Categoria: Approfondimenti

Per chi è diplomato o laureato da più di 12 mesi lo stage è un sogno proibito?

Nel mare magnum degli stage, diventati spesso per carenza di altre opportunità un obiettivo ambìto dai giovani italiani, vi è una tipologia che a molti sembra un traguardo ancora più difficile: quella dei tirocini «di inserimento o reinserimento lavorativo», che possono essere attivati dai servizi per l’impiego (e strutture affini) a favore di chi è laureato o diplomato da più di 12 mesi. Parliamo quindi della grande famiglia dei tirocini «extracurriculari», svolti quando si è finito il percorso di studi, che sono di competenza regionale e hanno visto nell’ultimo anno, una regolamentazione differente in ognuna delle Regioni italiane - con la conseguenza che è difficile fare un discorso unico per tutte e spesso, a pagarne gli effetti, sono gli aspiranti tirocinanti. All'interno della grande famiglia dei tirocini extracurriculari, qui ci focalizziamo in particolare non su quelli «formativi e di orientamento», cioè quelli attivati entro i 12 mesi dalla fine degli studi, bensì su quelli «di inserimento o reinserimento lavorativo».Teoricamente tutte le Regioni oggi hanno una legge che consente l’attivazione di questo tipo di stage, destinati espressamente (non senza detrattori) a chi non è riuscito nel primo anno dopo il diploma o la laurea a trovare una collocazione nel mondo del lavoro. Eppure tanti lettori della Repubblica degli Stagisti continuano a denunciare di avere difficoltà nell’attivazione di questi stage, lamentandosi che «le aziende cercano stagisti solo entro i 12 mesi dalla laurea» e che si blocchino di fronte a una dicitura che in effetti richiama esplicitamente uno sbocco occupazionale che non tutte vogliono o possono offrire al termine dell'esperienza formativa. Fermo restando che sono le aziende ad avere l’ultima parola e quindi a decidere chi inserire, la Repubblica degli Stagisti ha deciso di vederci chiaro contattando i centri per l’impiego dei capoluoghi di regione per capire quale fosse la realtà dei fatti. Ed è qui che, parlando con i vari responsabili, si ha il primo impatto con una realtà diversa da quella raccontata dai giovani, che viene poi confermata dai numeri. I tirocini su persone che hanno completato gli studi da oltre 12 mesi, e che da un paio d'anni vengono definiti «di inserimento», nella stragrande maggioranza dei casi continuano a essere attivati. Cifre alla mano, quelli avviati nei primi tre mesi del 2014 non si discostano particolarmente da quelli del primo trimestre del 2013. A Milano, dove i centri per l’impiego sono confluiti insieme ad altri consorzi nell’Agenzia per la formazione, l’orientamento e il lavoro, non ci sono state grandi differenze tra il 2013 e il 2014 nell’attivazione dei tirocini di inserimento. Clara Nordio, collaboratore amministrativo che si occupa di tirocini per l’Afol Nord Milano, dice che in tutto il 2013 ne sono stati attivati 201. Nel primo trimestre del 2014, 68: un numero quasi identico a quello dell’anno precedente. Le aziende «non hanno difficoltà nell’attivare tirocini per chi ha superato i 12 mesi dalla laurea o diploma né per la dicitura “inserimento”». In questo caso la nuova normativa regionale non ha quindi prodotto alcuna difficoltà e anzi l’80% dei tirocini attivati, secondo i dati dell'agenzia, si trasformano poi in assunzione: apprendistato, tempo determinato o collaborazioni varie. Il dato positivo continua anche nel resto della provincia milanese tanto che Annalisa Gatti, dell’Afol ovest Milano, si dice convinta che «la legge regionale lombarda ha favorito questi tirocini e non ci sono aziende contrarie ad attivarli a chi non è più neodiplomato o neolaureato». Ancora una volta sono i numeri a confermarlo: se in tutto il 2013 sono stati attivati 317 tirocini di cui 79 nei primi tre mesi, nel primo trimestre del 2014 si è già a 99. Numeri incoraggianti anche per i centri per l’impiego di Venezia e Mestre che nel 2013 hanno promosso in totale 314 stage di inserimento di cui 51 nei primi tre mesi, mentre nel primo trimestre 2014 ne hanno già avviati 94. Anche in questo caso Giuseppe Poletto, del cpi, conferma che la nuova legge regionale veneta «ha sicuramente favorito questi tirocini rispetto alla norma introdotta dall’allora ministro Sacconi che li aveva ristretti entro 12 mesi dal titolo di studio a cui dovevano essere coerenti», ma ammette che le aziende «preferirebbero fare tirocini formativi perché hanno uno scopo sostanzialmente diverso dall’inserimento e quindi si sentono meno vincolate». Poletto aggiunge che i tirocini stanno diventando il principale strumento di ingresso nel mondo del lavoro, soprattutto per i laureati, a scapito dell’apprendistato che viene sempre criticato. La provincia con il calo più forte è quella di Genova, dove nel 2013 i centri per l’impiego avevano attivato 1493 tirocini di inserimento - mentre nel primo trimestre del 2014 si è fermi a 376 di cui ben 71 sono proroghe. «Il trend del numero di attivazioni è in decrescita dal 2010» spiega Giovanni Daniele, dirigente dei servizi per l’impiego, «legato anche al fatto che dal 2012 la Provincia non ha più finanziato l’indennità di partecipazione di 309 euro mensili». Le imprese insomma non vogliono o non possono pagare di tasca propria il compenso degli stagisti: da qui il forte blocco che si riscontra in Liguria nell’attivazione di tutti i tirocini extracurriculari, dunque non solo quelli «di inserimento» ma anche quelli «formativi e di orientamento». Una situazione simile anche a Cagliari dove Maria Pina Casula, del Centro servizi per il lavoro, conferma che a partire dal 2011 a oggi i tirocini di inserimento si sono ridotti notevolmente. In tutto il 2013 quelli attivati sono stati solo 11 e nel primo trimestre del 2014 si è fermi a un solo tirocinio. «La causa principale che blocca le aziende non è il termine “inserimento”» specifica Casula «bensì l’erogazione dell’indennità di partecipazione stabilita secondo la legge regionale per un importo non inferiore a 300 euro». Le aziende sarde hanno infatti avuto molti problemi di sostenibilità nell’ultimo anno tanto che «molte sono in cassa integrazione e hanno avuto diversi licenziamenti negli ultimi dodici mesi». Diversa invece la situazione a Roma. Nel centro per l’impiego di Cinecittà, il più grande della Capitale, nel 2013 sono stati attivati 2.186 tirocini di inserimento: un numero che rappresenta più della metà del totale degli stage attivati nell’intera provincia. E se nel primo trimestre del 2013 quelli attivati erano 530, nel 2014 si è a 606. L’incremento è quindi evidente: le aziende non scartano i laureati e diplomati da più di un anno perché quando scoprono che un tirocinio extracurriculare di orientamento - il "classico" per il neolaureato - può durare al massimo sei mesi, mentre un tirocinio extracurriculare di inserimento può durare fino a 12 mesi, spesso preferiscono la seconda opzione. La nuova legge regionale ha quindi favorito anche in questo caso i tirocini di inserimento - che sono sì propedeutici all’assunzione, ma senza che ciò sia formalizzato attraverso un obbligo di legge.Anche a Potenza i tirocini di inserimento vengono attivati senza problemi e sono «in costante crescita», pur con numeri esigui: «Nessuno ostacolo o pregiudizio è stato frapposto dalle aziende» spiega Maria Vulpio, responsabile del cpi del capoluogo lucano,  ma c’è stato un blocco totale dell’attivazione di questi stage dal 23 agosto 2013 fino a tutto il 15 febbraio 2014, perché mancava una legge regionale che li disciplinasse. La situazione è cambiata con l’approvazione della nuova legge il 16 febbraio di quest’anno. Da allora questi tirocini vengono attivati e «non risulta che le aziende operanti nell’ambito territoriale di questo centro scartino a priori chi si è laureato da più di 12 mesi, né che il termine “inserimento” abbia bloccato o infastidito le aziende». Anzi, Vulpio ritiene che la recente normativa regionale li stia agevolando anche se su un totale di 22 tirocini attivati nel 2013 di cui 6 nel primo trimestre, nel 2014 quelli attivati nei primi tre mesi sono 4, ma la loro attivazione è partita solo dalla fine di febbraio.Numeri leggermente migliori in Calabria: al cpi di Catanzaro su un totale di 39 tirocini di inserimento attivati in tutto il 2013 - di cui una decina nei primi tre mesi - nel primo trimestre del 2014 si è già a 15 stage. Dal centro per l’impiego escludono che le aziende scartino i laureati da più di un anno e che siano bloccate dal termine “inserimento”, né si notano particolari cambiamenti con l’introduzione della nuova legge regionale.Un caso a parte è invece rappresentato dal Trentino Alto Adige, dove i tirocini di inserimento non esistono proprio. Come precisa alla Repubblica degli Stagisti Mauro Ghirotti, direttore dei servizi per l’impiego, nella nuova legge - che qui è provinciale - si parla solo di «tirocini formativi e di orientamento o di tirocini estivi». Per i quali c’è stato peraltro un notevole incremento tra il 2013 e il 2014: nei primi tre mesi dell’anno passato erano stati promossi solo 59 tirocini, contro i 139 attivati fino ad ora.La Repubblica degli Stagisti ha provato a contattare anche la sede milanese di Sportello Stage, che sul suo sito si autodefinisce come «servizio pubblico gratuito gestito da Actl per la promozione di stage» (anche se poi in realtà il servizio è gratuito solo per i giovani, mentre le aziende pagano una fee per l'attivazione di stage) e che è amministrato da Actl, associazione senza fini di lucro esistente dal 1986. Ma i dati sull’attivazione dei tirocini di inserimento saranno al centro di un dossier di prossima pubblicazione realizzato dal loro Osservatorio e non è stato possibile avere nessuna anticipazione né paragonare i loro risultati con quelli dei centri per l’impiego. Dall’inchiesta fin qui condotta si può comunque trarre la conclusione che nonostante il tirocinio di inserimento venga percepito come raro dai tantissimi giovani ormai non più neolaureati o neodiplomati, in realtà le imprese si dimostrano abbastanza favorevoli a questo tipo di stage. Pur dovendo, infatti, sostenere una spesa per il rimborso dovuto ai tirocinanti, questa modalità permette loro di avere il giovane in azienda per un periodo più lungo, fino a dodici mesi, avendo dunque più tempo a disposizione per testarne le abilità. E l'impegno all’eventuale assunzione alla fin fine si riduce alla parola che definisce questa tipologia di tirocini, senza che vi sia effettivamente un obbligo all'«inserimento». Concetto che alcuni centri per l’impiego illustrano alle imprese al fine di eliminare il “panico da assunzione obbligatoria”. E i numeri mostrano che quello di inserimento rivolto a persone diplomate o laureate da oltre 12 mesi è una tipologia di stage in cui le aziende sembrano credere. Marianna Lepore CONDIVIDI SU FACEBOOK

