa molto diversa dal ministro Poletti: «Secondo me i giovani devono partire, devono andare via per curiosità, non per disperazione. E poi devono tornare. Devono andare per capire com’è il resto del mondo, ma anche una cosa più importante: capire se stessi». Quest'anno il MeeTalents è stato organizzato per la prima volta fuori dall’Italia, a Bruxelles, un luogo che Eleonora Voltolina presidente di Italents dal 2016 definisce «città più rappresentativa per gli expat italiani», visto che proprio qui vivono molti nostri connazionali e qui passano, per un periodo più o meno lungo, tantissimi giovani impiegati negli stage presso le tante istituzioni europee.La serata si è aperta sul tema dell’importanza di continuare a incidere sulle politiche italiane pur vivendo all’estero, con un panel moderato dal giornalista Roberto Bonzio che, prima di introdurre Francesco Cerasani, segretario PD Bruxelles, ha voluto raccontare la sua storia di rinascita. «Dopo 30 anni in redazione ho deciso di fare un investimento per la famiglia e i ragazzi e sono andato sei mesi in Silicon Valley». Un’esperienza che cambia la sua vita e gli fa scoprire due tratti caratteristici del talento italiano, che portano a sperperarlo: «La capacità di affrontare la complessità del mondo ma anche l’incapacità di fare squadra e l’invidia che ci fa giorire della sconfitta altrui». Da tutto questo Bonzio ha costruito un progetto multimediale, Italiani di Frontiera, in cui ancora oggi continua a raccontare la storia di italiani capaci di fare nuove imprese.Tra i primi relatori a parlare, Cerasani sottolinea l’importanza di «investire a livello politico su questa comunità di nuovi migranti». E soprattutto sulla «necessità di fare rete, di incidere e fare politica dentro le amministrazioni politiche di riferimento e di comprendere realmente cos’è la cittadinanza europea». Senza dimenticare quella di provenienza, però, e ricordandosi di esercitare il proprio diritto al voto: dal 2001 infatti i residenti all'estero possono eleggere i propri rappresentanti in una apposita circoscrizione. Ma è altrettanto importante fare vita politica attiva, come dice Gianluca Cerri, del MeetUp Movimento 5 stelle Bruxelles, che emigrato in «età avanzata» è riuscito a dare una svolta alla sua vita. «Dall’estero ho avuto la possibilità di ricostruirla. E di continuare l’attività politica iniziata in Toscana».Fare politica ma anche, e soprattutto, fare rete. Un concetto sottolineato da Maria Chiara Prodi, presidente della VII Commissione “Nuove migrazioni e generazioni nuove” del Consiglio generale italiani all’estero, l’organo consulente del governo e parlamento sui temi di interesse per chi non vive più nel nostro Paese. «La nostra emigrazione, oggi, è individuale ma è importante riunirsi» ha detto Prodi, ricordando come il crescente individualismo degli emigranti abbia portato sempre più italiani residenti all’estero a non iscriversi all’Aire. «E invece è importante abbandonare l’ottica pietista del cervello in fuga e pensare che se non ci si iscrive si sprecano risorse: solo per fare un esempio, circa 2mila euro l’anno alla voce sistema sanitario».Fare rete, dunque, tra quanti vivono all’estero anche per rendere più semplice la fase di integrazione nel nuovo contesto sociale. È il lavoro che fa anche la Comune del Belgio, un’associazione che in un’ottica di mutuo soccorso mette insieme tutta una serie di conoscenze che possono aiutare chi arriva dall’Italia. Anche perché, ci tiene a sottolineare Pietro Lunetta – da sei anni a Bruxelles «nonostante fossi tra quelli che non volevano partire dall’Italia» – se «negli anni ’70 la rappresentazione all’estero era più forte, ora lo è di meno e questo comporta una debolezza estrema nella fase di integrazione». Soprattutto se si considera che moltissimi tra gli espatriati hanno un profilo professionale non qualificato e quindi ancora più difficoltà a integrarsi nel nuovo contesto. Tra gli altri intervenuti al primo panel anche Alessandro Facchin, responsabile del comitato giovani nuove emigrazioni dell’associazione Trevisani nel Mondo, che oggi conta 10mila iscritti e cerca di mantenere un rapporto