Riforma forense: un'occasione mancata per tutelare i praticanti?

Andrea Curiat

Andrea Curiat

Scritto il 21 Gen 2013 in Approfondimenti

Poco prima di Natale è stata approvata in via definitiva dal Senato la riforma forense. Per la prima volta negli ultimi 80 anni vengono modificate delle norme fondamentali che regolano l’accesso alla professione di avvocato e il suo esercizio. Numerose le novità in tema di praticantato: innanzitutto, la durata del tirocinio è ridotta da 24 a 18 mesi, accogliendo espressamente quanto già previsto in materia dal decreto liberalizzazioni (convertito nella legge 27 del marzo 2012). Inoltre, la legge menziona la possibilità di riconoscere un compenso ai praticanti avvocati. Già prima dell’approvazione definitiva al Senato, tuttavia, la formulazione della legge ha dato adito a numerose critiche: il compenso per i giovani tirocinanti, infatti, non è obbligatorio e scatta solo dopo i primi 6 mesi di pratica negli studi. A conti fatti sembrerebbe quasi che, per due passi avanti, la riforma ne faccia almeno uno indietro nella tutela dei giovani che cercano di accedere alla professione forense.
Il passaggio più controverso sta nel comma 11 dell’articolo 41, in cui si legge: «Ad eccezione che negli enti pubblici e presso l’Avvocatura dello Stato [per i quali sono previste norme specifiche illustrate di seguito, NdR], decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato». Bisogna tenere presente che, sino al decreto liberalizzazioni prima e alla riforma forense poi, nessuna legge aveva mai contenuto alcun riferimento a un compenso per i praticanti avvocati, sebbene il Codice deontologico di categoria sancisca da più di 15 anni la necessità di adottare questa buona pratica. Ma questa considerazione non è sufficiente ad esimere la nuova normativa dalle critiche; anzi, a maggior ragione la si può ben considerare come un’occasione perduta per evitare lo sfruttamento dei giovani praticanti negli studi legali.
L’articolo 41, infatti, non istituisce alcun obbligo. Si limita a riconoscere che gli studi “possono” riconoscere un compenso ai tirocinanti. Eppure nel decreto liberalizzazioni si sanciva testualmente che «al tirocinante è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi 6 mesi di tirocinio», individuando un dovere ben preciso da parte degli studi. Possibile che la riforma forense faccia un passo indietro rispetto alla legge sulle liberalizzazioni? Per risolvere la questione bisognerà probabilmente attendere una circolare esplicativa che potrebbe arrivare presto dal Consiglio Nazionale Forense.
Nel frattempo, però, la scelta dei termini fa riflettere. Lo stesso articolo 41 della riforma forense, infatti, sancisce una volta per tutte che i praticanti avvocati abbiano diritto, questo sì, a un pieno rimborso delle spese sostenute per conto dello studi. La riforma sembra quindi scorporare il rimborso spese dal compenso.
La questione ricorda il dibattito ospitato dalla Repubblica degli Stagisti ai tempi dell'approvazione del decreto liberalizzazioni. Il precedente decreto legge 138/2011, la manovra di Ferragosto, aveva già introdotto il concetto di equo compenso per i tirocinanti. Il decreto liberalizzazioni lo sostituì con il termine "rimborso spese". I pareri degli esperti si divisero: ci fu chi disse che non sarebbe cambiato molto, e chi invece lamentò un passo indietro nella legge. Oggi gli sviluppi sembrano dare ragione a questi ultimi: approfittando dell'ambiguità del decreto liberalizzazioni, la riforma forense riconosce sì l'obbligo di rimborsare le spese ai praticanti. Ma al tempo stesso coglie l'occasione per eliminare quasliasi possibile dovere, da parte degli studi legali, di pagare i tirocinanti in rapporto all'attività svolta.
Peggio ancora, questa possibilità scatta solo dopo il primo semestre di attività, coerentemente con quanto anticipato nel decreto liberalizzazioni. Insomma, sembra che per legge uno studio privato non possa pagare i propri praticanti, per i primi 6 mesi di tirocinio, neanche se i soci lo desiderano con tutto il cuore. Questa interpretazione è stata confermata a Marianna Madia dal ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione Filippo Patroni Griffi, in risposta a un'interrogazione parlamentare che la giovane deputata Pd aveva presentato sette mesi fa proprio a partire da un articolo della Repubblica degli Stagisti sul tema del decreto liberalizzazioni e del compenso per i praticanti: «La norma rinvia la determinazione dell'importo del rimborso per l'attività svolta dal tirocinante al libero accordo delle parti, che non può comunque essere erogato nei primi sei mesi di tirocinio», dichiara nero su bianco il ministro. Andando forse persino al di là del suo perimetro di competenze.