Volontariato: sempre più numerosi i giovani, soprattutto nella cooperazione internazionale

Sempre più volontariato e sempre più i giovani coinvolti. Vanno in questa direzione i dati raccolti nell'ultimo sui rapporto dal CSVnet, organo che dal 2003 rappresenta la quasi totalità dei 78 centri di servizio per il volontariato presenti in Italia - figure istituite con la legge 266/91, che prevede una gestione a carico di enti locali e finanziamenti da parte di fondazioni bancarie. Nonostante le difficoltà nel censire una realtà estremamente frammentaria e composita, è appurato che il fenomeno sia in crescita. E non è solo un'idea frutto del sentito dire, bensì «l'esito di studi condotti in tempi recenti» come confermano dall'ufficio stampa del CSVnet. Tra questi il più importante è quello dell'Istat che ha di recente fotografato la situazione del no profit in Italia, analizzando nello specifico il ruolo che il volontariato svolge al suo interno. Ne è emerso che i volontari in questo comparto sono oggi quasi cinque milioni, per la precisione 4 milioni e 758mila persone, in crescita del 43,5% nel decennio 2001-2011. L'identikit del volontario? Maschio (68%), di età compresa tra i 30 e i 54 anni (43%, mentre i 19-29enni sono il 16%), per lo più diplomato (nella metà dei casi). I laureati sono solo un quinto, mentre quelli con la sola licenza media uno su tre. Ma a fornire il polso della situazione è anche quanto rilevato dal CsvNet a livello delle scuole. Nel 2011 i Csv hanno svolto attività di promozione del volontariato in oltre 2mila istituti scolastici: «1.415 sono gli istituti superiori, 343 le scuole medie e 293 le elementari», si legge nell'ultimo report dell'ente sulla propria attività. Gli studenti interessati sono stati oltre 225mila, con un incremento del 38% rispetto al 2010, e quasi 6mila i docenti coinvolti (anche qui con un notevole aumento: un quinto in più). In un solo anno i ragazzi che hanno deciso di intraprendere il percorso sono lievitati di più di un terzo. Ne sanno qualcosa i Cesv regionali, come quello del Lazio. Alla Spes, uno dei centri romani che si occupa di smistare le richieste, la domanda degli under 30 è lievitata. «Non abbiamo degli studi veri e propri ma la percezione è questa», conferma alla Repubblica degli Stagisti Irene Troìa, responsabile comunicazione. «Soprattutto da quando abbiamo aperto il portale Trovavolontariato, attraverso cui mettiamo i ragazzi in contatto con le diverse associazioni. Si rivolgono direttamente a noi per essere indirizzati in un percorso». Il settore che va per la maggiore in questi casi «è l'infanzia» prosegue Troìa, «forse ingenuamente si crede che avere a che fare con  bambini sia più semplice, anche se in verità non lo è». A livello nazionale i dati statistici rilevano che nella fascia 19-29 la maggiore concentrazione di volontari presta servizio nei settori cultura e sport, sanità, ambiente e cooperazione internazionale. E proprio in quest'ultimo ambito è attiva la Youth Action for Peace Italia (Yap Italy), associazione internazionale non governativa che gestisce campi di volontariato internazionale e progetti di Servizio volontario europeo (questi ultimi finanziati però dalla Commissione Ue e rivolti ai ragazzi tra i 18 e i 30 anni: un programma quindi più strutturato, «molto simile al servizio civile nazionale» come si legge sul sito). «La tendenza dei giovani italiani è di avvicinarsi di più al mondo internazionale anche attraverso esperienze di volontariato» spiega alla Repubblica degli Stagisti Liza Zaytseva di Yap Italia, che ogni anno spedisce verso mete straniere circa trecento volontari soprattutto tra i 18 e i 35 anni (nel mondo sono invece circa 20mila), e che di recente è stata ospite di un seminario del Comune di Roma sulle opportunità nei campi di volontariato. Il motivo è che «non bastano più i titoli accademici, ma sono necessarie capacità di lavorare in gruppi internazionali, anche per aprirsi al lavoro nel mercato unico europeo. Nei gruppi che formiamo, tutti eterogenei dal punto di vista delle nazionalità, si parla ad esempio solo inglese». Le motivazioni dietro la scelta possono però dipendere da fattori diversi: «È un fatto personale, ma passarci vale molto di più di un'esperienza accademica» prosegue, «per alcuni potrà significare una vacanza normale, per altri la volontà di fare qualcosa di socialmente utile attraverso uno strumento di promozione della pace». Un po' di fascino i campi di volontariato lo hanno forse ereditato dalle loro radici lontane: «I primi sono comparsi nel 1923 dopo la Prima guerra mondiale in un paesino francese dove venivano raccolti ragazzi francesi per riparare oggetti». In Italia invece fu l'alluvione di Firenze del 1966 a far nascere il primo movimento cristiano per la pace, prodromo dell'attuale Yap, operativo nella strutturazione attuale dal 1997. «I campi non vanno considerati come lavoro gratuito, ma come strumenti di pace e solidarietà» puntualizza la Zaytseva, aggiungendo che le destinazioni prescelte nel caso dello Yap non riguardano «popolazioni a rischio o paesi che vivono emergenze umanitarie».I campi sono aperti non solo a chi studia cooperazione internazionale o scienze politiche, ma tutti gli interessati, a prescindere dalle età (ci sono esperienze specifiche per minorenni o per senior over 35). Le zone in cui si viene inviati abbracciano una sessantina di paesi: «Soprattutto in Europa e Africa: tra queste le più quotate sono Germania, Kenya, Marocco, Zambia. Ma c'è anche l'America Latina con Messico, Argentina, Ecuador. E poi il Giappone». La sicurezza è un elemento essenziale, quindi sono eliminate dalla rosa dei luoghi papabili le zone di guerra. «Se la missione è in Palestina, i ragazzi vengono mandati lontano dalla Striscia di Gaza ». La durata è di due o tre settimane, in estate, da maggio a ottobre: un periodo prestabilito che ben si concilia con le esigenze scolastiche, «per cui non si può stare di più, a meno che non si opti per il volontariato di lungo termine con il servizio volontario estero di un anno». Lo Yap cura anche l'aspetto finanziario: «Vitto e alloggio sono gratuiti, non ci sono hotel a 5 stelle ma comunque sistemazioni equiparate agli standard internazionali. Se ci sono otto persone ci saranno ad esempio un bagno con varie docce». L'assicurazione medica è coperta dai campi stessi nel caso dell'Europa; per le zone extraeuropee invece sono i volontari stessi a pagarsi le polizze di viaggio, che per poche settimane costano intorno ai 70 euro, come specificano dallo Yap. Per periodi più lunghi esistono di solito pacchetti appositi, più vantaggiosi, predisposti dalle assicurazioni. Anche il viaggio è a carico del volontario (a differenza del Servizio volontario europeo, che lo rimborsa al 90%). Ci sono poi gli 80 euro da versare come quota di adesione allo Yap: «Attraverso questi soldi sosteniamo il nostro ufficio» spiega la Zaytseva, «mentre l'altro canale di finanziamento è quello dei fondi europei, stanziati per progetti come come Gioventù in azione o Erasmus+». In un video che ritrae un workcamp in Kalaba, Kenya, un volontario kenyota definisce l'esperienza «unica: non avevo mai visto persone come quello che ho incontrato». «Per  gli italiani che vengono qui è come una seconda casa» dice una delle volontarie italiane del campo 'Volontariado con Subir al Sur' in Argentina in uno degli altri video che parlano di «condivisione, cambiamento di vita, voglia di aiutare il prossimo». Per i giovani italiani che volessero rispondere a questa chiamata, tocca però mettersi in fila: «Ogni anno dobbiamo lasciare fuori almeno una decina di persone che non riescono a trovare posto» si rammarica Liza. Anche qui quindi come nel mondo del lavoro, insomma, la concorrenza è agguerrita.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Stage, volontariato, diritti umani: il no profit che non paga- Servizio volontario europeo: centinaia di opportunità tra volontariato e formazione- Farsi le ossa nella cooperazione internazionale, la World Bank apre le porte a 200 stagistiE anche:- Tirocini UNV e programma Fellowship, due opportunità formative ben pagate nel mondo della cooperazione internazionale- Servizio civile, tempo di selezioni: al sud si sgomita, al nord posti vuoti. E anche il volontariato diventa un ammortizzatore sociale  

Garanzia giovani in partenza il 1° maggio: ma il piano anti-disoccupazione ha ancora troppe criticità