tra quanti già sono emigrati all’estero e quanti invece oggi vogliono emigrare. Anche se non è facile perché «abbiamo a che fare con chi è emigrato di recente come con quelli ormai di quarta o quinta generazione». A chiudere il primo panel, la ricercatrice Ilaria Maselli illustra il progetto “I vote where I live campaign” che cerca di convincere gli italiani da tempo residenti all’estero a partecipare attivamente alla vita politica anche attraverso il voto alle elezioni comunali nel Paese che li ha accolti.Il secondo panel è stato invece dedicato alla circolazione dei talenti e a coloro che decidono di tornare in Italia. Qui ci si è soffermati sulla percentuale, altissima, di giovani convinti che per realizzarsi sia necessario andare all’estero. Situazione che ha favorito lo sviluppo di progetti come Eures o Erasmus, e la nuova idea di servizio civile europeo avanzato, come ha raccontato Federico Pancaldi, Policy officer alla DG occupazione Commissione europea. La storia di emigrazione di Pancaldi è cominciata già a 16 anni con un viaggio con Intercultura; oggi lui è più che mai convinto che «l’Europa non può parlare di brain drain, perché in realtà quello che noi facciamo è facilitare le opportunità degli individui di andare a cercarsi un futuro in un altro Paese».Futuro cercato non solo dai giovani ma anche dagli imprenditori. Matteo Lazzarini, segretario generale della Camera di Commercio belgo italiana, racconta infatti la storia degli imprenditori espatriati e delle difficoltà che incontrano nel continuare ad avere rapporti con l’Italia vista, ad esempio, l’impossibilità di partecipare a molti bandi pubblici a causa di requisiti prettamente italiani. Ma alla Camera di commercio non vanno solo imprenditori, anche giovani appena emigrati che non sanno bene come cercare un lavoro. A loro è stato dedicato un nuovo sportello unico che prenderà il via nel 2017.Emigrazione che spesso parte dal sud Italia: un dato che Bruno Cortese, funzionario della Regione Siciliana Bruxelles ricorda correlato alla percentuale di rischio povertà che se nella media italiana è del 18% al Sud sale fino al 39. Numeri «umilianti ed allarmanti».E se emigrare non sempre significa rimanere all’estero, c’è però una soglia critica  – citata da Paolo Balduzzi, professore di scienza delle finanze alla Cattolica di Milano e segretario di Italents – oltre la quale è molto difficile si torni indietro. Sono i tre anni: se si sta fuori dall'Italia olltre quella soglia, è probabile che si resti stabilmente lontano da casa. Ma come facilitare il  rientro? In Italia nel 2010 è stata approvata la legge Controesodo, che ha introdotto incentivi fiscali molto vantaggiosi per rientrare, aperti agli italiani laureati che avessero un'esperienza di almeno due anni all'estero.. Tra chi ha scelto di usufruire della legge anche Cecilia Gozzoli, membro del gruppo informale Controesodo che racconta come la sua scelta di tornare fosse stata presa con un obiettivo “controcorrente”: far nascere i suoi figli in Italia. Gozzoli sottolinea che «l’incentivo aiuta, ma non è il driver principale: i motivi personali determinano la scelta di ciascuno». Oggi, dall’interno del gruppo Controesodo, Cecilia si batte perché questa misura da temporanea diventi un po’ più programmatica in modo da consentire a tanti come lei di decidere con calma se e quando tornare.Nell’ultimo dibattito, moderato da Eleonora Voltolina, è stato affrontato un altro tassello, forse il più importante: quello inerente al mercato del lavoro. Partendo innanzitutto dai dati dell’ultimo Rapporto Giovani illustrati da Alessandro Rosina, responsabile del rapporto e professore di demografia all’università Cattolica nonché ex presidente di Italents. L’indagine, partita nel 2012 in Italia, è stata estesa dall’anno scorso in tutta Europa con l’obiettivo di capire quale idea abbiano i giovani proprio dell’Ue. E così si scopre che, un po’ a sorpresa visti i tempi, «hanno la consapevolezza che è meglio essere uniti piuttosto che tanti Paesi in ordine sparso». Questo nonostante la libera circolazione e la moneta unica non siano stati vissuti come veri vantaggi. Cosa