Smartworking dall’estero, una rarità: in EY adesso si può grazie alla “job portability”
Quando si parla di smartworking, viene naturale dare per scontato che si possa lavorare da remoto da qualsiasi posto: casa propria, un bar, il parco, la casa al mare… ammesso che ci sia una buona connessione internet, beninteso. Non è proprio così. Si può, ma rimanendo nei confini del proprio Paese. Questa poco conosciuta limitazione territoriale diventa ovviamente un ostacolo se una persona ha necessità o voglia di stare all’estero per un periodo, senza per questo sospendere la sua attività lavorativa. E non si tratta solo di una peculiarità tutta italiana dovuta alla rigidità della nostra burocrazia e del nostro diritto del lavoro: in nessun Paese (almeno tra quelli europei) lo smartworking è libero dalla connotazione territoriale. EY, società di consulenza che da molti anni fa parte del network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti, ha deciso di fare un passo avanti, lanciando un progetto all’avanguardia che ha dato ai suoi dipendenti la possibilità di lavorare – ovviamente con pc e cellulare – dall’estero: nel corso del 2023, già in cento in Italia e duemila in Europa hanno potuto usufruire di questa chance.L’idea è partita a gennaio 2022 con una prova pilota della sede tedesca di EY. Un successo che ha ispirato i manager della sede italiana: «Sulla base dell’esperimento fatto dai colleghi tedeschi» racconta alla Repubblica degli Stagisti Francesca Giraudo, Talent Leader di EY, «l’Italia si è fatta portabandiera di questa iniziativa e ha guidato un progetto che ha visto l’implementazione della policy per poter lavorare dall’estero».Ottenere il risultato non è stato facile, in primis perché «parlare di smart working fuori dall’Italia è un’operazione molto complicata sotto il profilo giuridico, fiscale, assicurativo» osserva Giraudo: «Ci sono una molteplicità di regole di compliance da seguire e in quanto società di revisione avevamo bisogno di essere inappuntabili. Per questo siamo orgogliosissimi di essere riusciti a portare a casa il risultato». Al momento per i dipendenti italiani è possibile lavorare in smart working dall’estero per un massimo di venti giorni lavorativi, che quindi, includendo i fine settimana, arrivano praticamente a un mese. «Non escludiamo un possibile allungamento» anticipa la manager, «ma in questa prima fase abbiamo preferito fermarci a questo punto per verificare sia l’appeal dell’iniziativa sia eventuali azioni di assestamento». Ma tutto finora è filato liscissimo.Perché prevedere una limitazione nel numero di giorni di smart working dall’estero a disposizione? Perché ci sono specifiche normative che regolano la possibilità per le persone di lavorare in uno Stato in cui non sono residenti. Il limite massimo per poter sostare in un paese prima di essere considerati fiscalmente residenti è di 183 giorni. «Il limite è posto a tutela del massimo rispetto delle normative fiscali e previdenziali vigenti nei Paesi interessati, e degli accordi internazionali sottoscritti. Noi abbiamo iniziato a concedere i primi venti giorni di job portability anche per vedere come reagivano i dipendenti, se approfittavano dell’opportunità e come. E nel caso il progetto avesse funzionato, valutare se estenderlo ulteriormente. I più evoluti nel panorama delle sedi EY europee», spiega Giraudo, al momento «sono i tedeschi che hanno ben sessanta giorni all’anno di smart working dall’estero e stanno valutando di estenderlo a cento». Non solo, «anche l’Olanda sta passando dagli attuali venti a quaranta giorni». Circa 2mila persone di EY in tutta Europa hanno già potuto sfruttare questa opportunità. «È stata un’operazione molto innovativa che ha necessitato il coinvolgimento di vari esperti in materia internazionale» sottolinea Giraudo: «Abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo e consentito a tutti i dipendenti un’esperienza che a nostro avviso dà flessibilità e che si basa