Doveva essere un pezzo importante degli interventi sul mercato del lavoro, la Garanzia giovani: l'iniziativa strategica che poteva ribaltare i numeri sulla disoccupazione giovanile e sui Neet. Invece nelle ultime settimane si registrano parecchie avvisaglie di perdita di terreno. L'incontro con le associazioni giovanili – il terzo da quando il programma è stato lanciato nel 2013 – organizzato nei giorni scorsi dal ministero del Lavoro per fare il punto sullo stato del programma, non ha infatti aperto grandi speranze sulla buona riuscita della Garanzia Giovani. E tantomeno sulla sua portata rivoluzionaria. Emblematico ad esempio il caso del "tariffario fantasma" sugli stage attivati tramite il programma: in un'intervista sul Corriere della Sera di qualche giorno fa il ministro del Lavoro Giuliano Poletti faceva riferimento a un «tariffario nazionale» per il rimborso dei tirocini inseriti nel percorso della Youth Guarantee, che fisserebbe in 500 euro il compenso da erogare mensilmente agli stagisti. Un'affermazione che ha fatto saltare sulla sedia la Repubblica degli Stagisti e molti altri che da mesi seguono con attenzione l'iter di questo progetto: perché è noto che le indennità per i tirocini extracurriculari sono ormai demandate alle diverse normative regionali, oscillando attualmente dai 300 ai 600 euro; e anche perchè un obbligo delle Regioni in tal senso non si era mai sentito. Alla domanda della Repubblica degli Stagisti sulla reale esistenza di tale griglia la segreteria tecnica del ministero ha in effetti confessato di non saperne nulla: forse quella del ministro è stata solo un'inesattezza, hanno ventilato. Certo non di poco conto, considerato che è stata messa nero su bianco sulle pagine dal più importante quotidiano nazionale. Al tavolo con le associazioni Poletti per giunta non era nemmeno presente, forse impegnato su altri fronti (in serata era su La7 a Piazza Pulita per parlare di Jobs Act). Al suo posto c'era il direttore della segreteria tecnica Bruno Busacca. Che almeno su un punto ha rassicurato: la partenza del progetto sarà come previsto il primo maggio, data da cui «ci si potrà collegare al sito www.garanziagiovani.gov.it e iscriversi». Sarà possibile farlo sul sito nazionale o su quelli regionali, laddove siano già stati predisposti: «Sono tutti interconessi» specifica Busacca, da poco subentrato a Daniele Fano dopo il cambio di governo. Almeno sul piano tecnico dunque la situazione sembrerebbe sotto controllo. Se non fosse però che per l'occasione non è stato istituito un portale ad hoc: il sito per raccogliere le candidature dei giovani senza un'occupazione sarà infatti semplicemente un'estensione di Clicklavoro. «È lì che ci si collega» specifica Busacca, ed è lì che confluirà l'enorme mole di dati da filtrare per far convergere l'offerta e la domanda di lavoro a livello nazionale (l'incrocio avverrà in modo reticolare Stato/Regioni). Legittimo chiedersi se il sistema – a livello informatico - sarà in grado non solo di funzionare ma anche di reggere, visti i precedenti episodi di collasso dello stesso sito web causati proprio dai troppi accessi. L'altro aspetto su cui al tavolo si è fatta parziale chiarezza è quello dell'età: come emerso anche nell'intervista a Poletti, la fascia dei destinatari sarà effettivamente più ampia. Dai 15-24enni inizialmente previsti si passa ai 15-29enni, pur «mantenendo i primi la priorità rispetto agli altri» spiega Busacca, con un'affermazione però un po' fumosa. Il funzionamento sembrebbe questo: intanto tutti gli under 30 interessati dal provvedimento vengono invitati a immatricolarsi al programma; ma poi cosa succederà, come le proposte saranno assegnate e con quale ordine non è dato sapere. Chi vivrà vedrà, in sostanza: non proprio la dimostrazione di un piano d'azione che possa far stare tranquilli rispetto alla efficacia della misura.Si possono infine concentrare in due punti gli altri elementi che, per dirla con un eufemismo, poco convincono nell'organizzazione dello Youth Guarantee alla vigilia del suo debutto. Sono tra i più citati alla riunione. Il primo riguarda le modalità di promozione dell'iniziativa, ovvero come far sapere ai ragazzi che esiste e che è a loro disposizione. Su questo la segreteria tecnica fa spallucce: «Siamo in campagna elettorale, c'è la par condicio, non possiamo far altro che un lancio istituzionale. Per la comunicazione c'è da aspettare». E poi il nodo – anch'esso chiave – della rendicontazione dei fondi, quasi tutti a beneficio delle regioni (allo Stato, dice il ministero, va solo una minima parte - circa 100mila euro - per la gestione del coordinamento nazionale). Memori di rimborsopoli, difficile non farsi venire qualche dubbio. Su questo Salvatore Pirrone, dirigente per le politiche attive del lavoro, assicura serietà: «ci saranno obiettivi da raggiungere, non solo controllo dell'andamento delle spese e dell'erogazione dei servizi». E poi un vero e proprio macigno pende sulle possibilità di successo del programma: i centri per l'impiego, il cui meccanismo – è ormai appurato – è del tutto fallimentare. Eppure sarà proprio attraverso il loro tramite che avverrà la presa in carico dei ragazzi. Dice Busacca che «i giovani, registrandosi, scelgono la regione di riferimento. Una volta smaltite le richieste secondo criteri nazionali che evitino concentrazioni eccessive e tenendo conto della distanza tra i luoghi di residenza, verranno contattati da cpi e agenzie private accreditate». Ci saranno dunque operatori formati, specializzati a guidare i candidati? È la domanda che diversi esponenti delle associazioni intervenute all'incontro rivolgono ai relatori. A quanto pare no: solo il personale già esistente che di solito coordina le borse lavoro e che d'ora in poi dovrà gestire l'ulteriore flusso di lavoro in arrivo.Per capire se il programma dispone di qualche chance per arginare l'esercito dei Neet italiani non resta quindi che aspettare. Ponendosi nel frattempo la domanda decisiva: dove verranno indirizzati i partecipanti? Come si creeranno per loro occasioni di impiego e di formazione? Nella famosa intervista Poletti ha parlato di primi accordi con Finmeccanica e la Confederazione italiana agricoltori, cui auspicabilmente ne seguiranno altri, per offrire ai giovani «qualche stage, qualche opportunità». Con un miliardo e mezzo di euro forse si poteva pensare a qualcosa di più; ma staremo a vedere. Ilaria Mariotti Per saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Garanzia giovani, che diavolo ha detto il ministro Poletti nell'intervista al Corriere?- Garanzia giovani già a marzo, ma come funzionerà? Lo spiega chi ha scritto il piano italiano- Una «dote» per trovare lavoro e 400 euro al mese di reddito di inserimento: la proposta di Youth Guarantee- Contro la disoccupazione non servono più stage, ma stage più efficaci e centri per l'impiego efficienti

Vita dura per gli studenti che lavorano e i lavoratori che studiano: alle università mancano fondi e organizzazione

Quanto costa essere uno studente universitario? Le voci di spesa non sono poche: tasse, materiale didattico, eventuali trasferte o alloggi fuori sede, vitto. La risposta dunque è una: parecchio. Tra le modalità per affrontare questi costi, oltre a quella usuale di chiedere aiuto ai genitori, vi è anche la possibilità di trovarsi un lavoro con l’obiettivo di rendersi autonomi: diventando lavoratori studenti. I lavoratori studenti, secondo l’articolo 10 dello Statuto dei lavoratori, «hanno diritto a turni di lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami e non sono obbligati a prestazioni di lavoro straordinario o durante i riposi settimanali». Inoltre possono «fruire di permessi giornalieri retribuiti. Il datore di lavoro potrà richiedere la produzione delle certificazioni necessarie». Tuttavia c’è, al contempo, l’altro lato della medaglia: è naturale che l’impegno in un’attività parallela allo studio possa rosicchiare un po’ di tempo alle prestazioni accademiche e spostare in avanti l’agognato conseguimento del titolo. Per analizzare questi e altri aspetti la Repubblica degli Stagisti, dopo aver interpellato per due volte il Miur - che sorprendentemente dice di non avere dati in proposito - ha analizzato le elaborazioni fornite da AlmaLaurea, in base all’indagine 2013 sui profili dei laureati 2012. Però, è bene sottolinearlo, tale indagine riguarda i 63 atenei italiani aderenti al consorzio Almalaurea e non l’intero campionario nazionale. A compilare il questionario sono stati comunque più di 208mila laureati nel 2012, di cui quasi 18mila lavoratori studenti, vale a dire, stando alla definizione della stessa AlmaLaurea, «i laureati che hanno dichiarato di aver svolto attività lavorative continuative a tempo pieno per almeno la metà della durata degli studi, sia nel periodo delle lezioni universitarie sia al di fuori delle lezioni». Il primo dato da mettere in evidenza è appunto il “rovescio della medaglia” sottolineato all’inizio: che prezzo bisogna pagare, in termini di tempo, per essere lavoratore studente? Il 29,7% si laurea in corso e circa il 24% oltre il quinto anno fuori corso, con una durata media degli studi che supera di poco i sei anni e un’età media alla laurea intorno ai 34 anni compiuti. L’indice di ritardo (cioè il rapporto tra il ritardo alla laurea e la durata legale del corso di laurea) è piuttosto eloquente: per gli studenti senza alcuna esperienza di lavoro raggiunge lo 0,24%, mentre si attesta intorno allo 0,44% per gli studenti lavoratori che - diversamente dai lavoratori studenti - hanno compiuto esperienze di lavoro nel corso degli studi universitari (ad esempio la sera, la domenica o d’estate) ma che frequentano regolarmente le lezioni. Invece il lavoratore studente ci impiega molto di più rispetto agli altri, con un indice di ritardo dello 0,94%; un bilancio questo che comunque deve tener presente che molte persone si immatricolano dopo i 19 anni, in misura sensibilmente maggiore rispetto a qualche tempo fa. E occorre considerare anche che la situazione non è, ovviamente, omogenea a livello nazionale. Gli studenti che lavorano in modo continuativo sono prevalenti al nord (38,1%), rispetto al centro (33,1%) e al sud (28,8%), in confronto al quale si riscontra un differenziale di quasi dieci punti percentuali. «I ragazzi che vengono dal sud provengono dalle famiglie probabilmente più favorite, quelle nelle quali non c’è bisogno di lavorare per mantenersi agli studi» spiega alla Repubblica degli Stagisti Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea: «Tuttavia potrebbe anche essere dovuto al fatto che è difficile per i lavoratori studenti del sud trovare una qualche occupazione».Molteplici sono le chiavi di lettura da adottare per interpretare la diminuzione progressiva del numero di studenti con esperienze di lavoro, in modo particolare dei lavoratori studenti a partire dal 2009 (18.065), fino alle cifre attuali menzionate in apertura (17.773). Come evidenzia il professor Cammelli «l’esplosione della crisi economica ha selezionato in modo rilevante l’iscrizione all’università dei giovani»; per cui, in sostanza, il calo del numero dei lavoratori studenti è un sottoinsieme della crisi delle immatricolazioni che, dopo il boom nel periodo immediatamente successivo alla riforma del 2000, tra il 2003 e il 2011 ha raggiunto il 17%.La crisi ha inciso anche sulla natura dei lavori svolti dagli universitari. Così mentre quelli a tempo pieno e a tempo parziale sono andati scemando dal 2010 al 2012, circa il 38% degli studenti ha svolto lavori di natura occasionale o saltuaria. «Qui entrano in gioco le difficoltà del mercato del lavoro» spiega Silvia Ghiselli, responsabile dell’Indagine sulla condizione occupazionale di AlmaLaurea: «Meno opportunità di lavoro e quindi meno di possibilità di fare lavoretti che sostengono gli studi universitari».Tuttavia in un contesto del genere - a cui si somma il calo demografico e il ridotto interesse dei giovani per la laurea a causa della sua presunta inutilità - le condizioni della famiglia d’origine svolgono un ruolo determinante, come dimostra il fatto che il questionario registra la presenza crescente, a partire dal 2004, di studenti che non lavorano, con la conseguenza che «c’è una selezione sociale molto forte, la popolazione sta cambiando i propri punti di partenza e si iscrivono all’università persone che vengono da classi sociali sempre più favorite» riassume Cammelli. Inoltre «tanti ragazzi che vengono dalle famiglie meno favorite, se manca il terreno del diritto allo studio che serva a selezionare i ragazzi migliori, devono abbandonare gli studi oppure rinunciare a iscriversi» aggiunge Silvia Ghiselli. Secondo i dati di AlmaLaurea nel 2012 hanno usufruito del servizio di borse di studio il 12,8 % dei lavoratori studenti e il 23,3% degli studenti lavoratori. Nel sistema del diritto allo studio non ci sono differenze tra lavoratori e non lavoratori: possono ricevere borse di studio gli studenti idonei, sulla base di parametri economici e di merito, stabiliti dal dpcm del 9 aprile 2001 (articoli 5 e 6), spiega alla Repubblica degli stagisti Mario Nobile, responsabile nazionale del diritto allo studio di Link-Coordinamento universitario. In Italia il diritto allo studio conta sui fondi che vengono erogati dallo Stato, sulle risorse proprie delle Regioni e sulla parte, ormai maggioritaria, derivante dalla contribuzione studentesca tanto che «paradossalmente ormai il diritto allo studio è finanziato dagli studenti stessi» conclude Nobile. Il suo sindacato universitario, per quanto riguarda gli studenti con esperienza di lavoro, piuttosto che con quella dei lavoratori studenti (persone in molti casi più grandi e che non vivono a tempo pieno l’attività universitaria) entra in contatto con quella degli studenti lavoratori. «Per l’assenza di fondi al diritto allo studio e di borse di studio gli studenti sono costretti a reinventarsi studenti lavoratori, precari nella maggior parte dei casi, in nero per un’altra buona fetta e in una minima parte regolarmente contrattualizzati» puntualizza il responsabile al diritto allo studio «La borsa di studio la riceve ormai chi sta a livelli imponibili Isee molto bassi, tra i 4 e i 7mila euro. Noi abbiamo calcolato che servirebbero intorno ai 400-450 milioni di euro per avere una copertura totale delle borse di studio. L’Italia è l’unico paese che contempla la figura dell’ “idoneo non beneficiario”, lo studente che non riceve la borsa non per demerito suo ma perché non ci sono i soldi». Ma i problemi sono presenti anche su un altro versante: «La categoria dello studente lavoratore ha difficoltà a seguire i corsi, in particolar modo i corsi a frequenza obbligatoria. Inoltre le biblioteche o le aule studio, al contrario di quanto avviene negli altri paesi esteri in cui sono aperte fino a tarda serata, hanno orari non compatibili con i classici orari di lavoro». Quindi oltre ai disagi economici - legati alla fragile politica al diritto allo studio - ci sono anche quelli pratici, relativi soprattutto ai servizi che l’ateneo offre, come la segreteria didattica o i tutorati. E la conseguenza è che a perderci sono gli studenti, siano essi lavoratori studenti o studenti lavoratori, che spesso devono abbandonare ciò che non possono permettersi. Anche se la vera sconfitta è quella dell’università e dell'istruzione. E quindi del Paese.Marta LatiniLa prima foto è di lifeisfoo (Flickr Modalità Creative Commons)La seconda foto è di Ivan Crivellaro (Flickr Modalità Creative Commons)Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Addio diritto allo studio? Fondi ministeriali ridotti all’osso- Laureati italiani, dati pessimi. Il ministro Giannini: «Lo studio torni strumento di riscatto»- Campania, spariti i soldi destinati alle borse di studio: l’Unione degli universitari fa ricorso alla Corte dei contiE anche:- Prestiti d’onore, bassissimi anche nel 2013 i finanziamenti agli studenti- Le 150 ore per il diritto allo studio: una lotta sindacale degli anni Settanta che oggi andrebbe rispolverata