vorrebbero quindi i giovani? «Una politica sociale comune, intesa come lavoro e welfare».Ma oggi l’Europa fa fatica proprio sulla politica sociale, evidenzia Brando Benifei, europarlamentare PD e grande sostenitore del Meetalents 2016, che sottolinea come nell’attuale Europa a 28, molto eterogea, sia più difficile rispetto al passato trovare un unico sistema comune. «Proprio per questo serve un’Europa più avanzata, anche sul tema delle pensioni, visto che oggi si rischia che chi lavora in vari paesi europei perda i contributi accumulati in diversi luoghi. Senza dimenticare che anche il riconoscimento dei titoli non è automatico».Proprio sul tema dei diritti sociali è Germana Viglietta, membro della Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione europea, a dire che «nessuno deve esserne escluso, perché sono collegati con la mobilità e rientrano tra i principi cardine della costituzione europea». E spiega che se «i giovani europei chiedono per il 77,2% un Europa più sociale, è perché effettivamente è la prima percezione quando si gira l’Europa per sentirsi parte integrante del sistema».L’orizzonte, però, non sembra positivo ed è Eleonora Medda, Inca Cgil Belgique e membro del Consiglio Generale degli Italiani all'estero, a confermarlo: «Frans Timmermans, presidente del partito socialista europeo, ha dichiarato nel 2015 che l’accesso al mercato del lavoro non significa un accesso automatico alla previdenza sociale»  e questo secondo Medda «significa tornare indietro di 60 anni». Un ritorno al passato che nei fatti si sta già concretizzando, con «paesi democratici come il Belgio in cui ci sono italiani o altri cittadini europei che ricevono l’ordine di lasciare il Paese perché hanno fatto la richiesta del sussidio sociale». Se i giovani dimostrano di voler credere nel progetto europeo, in realtà «i diritti civili vanno nell’altro senso».Per tutti questi motivi, l’armonizzazione dei contributi per quanti hanno lavorato in più Paesi sarebbe necessaria, ribadisce Andrea Brunetti, responsabile politiche giovanili Cgil. Lanciando un allarme: il rischio che l’assenza di queste misure porti ad avere invece di un “brain drain”, uno “youth drain”, un calo demografico tale che andrebbe affrontato subito.In chiusura un altro intervento di Ilaria Maselli, che ha voluto ricordare i due motivi principali per cui, oggi, il tema di un sussidio europeo di disoccupazione sia molto importante. Perché «permetterebbe di creare un piccolo budget per stabilizzare le economie quando una va su e una giù. Significa che se oggi c’è una disoccupazione al 4,5% in Germania e al 20 in Spagna, un sussidio comune permetterebbe di intervenire per pagare con i contributi di un paese i sussidi di un altro. E poi perché è un semplicissimo diritto dei lavoratori. Abbiamo un mercato unico per tantissime cose, perché non per il lavoro? Oggi c’è una mobilità incompleta e aggiungere un sussidio di disoccupazione europeo andrebbe a completarla». Nonostante di questa idea si parlasse già in un rapporto del lontano 1978, oggi nel 2016 sembra di nuovo tutto fermo. Perché dopo il referendum sulla Brexit del 23 giugno «tutti i sogni si sono infranti» e sembra molto difficile riuscire a trovare un accordo sul tema nonostante ci siano molti motivi per farlo.Un vero peccato se si pensa alla partecipazione a questo MeeTalents fuorisede, che in una fredda sera a Bruxelles è riuscito a radunare un centinaio di persone in una sala per diverse ore. Tutti pronti a ragionare e interrogarsi. E a portare a tante riflessioni e spunti per il futuro, su un tema che, da vicino o da lontano, coinvolge ormai moltissimi italiani. Lavorare e vivere lontani dal proprio Paese, qualche volta per libera scelta, altre volte meno. Senza dimenticare, però, di provare a incidere sull’Italia, anche da lontano.Marianna Lepore

Borse di studio differenziate, forse un lieto fine per i dottorandi della Statale di Milano