sulla fiducia nel rapporto di lavoro».Ma perché per la legge italiana lo smart working da uno stato estero presenta delle difficoltà? «Perché tutta la disciplina in relazione allo smart working è nata con un implicito riferimento al territorio nazionale, in assenza di un vero e proprio coordinamento tra normative internazionali. Consideriamo anche che è il risultato di un nuovo modo di lavorare non espressamente previsto nelle normative di riferimento internazionali, proprio perché rappresentativo di un nuovo fenomeno», spiega Giraudo: «Esiste un principio giuridico per cui hai una sede di lavoro, il tuo ufficio. Lo smart working, o lavoro agile, è la modalità che ha consentito, sin dal 2017 e in presenza di determinati requisiti, di poter svolgere la prestazione lavorativa in parte presso i locali interni e in parte all’esterno senza una postazione fissa. Il tutto nel rispetto delle norme poste a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nonché della riservatezza dei dati trattati nell’esecuzione dell’attività lavorativa. Esistono quindi diversi punti di attenzione per motivi giuridici e giuslavoristici, assicurativi e fiscali. Il problema è stato proprio quello di affrontare la frammentazione normativa nei vari Paesi e le difficoltà che alcuni avevano nel concedere questa modalità al di fuori dei confini nazionali. Per questo siamo partiti in quasi tutti i Paesi ma, poi prevedendo alcune eccezioni, come la Svizzera: lì i nostri dipendenti non possono lavorare in smart working».Per capire perché sia tanto complicato lavorare dalla propria casa all’estero piuttosto che dal proprio appartamento in una qualsiasi città italiana bisogna risalire alle norme sul lavoro agile, che sono state pensate sulla base del principio di territorialità. «Lo smart working all’estero ovviamente ha una serie di regole che abbiamo dovuto attivare soprattutto per garantire la compliance fiscale e previdenziale tramite un tool che ci consente di verificare a priori e attraverso un processo di approvazione le richieste dei nostri dipendenti che, su loro richiesta e per esigenza personale, manifestano la necessità di poter lavorare dall’estero per un periodo di tempo determinato e definito a priori».Oggi grazie alle policy approvate nei singoli Paesi i dipendenti EY di Italia, Germania, Austria, Belgio, Portogallo, Olanda, Francia, possono lavorare dall’estero in determinati paesi. La situazione è un po’ disomogenea perché non sempre c’è una reciprocità perfetta: in alcuni casi possono venire colleghi stranieri da un dato Paese a fare job portability in Italia, ma gli italiani non possono, ancora, andare in quel dato Paese, e altre volte il contrario.EY ha dovuto compiere un lungo e intricato percorso, «con il supporto di team dedicati confrontandosi anche con le autorità quando necessario», racconta Giraudo. «Non potevamo lasciare lo sviluppo della questione al caso: tutto questo deve valere per 36mila persone in Europa, e andava fatto bene». Dopo la Germania, apripista a gennaio 2022, e l’Austria a fine 2022, la formalizzazione dello smart working dall’estero è arrivata in Italia a febbraio del 2023.Oggi sono ventinove i Paesi in cui EY ha uffici e da cui è possibile questa modalità di lavoro, in pratica tutta l’Unione europea con l’aggiunta della Gran Bretagna. Il management di EY vede questo progetto come un connubio di «flessibilità e responsabilità», intendendo con questo «responsabilizzare le persone. Far capire che non devono essere in ufficio perché si sta in ufficio. Bisogna invece chiedersi: qual è il posto giusto per fare questo lavoro, farlo al meglio e stare bene nel farlo?», osserva Giraudo, sottolineando come EY si impegni da sempre perché le persone che fanno parte dell’organizzazione «possano scegliere il meglio per sé e per i clienti. Per dare ai nostri talenti un ambiente quanto più inclusivo e accogliente possibile e far sentire tutti “al posto giusto e al momento giusto”». Marianna Lepore