Arrivederci (o addio) Italia, quando si trasferisce il dipendente all’estero

Lasciare casa per andare a lavorare all’estero? Il lavoratore italiano lo fa sempre più spesso. E sempre più spesso tende a non ritornare nel Belpaese.Il fenomeno è definito «mobilità internazionale» e indica la tendenza di una multinazionale a proporre ai propri dipendenti passaggi a una propria sede estera, per periodi di tempo variabili, o ad accettare proposte di partenza da parte del lavoratore.La legislazione italiana distingue tra trasferta, distacco o trasferimento. Nei primi due casi si può parlare di un cambiamento di sede temporaneo, che per il distacco può protrarsi per mesi o anni (decreto legislativo 276/2003 e decreto legislativo 72/2000). Nel caso del trasferimento invece la modifica del luogo di lavoro è definitiva. Le retribuzioni legate al lavoro dipendente prestato all’estero sono disciplinate dall’art.51 del Tuir (Testo unico delle imposte sui redditi), che prevede che i redditi da lavoro svolto all’estero per più di 183 giorni siano disciplinati in base a retribuzioni convenzionali suddivise per settori merceologici, stabilite da un decreto del ministero del Lavoro. A livello internazionale un riferimento importante è il Modello di convenzione OCSE, che sancisce, tra le varie disposizioni, l’imponibilità dei redditi da lavoro dipendente nello stato in cui è esercitata questa attività e secondo la legislazione dello stesso stato, a patto che il soggiorno all’estero nell’anno fiscale considerato superi i 183 giorni. Chi si trova nel corso della propria vita a lavorare in paesi diversi, può beneficiare dei cosiddetti accordi bilaterali, che sommano tutti i periodi di assicurazione e di contribuzione maturati nei differenti paesi, per riconoscere al lavoratore un «trattamento pensionistico adeguato al lavoro prestato in Nazioni differenti», come stabilito dall'Inps.Com’è la situazione oggi e quale il profilo tipo del lavoratore espatriato? Next ha provato a fotografare il fenomeno insieme a Mercer, società di consulenza sul capitale umano, che monitora costantemente i processi legati alla mobilità del personale di aziende italiane e straniere. «Non è facile quantificare il numero annuale di lavoratori che si trasferiscono all’estero per conto della propria azienda, ma si può andare dai 30 di imprese medie fino alle circa mille unità l’anno di importanti multinazionali. Il trend indica comunque una crescita rispetto agli anni precedenti», spiega Elena Oriani, global mobility leader di Mercer. Gli expat sono nella maggior parte dei casi lavoratori tra i 35 e i 50 anni, a un buon livello di carriera, anche se sono in aumento i giovani. «I giovani hanno meno vincoli familiari e personali e tendono a giocarsi la carta estero per arricchire il proprio curriculum e avanzare a livello professionale». La percentuale di donne, variabile per settore, si aggira tra il 10 e il 20% del totale. Tendenzialmente è la società a proporre un trasferimento a un proprio dipendente, in seguito allo sviluppo di nuovi progetti o per  specifiche esigenze di personale. Nella maggior parte di casi si sta fuori dall’Italia per un periodo variabile tra i 3 e i 5 anni, ma è sempre più frequente che il lavoratore decida di non tornare a casa, ma di restare nella sede estera o fare una nuova esperienza in un altro paese straniero.Una tendenza confermata anche da Nadia Cappellini, HR manager di Philips, azienda presente in più di 120 paesi: «I nostri dipendenti lavorano all’estero nella maggior parte dei casi dai 3 ai 5 anni. Si tratta di figure professionali già con una discreta esperienza lavorativa, se non addirittura di top manager, che decidono di chiudere la propria carriera fuori dall’Italia. Nel nostro caso è di solito il dipendente a proporre il trasferimento all’azienda, che valuta poi la richiesta in base alle specifiche esigenze di personale. La perfetta conoscenza della lingua inglese è fondamentale per il trasferimento, dal momento che noi lavoriamo in inglese. Può però capitare che all'expatriate venga fornito come supporto anche un corso di lingua locale per integrarsi meglio nella società civile. Una multinazionale come Philips ha all’estero una maggiore disponibilità di posizioni di alto livello. Il rientro in Italia è difficile, proprio perché l’estero offre maggiori opportunità di crescita sia dal punto di vista economico che per la carriera». Del resto, una recente classifica mondiale del World Economic Forum ha segnalato che l’Italia è solo al centunesimo posto su un totale di 122 per capacità di mantenere talenti e al novantanovesimo per capacità di attrarne. Il che significa che spesso le nostre aziende non riescono a offrire condizioni ottimali per permettere la migliore crescita professionale dei propri dipendenti. Chiara Del PrioreLa foto dell'uomo con la valigia è di Seabamirum