Giovanni è iscritto al dottorato dell’università Statale di Milano ed è contento perché da qualche mese ha ricevuto un aumento del 20% della sua borsa di ricerca, passando da 1000 a 1200 euro mensili. Una boccata d’aria fresca in una città per cui in media si spendono 500 euro solo per l’affitto. La sua amica Alice, invece, è un po’ meno contenta: anche lei fa il dottorato alla Statale, ma la sua borsa è ancora di 1000 euro. Nonostante viva anche lei a Milano e debba far fronte alle stesse spese, l’aumento non l’ha ricevuto. Per non parlare di Ismail, escluso anche lui: è venuto in Italia dal Libano e ha un bel po’ di spese extra, a partire dal permesso di soggiorno. Perché l’aumento è arrivato ad uno e non agli altri? Il motivo è che Alice e Ismail, a differenza di Giovanni, sono iscritti a dottorati consorziati, cioè organizzati dalla Statale in partnership con altri atenei. Nessuno di questi vuole adeguarsi alla nuova misura: e allora sono rimasti esclusi dall’incremento. I nomi sono di fantasia, ma riflettono una situazione reale. Il caso è quello del programma Nasp, Network for the Advancement of Political Studies, che conta circa 130 studenti, la metà dei quali stranieri. Divisi tra gli indirizzi di Sociologia economica e studi del lavoro (Esls), Studi politici (Pols) e Sociologia e metodologia della ricerca sociale (Somet), questi dottorandi ricevono finanziamenti dagli atenei di Genova, Brescia, Torino, Pavia e altri del nord ovest, oltre alla Statale. Dato che però questi non hanno risposto all’invito ad aumentare le borse ai propri dottorandi, quest'ultima ha deciso di lasciare invariata la somma per tutti quanti, escludendo quindi i suoi borsisti inter-universitari a priori. L’intento, è stato spiegato, è di evitare discriminazioni interne allo stesso corso. Ma la disparità che si crea così tra dottorandi dello stesso ateneo per i dottorandi è difficile da digerire. Per diversi mesi i dottorandi hanno cercato un incontro con gli organi istituzionali universitari per far valere le loro istanze, senza successo. Chiedono che vengano aumentate almeno le borse dei dottorandi della Statale. A fine novembre una delegazione ha organizzato un sit-in in via Festa del Perdono, in occasione della riunione mensile del cda, per cercare di farsi ascoltare dal rettore Gianluca Vago con tanto di striscione: “Milano è cara per tutti”. Finalmente l’apertura è arrivata e il confronto ha portato due opzioni sul tavolo: l'effettiva erogazione di borse differenziate all'interno dello stesso corso, oppure la distribuzione di benefit alternativi (alloggio, trasporti) per sopperire al mancato aumento. «Siamo contenti che la nostra voce sia arrivata fino ai vertici dell'università e che il rettore si sia dimostrato pronto ad accogliere la nostra richiesta. Questo ci fa ben sperare, anche se non c'è certezza» ha dichiarato alla Repubblica degli Stagisti Marta Migliorati, una dei dottorandi del corso di Studi Politici finanziati della Statale: «Ovviamente poi la battaglia dovrà andare avanti in modo che tutti i dottorandi di Nasp abbiano l'aumento, non solo gli appartenenti ad Unimi, anche se questo non dipende dall'università di Milano, ma dalle altre» Nella giornata di domani, 22 dicembre, è previsto un altro incontro per valutare la soluzione migliore dopo il vaglio del Miur. Visti i recenti scombussolamenti governativi, però, il rischio è che la risoluzione venga rinviata ulteriormente. Rimane il dubbio del perché ci sia voluto tanto per arrivare fino a questo punto, così come riguardo la possibilità del graduale aumento anche da parte degli altri atenei in futuro.E viene spontaneo chiedersi come mai sia così difficile per le università mettersi d’accordo, soprattutto su una questione importante per gli studenti. Continuare a non trovare una soluzione equivarrebbe non solo a ostacolare uno sviluppo positivo delle condizioni dei giovani ricercatori, ma anche a classificare, di fatto, quelli di Nasp come dottorandi di seconda categoria. Con in più l’aggravante del carattere internazionale del consorzio: in uno dei corsi più rappresentativi dell’attrattività dell’ateneo per gli studenti stranieri, di cui spesso ci si è vantati, creare discriminazione è quantomeno controproducente ai fini del prestigio, della reputazione e della attrattività.Irene Dominioni

Chi l'ha detto che la matematica non è da femmine?