Ma resta pur sempre il parere di un componente del governo in carica e poichè la formulazione del decreto liberalizzazioni e della riforma forense sono pressochè equivalenti, è lecito pensare che un'interpretazione simile possa essere valida, per estensione, anche per il compenso dei praticanti avvocati che svolgano il tirocinio professionale presso studi privati.
Per di più, nel conteggio finale si deve anche tenere conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte dei giovani. Significa forse che se un praticante fa una telefonata dallo studio bisognerà scalargli il costo della stessa dal compenso finale? E se usufruisce del riscaldamento durante l’inverno, i soci potranno trattenergli parte della bolletta del gas dallo stipendio? Gli esempi, ovviamente, sono paradossali; ma in teoria, se si interpreta estensivamente la legge, non fanno una grinza.
Meno controversi i punti sulla durata del tirocinio e sulle sue modalità di svolgimento. Su un totale di 18 mesi, il primo semestre può iniziare già durante l’ultimo anno del corso di laurea. Inoltre il praticantato può essere portato avanti, per un massimo di 12 mesi, anche negli uffici legali degli enti pubblici, negli uffici giudiziari e presso l’avvocatura dello Stato. Tutte queste strutture riconoscono per legge al praticante avvocato un rimborso per l’attività svolta... ma solo ove previsto dai rispettivi ordinamenti e nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente. Insomma, se non ci sono i fondi o se l’ente stesso stabilisce che i praticanti non vadano pagati, i giovani aspiranti avvocati si ritroveranno ancora una volta a lavorare gratuitamente anche per un anno.
Di positivo c’è che comunque la legge permette espressamente ai praticanti di sbarcare il lunario svolgendo, contestualmente al tirocinio, anche un’attività di lavoro subordinato pubblico o privato. Ovviamente in assenza di conflitti di interessi o di orari rispetto al praticantato stesso.
Critico il giudizio che Dario Greco, presidente dell’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga), affida alla Repubblica degli Stagisti: «Il periodo di pratica negli studi è indispensabile per colmare il deficit formativo delle università. Il problema, però, è che spesso il tirocinio si trasforma in un periodo di manovalanza e non tutti gli studi offrono un compenso ai giovani, in termini economici o di competenze. La riforma rappresenta un’occasione mancata per offrire maggior tutela non solo ai praticanti, ma anche ai giovani che hanno completato il tirocinio e che non hanno un proprio studio e lavorano come collaboratori. Questa categoria vive in una vera e propria “terra di nessuno” priva di qualsiasi garanzia: non sono pochi i casi di avvocati 35enni o 40enni licenziati dalla sera alla mattina senza alcun paracadute, Tfr o ammortizzatore sociale».
Secondo Greco, inoltre, «è paradossale che la norma introduca un obbligo costante di formazione continua e aggiornamento per gli avvocati, salvo poi esentare proprio gli ultrasessantacinquenni e gli iscritti all’albo da oltre 25 anni [oltre ai docenti, ai ricercatori universitari, a coloro che ricoprono cariche con funzioni legislative e ai sospesi dall’albo, NdR]. Possibile che un anziano professionista over-60 abbia minore bisogno di aggiornarsi rispetto a un giovane fresco di studi e con una buona propensione di base all’uso degli strumenti informatici?».
A molte di queste domande dovrebbe presto rispondere una circolare esplicativa della legge ad opera del Cnf. Nel frattempo, però, il dubbio che la riforma rappresenti un’occasione sprecata per tutelare i giovani avvocati sembra quasi più una certezza, ed è tanto più grave se si considera che in media, in Italia, ci sono ogni anno più di 30mila praticanti avvocati che si presentano all'esame di Stato (e circa il 30% riesce a superarlo). Stando a dati Almalaurea, il 75% degli studenti che hanno conseguito una laurea specialistica in giurisprudenza e l'85% di di chi ha una laurea a ciclo unico decide, a un anno dalla fine degli studi, di effettuare il tirocinio. Attualmente gli avvocati iscritti all'albo sono circa 247mila in tutta Italia: uno ogni 246 abitanti.

di Andrea Curiat

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