Studiare in Australia: tasse, offerta formativa e prospettive di lavoro

Prendendo in mano la classifica Qs Ranking 2013, per trovare l’Australia, si perdono in tutto neanche dieci secondi: infatti il 27esimo e il 31esimo posto spettano rispettivamente all’università nazionale australiana (Anu) e all’università di Melbourne, entrambe pubbliche. L’Australia fa parte di quello che viene denominato il “nuovissimo continente”, ovvero l’Oceania. E di nuovissimo, per chi dall’Italia pensa di andare a cercare qualche opportunità in quella parte del mondo, c’è anche il sistema dell’educazione terziaria. Per questo la Repubblica degli Stagisti ha pensato di dare un orientamento generale sugli aspetti che fanno la differenza o che semplicemente è opportuno sottolineare.Prima di procedere alla raccolta di qualsiasi dato, bisogna considerare una distinzione fondamentale, tra domestic e international students: il primo gruppo include i cittadini di Australia e Nuova Zelanda, i residenti permanenti australiani e coloro che posseggono un visto (Australian humanitarian visa). Soltanto questo gruppo ha la facoltà di accedere al Commonwealth supported place, il secondo elemento che in un certo senso identifica l’istruzione australiana, per il quale il requisito generalmente è essere undergraduate student. Lo Stato copre buona parte dei costi e lo studente deve farsi carico di una somma detta “student contribution amount”, come si legge sul sito Study Assist: i cittadini australiani inoltre hanno diritto di scegliere se rinviare il pagamento e chiedere un prestito, “HECS-HELP loan”, da restituire solo quando si inizia a lavorare e si guadagna un certo reddito, stabilito dai singoli atenei. Questo però non significa che le spese siano lievi. Tutt’altro. A Melbourne chi è del luogo paga in media 8-9mila dollari australiani l’anno e, in base al prestito suddetto, può accumulare un debito con il governo di 40-50mila dollari. L’asticella si alza per lo studente che viene da fuori, il quale deve versare, solo di tasse, intorno ai 30mila dollari (25mila euro circa) annualmente; anche all’università di Canberra si arriva ad una media di 31mila dollari australiani, tra programmi undergraduate e postgraduate (cioè successivi al ciclo dei tre anni). Come terzo elemento per comporre questo quadro la Repubblica degli Stagisti ha scelto di analizzare l’offerta formativa australiana, con l’aiuto di Paolo Tombesi, docente ordinario a Melbourne (Chair in Construction) nella facoltà di Architettura, costruzione e pianificazione. Il sistema è uguale in tutta l’Australia, comprende tre anni di bachelor degree o laurea triennale più due anni di master degree o laurea specialistica nelle diverse graduate schools. «All’interno ci sono varie aree e all’interno di ogni area ci sono specializzazioni diverse. A queste scuole fanno riferimento sia gli studenti dei due anni della specialistica sia i dottorandi» spiega Tombesi «dopo i cinque anni si diventa studente di un HRD, Higher research degree, una “casella” che contiene Master di ricerca e Dottorato». In linea indicativa ogni corso, sia undergraduate (triennale) sia graduate, comprende otto unità didattiche l’anno e le differenze con l’Italia sono principalmente tre: se non si supera l’esame non si può passare alla sessione successiva ma occorre rifare il corso, la formazione è molto più pratica che teorica, gli esami orali praticamente non esistono. E qualche differenza in realtà sussiste anche nella struttura accademica delle varie università. Quella del professor Tombesi nel 2008 ha introdotto “il modello Melbourne”, che permette agli studenti di cambiare indirizzo fino a un anno e mezzo dall’ingresso nella facoltà. Infatti dopo quel tempo, in cui la preparazione è più generica, «decidono a quale area riferire e all’inizio del secondo anno possono iniziare a prendere corsi che hanno a che fare con un'area specialistica. A quel punto devono seguire un curriculum anche se un quarto, almeno in teoria, deve essere fatto in un’area “breath”, di respiro, cioè esterna al proprio diploma». Qual è lo scopo? «Lo studente ha la possibilità di capire l’ambito in cui si colloca la sua disciplina e che cosa vuole fare da grande».   Ovviamente le modalità di selezione sono diverse: ad esempio per i domestic students, l’ammissione al programma undergraduate è legata al voto della maturità e ogni studente sceglie le materie dell’esame in base a quelle richieste dall’ateneo in cui intende iscriversi. Parlando invece degli studenti internazionali, nella capitale i non laureati sono tenuti a presentare la loro candidatura direttamente all’università se non stanno conseguendo i diplomi Australian year 12, International baccalaureate in Australia o New Zealand Ncea (National certificate of edcuational achievement); discorso analogo vale anche nella città dello stato di Victoria dove le domande vengono inoltrate tanto online quanto per e-mail, scaricando l’apposito modulo o application form, o anche personalmente facendo riferimento a uno dei rappresentanti dell’istituzione all’estero. A mettere d’accordo domestic e international students ci pensano i programmi di dottorato, per il quale il processo è molto simile e comprende una “ricognizione” del supervisor vicino ai propri interessi di studio. Spesso è necessaria anche una pre-application, prima di quella ufficiale, che consiste nel mettersi in contatto con la facoltà o la scuola in questione per ricevere il sostegno alla propria richiesta.Se l’intento è quello di lavorare in ambito accademico, una volta terminato il PhD, o si entra nell’organigramma dell’università in pianta stabile oppure si possono avere dei contratti di ricerca come post-doc, ponte di collegamento tra formazione e attività autonoma in un gruppo di ricerca, la cui durata dipende dalla ricerca stessa. Sia l’Anu sia l’ateneo di Melbourne sponsorizzano nella sezione Careers o Jobs tutte le posizioni aperte, quindi anche quelle di postdoctoral researcher o fellow, dove sono indicati il salario offerto, il tipo e la durata del contratto, la descrizione della posizione e il termine utile o deadline. Le opportunità di finanziamento sono molteplici: ad esempio, dal prossimo luglio a Melbourne, ci si può candidare allo schema McKenzie fellowships program, che stanzia circa 100mila dollari l’anno. Sicuramente non bisogna ridursi all’ultimo, come insegna Fabio Longordo, laureato in Chimica e tecnologie farmaceutiche a Genova, che per fare un post-doc ha iniziato ad organizzarsi durante l’ultimo anno del suo dottorato in Neuroscienze a Losanna, nel 2010. «La Fondazione svizzera della ricerca, Swiss national science foundation, sceglie un numero di dottorandi e finanzia la prima parte del loro post-dottorato» precisa Longordo. Per accedervi è necessario partecipare ad un concorso, presentare un progetto dettagliato, dimostrare di avere un contatto all’estero disponibile. Il finanziamento ottenuto ha coperto il primo anno e mezzo e i monitoraggi erano semestrali, dopodiché «Ho prodotto una serie di dati preliminari che mi hanno aiutato a scrivere una proposta di grant per il National health and medical research council» aggiunge «Il progetto è stato finanziato dall’Australia per 400mila dollari per altri tre anni della ricerca». Infine, a coronare quel periodo di intensa attività di laboratorio, è arrivata la pubblicazione di un articolo su una delle più prestigiose riviste del settore, Nature neuroscience. Tuttavia «quando finisci il post-doc devi aprire di nuovo i tuoi orizzonti ed essere disposto a nuovi spostamenti» ci tiene a ribadire. Dell’Australia lui apprezza in modo particolare la «dinamicità», che ha sperimentato in prima persona iscrivendosi a un corso di medicina aperto ai laureati della durata di quattro anni, chiamato Mchd (Medicinae ac chirurgiae doctoranda) o Doctor of medicine and surgery. «Qui la carriera medica è interessante, hanno bisogno di medici specializzati che lavorano nelle zone più remote e che devono affrontare una serie di emergenze» spiega.La borsa di studio, di 10mila dollari annui (poco più di 6.450 euro), viene integrata con il lavoro nel gruppo di ricerca e con i risparmi personali. La consistenza di una scholarship in Australia, in linea generale, dipende dalle tasse da pagare, tuition fees, che non sono fisse ma devono essere calcolate in base alle materie scelte e al valore di ciascuna rispetto all’ “unità di misura” ovvero all’Equivalent full-time student load (EFTSL). Non bisogna trascurare neppure il costo della vita che è elevato ma attenzione: «l’ammontare dei salari è di gran lunga migliore. Ragazzi di 25 anni comprano le case con i mutui; devi avere i punteggi adeguati per entrare all’università». Lo studente dell’Anu porta come esempio proprio l’esame superato per essere ammesso alla sua seconda laurea: «Viene sempre dato un voto finale, da 0 a 100, con quel numero tu partecipi o mandi una richiesta per entrare in un’università di medicina. Il sistema di valutazione e l’università sono indipendenti». Trattasi, in una parola, di «meritocrazia». Marta LatiniLa prima foto, University of Melbourne Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Studiare in Europa del nord, da Londra alla Danimarca tutti i dettagli su costi e meccanismi- Mai pensato di fare l’università in Sudamerica? Ecco come funzionaE anche:- Laureati in fuga: i giovani italiani vogliono partire. Però sognando di riuscire a tornare- «Smetto quando voglio», al cinema i tagli alla ricerca diventano commedia (Articolo 36)

Garanzia giovani, parte o non parte? E come verranno spesi i soldi?