«Quello bravo in matematica era mio fratello». Sembra incredibile che a pronunciare questa frase sia stata l'iraniana Maryam Mirzakhani, prima donna nella storia a vincere nel 2014 la Medaglia Fields, considerata il “Nobel della matematica”. E rende bene l’idea di quanto si faccia fatica a riconoscere che una femmina sia “portata” per i numeri.Ma sono i numeri stessi ad aiutare a smentire qualche pregiudizio. I corsi di laurea in Matematica sono infatti tra i pochi in ambito Stem in cui le donne non sono in minoranza. Secondo i dati dell’Anagrafe nazionale studenti (Ans) sulle immatricolazioni ai corsi appartenenti alla classe di lauree in “Scienze matematiche”, nell’ultimo decennio le femmine sono sempre state più numerose dei maschi. Tuttavia il vantaggio si sta assottigliando: se nell’anno accademico 2005/06 la differenza era nel 10%, nel 2015-16 si è ridotta al 4%.«Le immatricolazioni delle donne a mio avviso hanno avuto un calo perché in tempi non troppo lontani erano legate agli sbocchi nell'insegnamento, considerata professione più interessante per una donna» commenta Vincenzo Nesi, preside della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza. «mentre oggi le prospettive lavorative sono molto diversificate ed includono professioni molto ricercate anche dagli uomini». Tra i grandi atenei, il suo è quello dove il crollo di iscrizioni femminili è risultato più evidente: negli ultimi dieci anni accademici la quota di ragazze è passata dal 59% al 46% (-13%), con il sorpasso dei ragazzi.Ma la facoltà di Scienze dell'ateneo romano è anche tra quelle più sensibili al tema del gender gap, cui riserva un'apposita sezione sul sito, "Questione di genere", e una figura Garante. Proprio in questi giorni il Dipartimento di Matematica sta ospitando la mostra itinerante Women in Mathematics throughout Europe: a gallery of portraits (visitabile fino al 21 dicembre), a cura dell'European Mathematical Society (EMS), sull'importante contributo delle donne al settore.Nelle materie Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) il divario di genere si manifesta soprattutto quando si tratta di accedere al mondo del lavoro. «Il problema non si pone tanto nell’iscrizione quanto nel proseguire la carriera accademica e professionale»  dice alla Repubblica degli Stagisti Alessandra Celletti, matematica e astronoma, direttrice del dipartimento di Matematica dell'università di Roma Tor Vergata. Nel suo Ateneo - in controtendenza - le donne immatricolate in dieci anni sono passate dal 34% al 51%.Tuttavia «meno donne accedono al dottorato, meno donne diventano ricercatrici e ancor meno ricercatrici ordinarie», spiega Celletti, che è specializzata nella meccanica celeste – le è stato dedicato anche un asteroide scoperto nel 2005, denominato 117539 Celletti – ed è impegnata concretamente per abbattere questo gap. È notizia recente la sua nomina da parte dell'Executive Committee dell'European Mathematical Society quale chair della commissione Women in Mathematics (WiM) per il periodo 2017-2020. Alla domanda su quale sarà il suo primo impegno, risponde: «La prima proposta sarà quella di creare un database europeo di donne matematiche, per dar loro visibilità e distruggere l’alibi che non si conoscono persone adeguate a certi incarichi».L’idea trae ispirazione dall’esperienza di 100esperte.it, il neonato archivio online di donne italiane esperte nell’area Stem, nato per combattere il gender gap nei mezzi di informazione. Tra i 100 nomi c’è anche il suo: «Il divario non riguarda solo le interviste, ma anche l’invito alle conferenze, la partecipazione ai comitati editoriali di importanti riviste», precisa lei. Tutti momenti importanti per la crescita della carriera scientifica, e che troppo spesso sono preclusi alle donne. Donne che frequentemente sono discriminate anche in sede di concorso, dove tuttavia oggi sta maturando una maggiore sensibilità al tema della parità di genere. «In alcuni concorsi» spiega la matematica e astronoma «viene richiesta una presenza femminile nelle commissioni, ed è importante, perché ad esempio una donna considera i periodi di interruzione per la ricerca dovuti all’arrivo di un figlio».Nonostante la strada da fare sia ancora lunga, ciò non deve scoraggiare le ragazze ad intraprendere gli studi matematici. In questo settore, infatti, gli sbocchi occupazionali sono tra i pochi dove ancora la domanda supera l’offerta. «Studiare matematica» conclude Celletti «offre tante possibilità: statistica, big data, finanza, modellistica spaziale. Poche attività concrete si risolvono