Molte centinaia di migliaia di ragazzi senza lavoro attendono da mesi che parta in Italia la Garanzia Giovani. Noi qui sulla Repubblica degli Stagisti abbiamo seguito passo dopo passo la genesi di questa iniziativa che mira all'auspicato rilancio dell'occupazione giovanile: l'iter ministeriale, il ping-pong con Bruxelles, le bozze di progetto, il dibattito e le proposte delle associazioni giovanili e delle parti sociali, dando sempre conto dei passi avanti e delle criticità. Oggi è il momento di fare un aggiornamento, anche perché nei giorni scorsi un quotidiano importante ha dato una notizia choc: e cioè che la Garanzia Giovani non riuscirebbe a partire prima dell'autunno, con buona pace di chi l'attende con grandi speranze fin dall'inizio di quest'anno.  Quando partirà dunque la Garanzia Giovani? «La Youth Guarantee (stage o lavoro entro tre mesi dalla perdita del posto o dal diploma), rischia un clamoroso fermo fino a settembre» ha scritto la giornalista Valentina Conte il 28 marzo su La Repubblica: «L’Italia difatti non ha ancora inviato a Bruxelles il programma operativo. E senza l’approvazione della Commissione - non prima di 4-6 mesi - il miliardo e mezzo rimarrà congelato». Come, congelato? Come, 4-6 mesi? Come, fondi bloccati? A noi della Repubblica degli Stagisti negli stessi giorni la parlamentare che più di tutti si è occupata di Garanzia Giovani, la democratica 26enne Anna Ascani, aveva assicurato tutt'altro.Ma allora come stanno le cose? «Non ci saranno ritardi: la Garanzia Giovani prenderà avvio a maggio di quest'anno, come annunciato. Ce l'ha assicurato la Direzione per le politiche attive e passive del lavoro del Ministero del lavoro» conferma anche oggi Anna Ascani: «È vero che il piano operativo italiano è stato parzialmente riformulato e dunque deve tornare a Bruxelles per un ulteriore ok. Ma innanzitutto per ottenerlo ci vorranno molto meno di quattro-sei mesi. E in ogni caso i ministeri interessati e le Regioni hanno raggiunto subito un accordo in base al quale le risorse per partire a maggio ci saranno, anche se non sarà ancora arrivato il nuovo benestare Ue, che comunque dovrebbe essere a questo punto una formalità. Gli stanziamenti per la Garanzia, infatti, ammontano a 1 miliardo e mezzo di euro suddiviso in tre parti: con questo accordo è stato stabilito che lo Stato anticipi una quota della sua parte, per permettere l'avvio delle attività di Garanzia Giovani entro il mese di maggio». Ma questo nuovo piano operativo qualcuno lo ha visto? «Noi ancora non lo abbiamo, ma a breve verrà messo online sul sito del ministero, a disposizione di tutti».La Garanzia coprirà solo gli under 25 o anche gli under 29? Un altro dei punti ancora non pienamente chiari del progetto è il suo raggio d'azione. Essendo un'iniziativa di matrice europea, dove i giovani hanno mediamente percorsi di studio più brevi e tendono ad entrare prima nel mercato del lavoro, la Youth Guarantee è stata inizialmente pensata per gli inoccupati, i disoccupati e i Neet della fascia d'età 15-24 anni. L'Unione europea però, nel momento in cui ha proposto a tutti gli Stati membri di adottare questo programma per arginare la piaga della disoccupazione giovanile, ha previsto che ogni Paese potesse adattarlo alla sua realtà, eventualmente estendendo la fascia di età fino a ricoprendere anche i 25-29enni. La Repubblica degli Stagisti si è battuta fin dal primo giorno su questo punto, sottolineando che il problema della disoccupazione giovanile in Italia non riguarda tanto gli under 25, bensì proprio la fascia critica 25-29 anni. Purtroppo invece il ministero del Lavoro, all'epoca di Giovannini, ha sempre preferito tenere il focus sulla fascia 15-24enni, prevedendo che solo in un secondo momento si sarebbe potuto ampliare, con alcune iniziative specifiche, il raggio d'azione della Garanzia Giovani anche ai 25-29enni. Un errore che il nuovo governo ha promesso di voler correggere: il premier Matteo Renzi ha infatti annunciato a metà marzo di voler estendere agli under 29 l'accesso a questa iniziativa. Ma non sono disponibili ulteriori dettagli: anche per questo sarebbe importante poter visionare il nuovo progetto.Laureati automaticamente esclusi? Anche perché strettamente legata alla scelta della fascia d'età da far accedere al programma è la questione importantissima della inclusione - o esclusione - dalla Garanzia Giovani della platea dei laureati (neo o meno neo). Qui il discorso è matematico: se si tiene il limite a chi non ha ancora compiuto 25 anni, come aveva stabilito Giovannini, automaticamente una enorme quota di laureati italiani viene esclusa da questa iniziativa. L'età media degli italiani alla laurea è infatti 25 anni: troppo tardi dunque (considerati anche i 4 mesi che dovrebbero passare dal conseguimento del titolo alla fruizione del servizio) per candidarsi. L'intervento correttivo "amplificatore" annunciato da Renzi farebbe rientrare in gioco tutti i laureati under 29, chiamando in causa dunque tutte le università e facendo loro giocare un ruolo più attivo nella promozione della Garanzia, che a quel punto potrebbe essere richiesta da tutti i loro neolaureati che allo scoccare dei 4 mesi dal conseguimento del titolo di studio non avessero ancora trovato una collocazione nel mercato del lavoro. Ora tutto dipende da se questo intervento "amplificatore" ci sarà davvero: certo sarebbe da pazzi ignorare il problema dei laureati italiani che pur avendo studiato molto faticano a trovare lavoro, vengono spesso sottoinquadrati e quasi sempre sottopagati: anche a loro la Garanzia servirebbe, e molto. Anche solo per non maledire il giorno in cui hanno deciso di iscriversi all'universitàUtilizzo dei fondi. Sul piatto c'è un bel pacchetto di risorse: un miliardo e mezzo di euro non si vede tutti i giorni. Eppure grandi sono le perplessità rispetto all'efficacia delle misure pensate per spendere questi soldi. Molti in questi mesi hanno tirato la giacchetta per far includere o escludere determinate voci dal computo finale. Si è parlato di destinare queste risorse al miglioramento del funzionamento dei centri per l'impiego, oppure alla creazione all'interno dei centri per l'impiego di sportelli ad hoc dedicati ai giovani, con persone particolarmente preparate rispetto alle mansioni di collocamento del personale entry level; questo dibattito è poi tracimato in una (impietosa) analisi dei servizi, troppo scarsi, offerti da questi centri alla platea dei disoccupati e degli inoccupati, e della diffidenza che i giovani giustamente nutrono rispetto a uffici pubblici che raramente riescono davvero a costruire solidi rapporti con le aziende del territorio e a collocare in maniera efficiente le persone in cerca di lavoro. In particolare, c'è il rischio che con così tanti soldi in ballo, si trovi il modo di favorire i soliti amici degli amici con voci di spesa poco utili. Due casi su tutti a rischio spreco: la comunicazione e l'infrastruttura informatica. Si è detto che la Garanzia Giovani avrà bisogno di un sito suo, in grado di ospitare e gestire centinaia di migliaia di cv e di far parlare tra loro tutti i servizi per l'impiego delle varie province e regioni, matchando la richiesta e offerta di lavoro. Non è però ancora chiarissimo se verrà implementato il sito del ministero già esistente, Cliclavoro, costato già parecchi milioni di euro eppure risultato spesso inadeguato, oppure se verrà creato un sito ad hoc, il famoso www.garanziagiovani.gov.it che però a tutt'oggi non è ancora attivo. O se i due siti coabiteranno, spartendosi la platea di iscritti. La cosa preoccupante qui è che fonti autorevoli (che noi della Repubblica degli Sttagisti abbiamo avuto modo di sentire direttamente e che sono state anche riprese dal professor Tito Boeri in un articolo pubblicato in prima pagina qualche settimana fa sul quotidiano La Repubblica) hanno parlato, pubblicamente, di una cifra enorme che sarebbe stata stanziata per questo rinnovo dell'infrastruttura informatica: 100 milioni di euro. È davvero così? Sembra una somma davvero mostruosa, anzi, di più: tanto che lo sarebbe perfino con uno zero di meno. Un lavoro del genere, per quanto complesso, non vale certo milioni di euro. E poi: come verrebbe scelta l'azienda informatica alla quale affidare l'appalto? È già stato fatto un bando? Altro capitolo di spesa, la comunicazione. Qui la retorica è facile: «Possiamo fare il progetto migliore del mondo, ma se poi non riusciamo ad arrivare ai giovani, se i diretti interessati non vengono a conoscenza dell'esistenza della Garanzia Giovani e non si candidano per usufruirne, avremo fallito». Certo, è vero. Però anche qui sempre fonti autorevoli parlano di nuovo di altri 100 milioni di euro. E anche qui la domanda sorge spontanea: a chi andranno? La cosa migliore sarebbe che venissero sparpagliati in molti rivoli, attraverso un attento studio della comunicazione online e offline maggiormente utilizzata dal target 15-29 anni, e restringendo poi il campo ai canali  in linea con una iniziativa a cavallo tra la formazione e l'occupazione. Scuole, università, siti specializzati, social network: ci si può sbizzarrire. Ma come faremo a sapere come verranno spesi questi soldi (e quanti saranno di preciso), e ad essere sicuri che non si vadano a oliare i soliti meccanismi, favorendo come al solito gli amici degli amici? Forse la cosa migliore sarebbe che il ministero facesse una call, chiamando a candidarsi tutti i soggetti che ritengono di avere un bacino di utenza coerente con la Garanzia, e poi spartendo equamente i fondi. O forse è troppo tardi?Incognita stage. C'è poi la questione dello stage, strumento che viene indicato anche nel progetto originale di Youth Guarantee come una delle opzioni che nell'ambito di questi programmi può essere offerta ai ragazzi in alternativa a un posto di lavoro, un apprendistato o un corso di formazione. Qui bisogna andarci coi piedi di piombo perché ogni lingua ha la sua terminologia e ogni Paese ha il suo codice del lavoro, e bisogna conoscere molto bene la situazione italiana e non fare gli struzzi davanti ai problemi. La Repubblica degli Stagisti ha sempre messo in guardia il ministero del Lavoro dalla tentazione di utilizzare lo stage come "contentino" per i fruitori della Garanzia Giovani, dando loro l'illusione di mettere un piede nel mercato del lavoro. illusione che poi si tramuta, dati alla mano, in frustrazione nel 90% dei casi, perché solo il 10% dei tirocini si tramuta in un rapporto di lavoro secondo la rilevazione più attendibile (Unioncamere Excelsior). Anche rispetto a questo punto, ancora non si capisce bene che posizione voglia prendere il governo Renzi, e quali indicazioni verranno date alle Regioni dalla "regia nazionale" della iniziativa Garanzia Giovani. Noi auspichiamo che, se gli stage verranno inseriti nei percorsi di collocamento dei giovani, siano "controllati a vista" rispetto alla qualità e al rigoroso rispetto delle normative regionali in materia, in special modo per quanto riguarda l'indennità (che reputiamo siano i soggetti ospitanti a dover erogare, non lo Stato, o almeno non più che per una quota parte): e sopratutto che siano tutti e inderogabilmente "tirocini di inserimento / reinserimento lavorativo", e non "tirocini di formazione e orientamento". Sembra una piccolezza, ma conta: non solo gli addetti ai lavori, ma anche i giovani lo sanno.Per tutti questi punti, e quelli che sicuramente potrebbero essere aggiunti all'elenco, la trasparenza deve essere oggi più che mai un mantra: sopratutto quando si parla iniziative orientate a risolvere il dramma dell'occupazione giovanile.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Garanzia giovani già a marzo, ma come funzionerà? Lo spiega chi ha scritto il piano italiano- Youth Guarantee ai blocchi di partenza. Giovannini: «Operativi da marzo 2014»E anche:- Youth Guarantee, le richieste delle associazioni giovanili al ministero del Lavoro- Una «dote» per trovare lavoro e 400 euro al mese di reddito di inserimento: la proposta di Youth Guarantee della Repubblica degli Stagisti- Youth Guarantee anche in Italia: garantiamo il futuro dei giovani

Erasmus for Young Entrepreneurs, l'Europa aiuta i giovani imprenditori

Quello del turismo è uno dei settori più gettonati, ma non l’unico. Perché gli ambiti nei quali ci si può candidare per l’Eye, acronimo di Erasmus for Young Entrepreneurs, sono potenzialmente infiniti: l’importante è presentare (in una lingua ufficiale di un Paese membro, meglio se in inglese) un progetto imprenditoriale concreto e convincente e caricarlo sul portale insieme alla propria domanda, che viene vagliata dall’ente intermediario.Eppure questa iniziativa europea, nata nel 2008 allo scopo di consentire a giovani neoimprenditori o aspiranti tali di toccare con mano una realtà aziendale estera, è ancora poco conosciuta: finora sono solo 448 gli italiani partiti per sperimentare dall’interno un’impresa in uno dei 28 Stati membri dell’Unione. Per un periodo che va da un minimo di tre a un massimo di sei mesi, nel corso dei quali si riceve un rimborso spese mensile tra i 500 e i 1100 euro, a seconda del costo della vita nel luogo di destinazione. Spesso chi parte finisce per rimanere più a lungo del previsto. Come nel caso di Angelo Scarpa, 30enne sardo laureato in Economia che oggi vive a Budapest, dove lavora nel settore contabilità di General Electrics. Proprio nella capitale ungherese era volato per l’Eye, dal dicembre del 2011 al maggio del 2012. «Il mio intermediario era la Confindustria di Cagliari, dove ho fatto uno stage dopo la laurea. Sono andato a Budapest e ho lavorato in Itl Group, una srl italiana: mi occupavo di controllo di gestione, con un rimborso di 700 euro al mese». Quell’esperienza serve a Scarpa per apprendere termini tecnici in lingua ungherese, un valore aggiunto rivelatosi importante per gli impieghi successivi, tra cui quello nella multinazionale di autonoleggio Avis. «All’inizio non ero per nulla convinto sulla scelta della meta, oggi invece a Budapest mi trovo benissimo e conto di restarci», ammette. Non aveva nessun dubbio sulla destinazione, invece, Corrado Russo, 37 anni, laurea in filosofia a Lecce e master in organizzazione aziendale all’Istituto di Studi direzionali di Stresa (oggi inglobato nell’università Cattolica). La sua è la storia di chi poteva fare carriera ma ha scelto di tornare nella sua terra e mettersi in proprio. Dopo aver lavorato nella gestione del personale per Ibm e per Allen and Overy, uno dei più famosi studi legale del mondo, decide di rientrare in Puglia e fare un master in marketing turistico. Lavora per anni come guida turistica, sfruttando la sua elevata conoscenza delle lingue e anche di molte città nelle quali aveva viaggiato per lavoro, e nel 2008 fonda Iria, la sua agenzia di viaggi, specializzata nella customizzazione dei tour a seconda del cliente: a ciascuno il suo viaggio personalizzato, in base alle passioni e agli interessi. L’Eye, nel suo caso, arriva nel 2011, a Tenerife. Russo esplora l’isola e prende contatti con gli alberghi, per un mese. «Di più non potevo, dovevo comunque occuparmi dell’agenzia». Oggi ha due dipendenti e nell’utilità dell’Erasmus for young entrepreneurs crede fermamente, al punto da essere diventato a sua volta un host, cioè uno dei 266 imprenditori ospitanti in Italia. Lo scorso anno ha aperto le porte a una ragazza di Nottingham. La stessa isola dell’arcipelago delle Canarie è stata scelta come anche da Michela Mogavero, 30enne di Molfetta con una laurea in lingue, specializzata in traduzioni e appassionata di viaggi. Anche il suo sogno è aprire un’agenzia di viaggi. Per questo, dopo una lunga serie di esperienze che vanno dall’insegnamento dell’italiano in alcuni licei francesi, a stage come traduttrice a Milano, passando per il lavoro di receptionist in alberghi romani e due progetti Leonardo, a Dublino e a Lipsia, nel 2011 è volata nell’isola spagnola. Per tre mesi si è occupata di gestione dei clienti, marketing e analisi del traffico web per il portale Canarias.com. «Ho acquisito familiarità con il mondo del turismo online e con il marketing», spiega. Skills preziose anche per il suo lavoro attuale, di nuovo a Lipsia, presso Unister, azienda tedesca di webmarketing, dove Mogavero ricopre il ruolo di junior Country manager per la Francia e l’Italia.Il matching tra le proprie aspirazioni imprenditoriali e le aziende ospitanti non è, però, sempre facile. Lo sa bene Gabriele Nicu (nella foto), 33enne di Vigevano, in provincia di Pavia, laurea in filosofia all’Università Statale di Milano e studi in composizione al Conservatorio Verdi. «Ma proprio durante il conservatorio mi sono reso conto che sarebbe stato molto difficile vivere facendo il compositore di musica, e nello stesso tempo non volevo insegnare: volevo fare qualcosa di più operativo». Così si specializza in tecnologia audio all’Accademia della Scala, e dal 2010 comincia a lavorare come tecnico del suono sia dal vivo, nei locali di Milano, sia negli studi di registrazione. A fargli scoprire l’Eye è ancora un altro corso, organizzato da Regione Lombardia e dedicato a giovani startupper. Nicu presenta il suo progetto: una struttura che si occupa di musica a 360 gradi, fungendo da studio di registrazione e di montaggio, ma anche dando spazio ai giovani, ai quali vengono forniti una sala prove e supporto per i contatti con i locali e le etichette discografiche. «Il problema però è che io ero il primo a voler partecipare all’Eye in questo ambito, quindi nel database non c’era nessuna azienda del settore. Ho dovuto cercarmela da solo, all’inizio volevo andare a Londra, che è all’avanguardia, invece poi ho trovato Auhra». Uno studio di registrazione di Barcellona, dove Nicu è rimasto per tre mesi, con un rimborso da 800 euro mensili. «Lì mi hanno instillato la forma mentis dell’imprenditore, e ho imparato anche a lavorare in team», racconta. Oggi il suo progetto è realtà: si chiama MusicalBox, esiste da circa un anno nella sua città, «l’ho fondato insieme a un socio e stiamo andando bene». Giuliana De Vivo  Per approfondire questo argomento, leggi anche:- Erasmus +, al via il super-programma di studio all'estero targato UE- Più Erasmus, «Erasmus +»: tutte le novità per formarsi all'estero

Mai pensato di fare l'università in Sudamerica? Ecco come funziona

Reputazione accademica e affidabilità presso i datori di lavoro, numero di studenti e di papers per facoltà, impatto sul web. Sono questi alcuni dei parametri alla base della classifica Qs Ranking 2013, il “faro” della Repubblica degli Stagisti nel suo viaggio tra le migliori università del mondo. Stavolta la bussola orienta l’ago in direzione del continente sudamericano che sembra centrare buona parte dei criteri di selezione, considerate le posizioni abbastanza buone, anche se non eccezionali, occupate dagli atenei presenti in classifica.Svetta l’università di San Paolo, pubblica, 127esima nella classifica generale, che per il terzo anno consecutivo mantiene lo status di istituzione leader dell’America Latina mentre la seconda, riconfermata, è la Pontificia università cattolica del Cile, istituzione privata con sede a Santiago del Cile, al 166esimo posto. E scendendo di 43 gradini si incontra la più famosa università argentina pubblica, quella di Buenos Aires.Tutti e tre gli atenei dispongono di un sito con alcune sezioni tradotte in inglese, molto utili per gli stranieri interessati ad immatricolarsi oppure a partecipare ad un exchange program, un programma di scambio accademico, della durata di un semestre o di un anno, in cui lo studente rimane comunque iscritto nella sede d’origine. Un altro comun denominatore, ma stavolta negativo, riguarda le opportunità di alloggio, ben poco favorevoli: l’Usp garantisce un sostegno nella fase dell’arrivo, segnalando gli ostelli riservati alla categoria exchange students. Stesso discorso per l’università del Cile o per l’Uba che non hanno residenze universitarie ma offrono supporto per trovare una sistemazione. Facendo una ricerca generica online è abbastanza facile rendersi conto dei prezzi richiesti: sul sito Housing in Chile si legge che una camera ammobiliata nel centro di Santiago costa da un minimo di 115mila a un massimo di 170mila pesos cileni (tra i 150 e i 220 euro). Gli annunci pubblicati su Spare rooms Buenos Aires propongono affitti mensili oscillanti indicativamente dai 300 ai 450 euro, a seconda dei quartieri e della posizione.Per quanto riguarda l’ammissione, se vale come requisito universale il possesso del visto e del diploma di studi superiori, cambiano tuttavia le modalità di selezione.Parlando di matricole, nell’istituzione privata del Cile la selezione passa attraverso il superamento di un test chiamato Pus (acronimo di Prueba de selección) detto anche University selection test: questo consiste in due esami obbligatori, Linguaggio e comunicazione e Matematica, e, a seconda del corso scelto, in due prove aggiuntive, Scienze o Storia e scienze sociali. Graduate e postgraduate students invece, se vogliono continuare la loro formazione, devono presentare prima i certificati di laurea, con singole votazioni, quindi la descrizione dell’esperienza accademica e professionale accumulata, e sostenere infine un esame o un’intervista.Da trent'anni l’Uba, al posto dell’esame d’ingresso, ha istituito il Ciclo básico común, un primo ciclo di studi universitari dal carattere interdisciplinare: il primo anno è infatti composto da sei materie, di cui due comuni a tutti i corsi, due connesse a uno dei tre orientamenti (Scienze umane e sociali, Scienze biologiche e della salute, e Scienze esatte, tecnologia e design), e le ultime due relative al percorso di laurea scelto.A San Paolo gli studenti non laureati, undergraduate students, brasiliani e stranieri, possono arrivare solo tramite il processo di selezione organizzato dall’istituzione Fuvest, i cui test sono tutti in lingua portoghese; diversamente dalla candidatura per i programmi post-laurea, tutt’altro che univoca, in quanto è lo studente che deve contattare direttamente la scuola a cui fa riferimento, per capire come funziona l’application.Un’ulteriore significativa differenza consiste nelle tasse (aranceles) previste per gli studi, sia che si tratti di pregrado sia di posgrado: in Cile l’incrocio telematico tra queste due voci, tariffe e corso, permette di conoscere quanto si spende. Ad esempio per il 2014 ad un dottorando in Architettura e Studi urbani l’università privata chiede 4 milioni e 367.000 pesos cileni (arancel carrera o programa) più altri 49.280 (arancel de postulación), per un totale di circa 4 milioni e mezzo di pesos, più di 5.700 euro. Le borse di studio, in spagnolo becas, destinate ai dottorandi non cileni non sono rare, un esempio: la beca Ayudante becario copre il 90% delle tasse ed elargisce un assegno annuale per un massimo di 3 milioni 960.000 pesos, distribuito in quote mensili di 330mila.L’Uba si colloca a metà strada: le spese subentrano solo per i corsi post-laurea (estudios de posgrado), ovvero especializaciones, maestrías e doctorados, i cui contenuti sono descritti nei particolari per ciascuna delle facoltà attive a Buenos Aires. È il programma universitario Ubacyt a gestire le borse di studio e il termine utile della convocatoria per candidarsi: ad esempio la facoltà di Scienze sociali aprirà le iscrizioni dal prossimo 17 marzo al 4 aprile e il finanziamento, di 5.800 pesos mensili (542 euro), sarà erogato a partire dal primo agosto ai vincitori, che devono essersi laureati alla Uba o in un’università argentina.Infine, all’università Usp, i costi sono completamente gratuiti per i programmi di laurea, undergraduate e graduate (Master of Science e PhD), eccezion fatta per alcuni programmi di specializzazione (ad esempio il master Mba). Anche qui sono stabilite delle forme di sostegno economico, come l’International students’ Usp grant program: tra gli altri benefici vi è un’indennità mensile di 1.200 reis (intorno ai 360 euro) per gli studenti stranieri laureati e non, un centinaio dei quali sono italiani.Nel caso particolare dei dottorandi, questi possono puntare anche ad alcune borse finanziate da istituzioni pubbliche esterne oppure alle borse di dipartimento che sono legate alla valutazione della qualità dell’area in cui si lavora, in base ad un punteggio da 1 a 7. Quella per cui si è candidato a ottobre Gesualdo Maffia, neodottorando in Italianistica, dà anche la reserva técnica, un budget destinato a coprire spese di viaggi di studio, convegni, libri e di un computer da restituire alla fine del triennio. Maffia, studioso di Gramsci e Pasolini, è in Sud America da quasi quattro anni e in Brasile dall’agosto del 2012. Dopo gli studi a Torino e il dottorato in storia concluso a Genova nel 2009, ad aprile del 2010 decide di partecipare alla selezione per insegnare italiano, storia e geografia in Ecuador. Passa un mese e mezzo dal colloquio e arriva l’esito positivo: «Due secondi e ho detto: sì vengo». E ci rimane per due anni scolastici, lavorando con i ragazzi delle scuole superiori. «Il mio obiettivo fin dall’inizio era però il Brasile. San Paolo è una metropoli, è faticoso vivere qui, ma offre tantissime opportunità di lavoro». E il disegno in testa ha contorni nitidi: ricerca e docenza. «Avevo pensato ad un post-doc ma per inserirsi meglio nell’università brasiliana è meglio fare un passo indietro, quindi fare un altro dottorato».Come si ottiene dunque un dottorato alla Usp? Non è necessario sostenere un concorso, come in Italia, ma trovare un professore interessato al progetto. Nel suo caso la procedura è durata da febbraio a giugno 2013, compresi gli esami in lingua portoghese e un colloquio, sostenuti con successo. «Contemporaneamente sono stato chiamato da un importante istituto di insegnamento italiano di San Paolo che mi offriva un contratto di quattro mesi che poi si sarebbe trasformato nell'anno nuovo in un contratto a tempo indeterminato». Davanti a questo bivio il giovane sceglie la «prospettiva», una parola che suona come una filosofia di vita.Spesso però le prospettive non sono subito accessibili, soprattutto per chi è straniero. Per esempio Maffia ha dovuto attendere cinque mesi prima di poter iniziare il suo dottorato dato che, ai fini dell’iscrizione, bisogna avere l’equipollenza del titolo italiano, gratuita e valida solo all’interno dell’università dove si studia. Invece per il riconoscimento del dottorato a livello nazionale il giovane insegnante ha appena avviato le pratiche e dovrà aspettare fino a dicembre-gennaio dell’anno prossimo. Perché «l’Italia è molto in ritardo nel rinnovare o aggiornare gli accordi culturali con i paesi esteri. Con gli accordi puoi semplificare la burocrazia delle persone che lavorano all’estero e devono far riconoscere i loro titoli. Per fare il riconoscimento ci vuole circa un anno a Usp e costa 1800-2000 reis quindi 600-700 euro».E tra tre anni? «Una volta finito il dottorato, se non va in porto un concorso pubblico, ci sono anche molte istituzione private qui in Brasile che assumono persone con alta formazione. Io sono aperto a ulteriori prospettive».Marta Latini- la foto del logo è di vinculaentorno- licenza creative commons- la foto della facoltà Giurisprudenza Uba è di BKM_BR- licenza creative commonsPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Università sotto casa addio, io vado in Asia: piccola guida per neodiplomati per studiare in Estremo oriente- Studiare in Europa del nord, da Londra alla Danimarca tutti i dettagli su costi e meccanismiE anche:- Talento x investimento = risultati: la formula anticrisi per i giovani- Laureati italiani, più veloci e qualificati di prima: ma le speranze di lavoro sono poche- «Per lo stage in Commissione Ue mi sono dimesso da un posto a tempo indeterminato»