senza matematica, dal mettere in orbita un satellite alla forma per fare la pasta passando per il management».Ma in Italia il gap che riguarda i numeri non è solo di genere. Secondo l’ultimo rapporto Ocse-Pisa dal titolo “Low performing students”, un quindicenne italiano su quattro è analfabeta in matematica. A bocciare gli alunni italiani sono stati qualche giorno fa anche il Timss (Trends in International Mathematics and Science Study) e il Timss Advanced 2015, indagini dell'Iea (International Association for the Evaluation of Educational Achievement) di Boston volte a valutare le performance degli allievi di quarta elementare, di terza media e di quinto superiore di circa 50 paesi industrializzati. Dalla prima edizione del 1995 a quest'ultima, gli studenti italiani hanno sempre peggiorato le proprie prestazioni, e per le competenze matematiche avanzate nel 2015 si sono piazzati addirittura all'ultimo posto.Non a caso, nonostante stando ai dati Istat uno studente su quattro – nel proseguire la carriera scolastica – scelga il liceo scientifico, sono in pochi a decidere poi di fare di queste materie un lavoro. Gli immatricolati ai corsi di “Scienze matematiche” nell’anno accademico 2015/16 sono stati solo 2.494 (meno dell’1% del totale).Ma come fare per dare appeal alla matematica? Ci prova ogni giorno Chiara Burberi, ex manager che ha lasciato il posto fisso in una multinazionale bancaria per una scommessa: far sì che le mamme e i loro figli si riappacificassero con i numeri. La sua sfida, lanciata nel 2014, si chiama Redooc ed è una piattaforma di education online per l’apprendimento della matematica e di altre materie (finanza, economia, fisica), ispirata a Code.org, progetto partito in America per sensibilizzare i giovani allo studio dell’informatica. «Redooc propone una modalità di apprendimento pensata e realizzata con i loro strumenti – telefono, tablet, pc – e linguaggi, come brevi video narrati ed esercizi gamificati con tanto di livelli crescenti e classifiche di punteggio» dice Burberi alla Repubblica degli Stagisti: «Perché la matematica è uno sport, bisogna allenarsi, ognuno nei modi e nei tempi propri».Redooc è una start up innovativa a vocazione sociale, nata grazie all'autofinanziamento dei fondatori e agli investimenti di otto Business Angel. Si rivolge agli studenti di scuole medie, superiori e università, ai genitori e ai professori, e sta nascendo inoltre una sezione dedicata alla scuola primaria. Nell'anno accademico 2015-16 la piattaforma è stata utilizzata da 35 scuole secondarie, da 60 professori e da 120 classi per un totale di 2mila studenti, e la maggioranza ha dichiarato risultati positivi: voti più alti e meno debiti. Per fruire dei servizi occorre registrarsi e scegliere fra le varie modalità di abbonamento: da 8,70 euro al mese per le scuole medie a da 9,90 euro mensili per le superiori e per l'università. E ancora, è disponibile la formula per simulare i test Invalsi (0,90 euro al mese) e quella per prepararsi alla seconda prova della maturità (2,90 euro al mese). L’obiettivo è far sì che la materia diventi alla portata di tutti, e non solo per raggiungere la sufficienza a fine anno scolastico. «La matematica serve a diventare dei liberi cittadini consapevoli» aggiunge la fondatrice di Redooc: «Non a caso l’etimologia della parola "matematica" è conoscenza, è scoperta del mondo». E questa scoperta passa anche per l’abbattimento degli stereotipi di genere. «Il grande problema è di tipo culturale. Un esempio: le ragazze» sostiene Chiara Burberi «statisticamente sono meno propense a rispondere agli esami in forma di test, perché non sono cresciute alla sfida, alla corsa contro il tempo, ma alla cura, all’attenzione a seguire le regole». Secondo un recente studio internazionale, a frenarle il più delle volte non sono le capacità ma è piuttosto la maths anxiety, l’ “ansia da matematica”, che porta a vivere lo svolgimento del compito con maggiore stress emotivo rispetto ai ragazzi. Questo avviene per fattori genetici, sociali e ambientali, tra i quali appunto la percezione della matematica quale settore di dominio maschile. Un retaggio che la società si porta dietro da troppo tempo e che è arrivato il momento di superare.Rossella Nocca

Party con Sve, una festa per il ventennale del servizio volontario europeo