Ingegneria sì, ma quale? Su gli indirizzi elettronico, gestionale e biomedico, giù civile e ambientale

Una laurea inossidabile: capace di resistere ai venti della crisi e alla delocalizzazione della produzione. Nonostante la flessione occupazionale registrata per la prima volta nel corso del 2012, i diplomati che decidono di intraprendere un percorso di studi in ingegneria, possono ancora contare su un tasso di assorbimento da parte del mercato pressoché totale. A distanza di soli 5 anni dalla laurea di secondo livello, risultano infatti occupati ben 93 ingegneri su 100. Non solo: secondo i dati dell'ultimo rapporto di AlmaLaurea, trascorsi 5 anni dal termine degli studi, i laureati di questo gruppo disciplinare lavorano per lo più con un contratto a tempo indeterminato (nel 76% dei casi) e con la busta paga più sostanziosa nel panorama delle lauree italiane: pari a poco meno di 1.750 euro netti mensili. Presa la grande decisione, dinanzi all'aspirante ingegnere si pongono tuttavia scelte altrettanto significative: a partire dall'indirizzo di studi e quindi l'ateneo a cui iscriversi, fino alla durata del percorso di laurea. Per aiutare le future matricole ad orientarsi, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto aiuto anche a due presidi di facoltà: Paolo Riva dell'università di Bergamo e Alessandra Carucci dell'ateneo di Cagliari. Una scelta non casuale, dato che il polo bergamasco si è posizionato come primo nella classifica delle facoltà di ingegneria italiane selezionate dalla guida Censis-Repubblica per il 2013, e Cagliari (al 12° posto) è la prima facoltà a classificarsi al di fuori del Centro-Nord. Cerchiamo allora di capire anzitutto quali indirizzi di studio offrono le migliori garanzie in termini occupazionali. Stando ai dati riportati dal rapporto "Occupazione e remunerazione degli ingegneri in Italia", elaborati dal centro studi del consiglio nazionale di categoria nel 2013, gli indirizzi che in termini assoluti riscuotono maggiore successo da parte delle imprese sono quello elettronico e dell'informazione e l'indirizzo industriale. All'interno di questi gruppi, i profili più ricercati sono in particolare il progettista meccanico, lo sviluppatore di software e il programmatore informatico, che da soli hanno assorbito poco meno di un quarto delle richieste di ingegneri espresse dalle imprese nel corso del 2012. «Uno dei principali vantaggi di questa facoltà è che al momento - e quindi immaginiamo anche in un prossimo futuro -  c'è un'enorme richiesta di ingegneri in giro per il mondo e in Italia in particolare» assicura Riva. «Anche tenendo conto dell'attuale tendenza alla rilocalizzazione della produzione, è abbastanza improbabile che un'azienda sposti la propria testa pensante, ovvero i settori del management e della progettazione e controllo». «Sebbene dal punto di vista occupazionale la situazione della Sardegna sia abbastanza critica, i nostri laureati hanno buone possibilità di impiego anche sul territorio» conferma Carucci. Ferma restando la grande spendibilità di questo titolo di studio, per la prima volta dall'inizio della crisi economica, la categoria registra qualche segnale negativo: sempre in riferimento all'anno 2012, il centro studi del consiglio nazionale stima infatti un surplus di circa 16mila ingegneri in più rispetto alla richiesta delle imprese - la metà dei quali concentrati nelle regioni del Sud - che portano il tasso di disoccupazione della categoria al 4,4%. Ma anche in questo caso a pesare è soprattutto il percorso di studi intrapreso: com'era prevedibile, la crisi nel settore delle costruzioni ha penalizzato anzitutto gli ingegneri ad indirizzo civile ed ambientale, che in un solo anno perdono circa il 60% delle assunzioni. Al contrario, i profili meno coinvolti dalla contrazione occupazionale risultano quelli dell'ingegnere gestionale, biomedico e dell'automazione, richiesti specialmente dalle imprese del Mezzogiorno. Il fattore geografico è in effetti un aspetto da non sottovalutare sin dal momento della scelta dell'ateneo al quale iscriversi. Tradizionalmente le regioni italiane che assorbono il maggior numero di ingegneri sono il Lazio, dove nel 2012 sono stati assunti in 2.400 e soprattutto la Lombardia, regione leader in questo campo, con quasi 4.200 nuovi contratti. «Il successo della facoltà di Bergamo si deve anche e soprattutto al fatto che è inserita in una delle province più intensamente produttive d'Italia e d'Europa, che riesce ad assorbire tutte le tipologie di ingegneri: dai meccanici ai gestionali, ma anche gli informatici e gli edili. Diciamo che le imprese del territorio sono i nostri principali datori di lavoro», scherza Riva.Il mondo dell'impresa non è tuttavia il solo sbocco lavorativo per un laureato in ingegneria: «Esistono diverse possibilità di impiego anche nel settore pubblico. Un laureato proveniente da un corso di ingegneria dell'ambiente e del territorio può essere ad esempio una figura ambita per le regioni, sia per quanto riguarda le attività legate alla depurazione delle acque o alla gestione dei rifiuti, ma anche in relazione a problemi più specifici come quello della bonifica dei siti contaminati», spiega Carucci. «Senza dimenticare che per un ingegnere resta sempre aperta la strada della libera professione», un'opzione che secondo l'ultimo rapporto di Almalaurea interessa oggi circa l'8,5% degli ingegneri magistrali.Una volta scelto ed intrapreso l'indirizzo di studio, un'altra decisione importante per il futuro ingegnere riguarda senza dubbio la possibilità di continuare o meno nel percorso specialistico. Significativo è allora capire quali possibilità di impiego di aprono per chi decide di fermarsi dopo il triennio. «Anche nel caso dell'ingegnere junior direi che l'assorbimento da parte del mercato è pressoché totale, seppure in ruoli più strettamente operativi. Tanto nell'ambito dell'edilizia, ma anche nel settore della meccanica e dell'ingegneria gestionale, per lo più all'interno dell'area della produzione. Per quanto riguarda l'informatica i principali impieghi sono invece all'interno dei processi di controllo e dello sviluppo software. La differenza rispetto all'ingegnere magistrale riguarda semmai le prospettive di carriera e di crescita professionale», riflette Riva. Sta di fatto che i laureati di questo gruppo disciplinare - sempre secondo gli ultimi dati di Almalaurea - presentano un tasso di iscrizione alla specialistica pari a ben l'82% del totale, secondi solo agli studenti di psicologia. E veniamo ad un'ultima questione per niente secondaria nel momento in cui si decide di approcciare una facoltà - inutile nasconderselo - decisamente impegnativa, come dimostra anche l'età media - di 26,7 anni - rilevata da Almalurea al termine dei corsi specialistici e magistrali. Che basi occorrono dunque per affrontare più o meno brillantemente un corso di ingegneria? «Sicuramente la matematica e le scienze» rileva Carucci. «Purtroppo in questi ultimi anni stiamo vivendo un problema legato alle grosse carenze che gli studenti che arrivano dalla scuola superiore presentano in queste materie». Dedicarsi dunque con il massimo impegno alle materie scientifiche è un consiglio da tenere bene a mente, considerato anche il forte impatto che si rischia di avere iniziando a frequentare il primo anno di corso, dove si concentrano quelle materie di base comuni a tutti gli indirizzi - analisi matematica, fisica e geometria - dinanzi alle quali molte matricole rischiano di scoraggiarsi. Una recente indagine ha rivelato che per questo gruppo disciplinare gli abbandoni riguardano infatti circa il 18% degli studenti, concentrati per lo più tra il primo e il secondo anno di corso. Ma conviene stringere i denti, soprattutto pensando al futuro: «Per qualsiasi profilo di ingegnere è necessaria una solida preparazione di base, che è una premessa indispensabile per poter garantire una progressione delle conoscenze lungo tutti i quarant'anni di carriera», assicura Riva. «Una preparazione prettamente tecnologica e finalizzata alle tecnologie attuali, rischia di preparare il laureato ad affrontare sì le sfide di oggi, ma non necessariamente quelle di domani».Ilaria Costantini Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Ingegneria ma non solo: quali sono le lauree più utili per trovare lavoro?- Triplo fischio e vittoria: un eclettico ingegnere dallo stage al contratto in ALD Automotive- Laura, ingegnere chimico in Chemtex Italia