Una sala piena di giovani, entusiasmo alle stelle, risate e emozioni: 'Party con Sve', l'evento organizzato dall'Agenzia nazionale giovani al Maxxi di Roma – presentato da Federico Taddia di Radio24 - ha celebrato la settimana scorsa il ventennale del servizio volontario europeo, uno dei pezzi del programma Erasmus+. Dunque non l'Erasmus vero e proprio, bensì uno strumento «molto più inclusivo», come lo ha definito nel suo intervento Giacomo D'Arrigo, presidente dell'Ang, perché non richiede l'iscrizione all'università. «Consente a chiunque di andare fuori e non solo conoscere la lingua ma anche capire il mondo». Ci si avvicina alla realtà dell'associazionismo e alle questioni sociali più delicate, dalle case famiglia ai progetti per disabili. E le spese non sono tutte a proprio carico ma si può contare su vitto, alloggio, assicurazione, pocket money mensile e formazione predisposta dall'associazione che ospita il volontario con l'intermediazione della diverse agenzie nazionali. I ragazzi che hanno partecipato sembrano sprizzare energia da tutti i pori: all'incontro sono stati suddivisi in gruppi e hanno raccontato la propria esperienza mettendo in scena piccole rappresentazioni teatrali. C'è Riccardo, volontario a Tbilisi in Georgia, che si è «avvicinato ai valori della tolleranza e della crescita». C'è un giovane dall'Emilia Romagna, «con una carriera facile nello studio legale di mio padre». Su consiglio di un amico è partito per Cipro e adesso «si sta arricchendo dentro». Perché, dice, «non c'è niente di più preoccupante di un futuro sicuro». C'è il ragazzo timido, «che si è arruolato per un progetto di inclusione per disabili in Danimarca». E adesso è trasformato, «sa parlare alla folla». E poi Susanna, che dopo una laurea in Lettere non aveva le idee molto chiare, e così ha aderito allo Sve, destinazione Francia: «Dopo l'assistentato in lingua adesso ho un lavoro vero e proprio come addettta alla relazione clientela».Perché se c'è qualcosa che il volontariato trasmette (diventando poi un fattore prezioso quando si cerca lavoro) sono quelle «competenze trasversali che trovi in contesti informali in cui ti confronti con altri e diventi protagonista di qualcosa che ti mette al centro» ha sottolineato Alessandro Rosina, ordinario di Demografia e esperto di problematiche giovanili. È nel Rapporto Giovani che cura annualmente che si occupa di quel fenomeno per cui l'Italia vanta un triste primato, e cioè il numero di Neet, gli inattivi sotto i 30 anni.Ce ne sono milioni, benché quella sala del Maxxi rimandi un'immagine completamente diversa delle nuove generazioni: «Abbiamo una narrazione pubblica che enfatizza le tinte fosche, e dipinge i giovani come superficiali, passivi e individualisti» spiega. Invece «quando trovano una proposta i risultati si vedono, diventano accesi e intraprendenti. Ribaltano la situazione». Sulla stessa linea anche Pablo Rocas, giornalista Rai: «Il Paese è raccontato come negativo e depresso e si pensa che i giovani stiano solo davanti a Facebook a trollare». E ammette che è «in difetto anche la tv pubblica per non aver colto questi altri aspetti e non averli raccontati finora».  Sono soprattutto le donne a aderire allo Sve (70%), e i laureati (65%), secondo il sondaggio 'Sve-liamo l'Europa' condotto dall'Ang su 500 ex volontari. Si scelgono soprattutto Francia e Spagna (25%) e se ne esce con un forte bagaglio linguistico (per l'80% che dichiara di aver imparato almeno una lingua), mentre per circa la metà degli intervistati lo Sve ha permesso di capire quale strada intraprendere nella vita, ha aiutato a sviluppare se stessi ed è stato uno strumento utile per trovare lavoro.Del fatto che lo Sve debba avere un riconoscimento istituzionale si dice convinta anche Sofia Corradi [nella foto]. Questa appassionata 82enne è considerata 'mamma Erasmus' perché ideatrice del progetto europeo e per questo insignita recentemente di un premio da parte del Re di Spagna e del presidente del Parlamento dell'Unione europea Martin Schulz. «All'inizio non volevano riconoscermi nulla» ricorda. «Dicevano che volessi andare alla Columbia University a divertirmi» rivela, «e ho lavorato 18 anni per ottenere che gli studi all'estero fossero riconosciuti in patria per la laurea». Adesso tocca allo Sve, che ha bisogno «dell'istituzionalizzazione dei crediti di formazione extra scolastici». Occorre andare avanti in questa direzione, perché l'Erasmus nacque come «progetto per favorire la pace e la comprensione internazionale» evidenzia la Corradi. Un obiettivo che – ricordando anche che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, «fu proprio dalla vendita all'asta dei rottami di carri armati e aerei abbattuti che si ricavarono i fondi per le prime borse di studio» – sembra cruciale anche adesso.Ilaria Mariotti