Categoria: Approfondimenti

Lavoro manuale, nei mestieri del passato c'è il futuro dei giovani italiani?

Secondo le ultime rilevazioni del "Rapporto Giovani" curato dall'Istituto Toniolo, oltre l’80% dei giovani italiani sarebbe oggi pronto a svolgere un lavoro di tipo manuale, e tre su quattro aspirerebbero a una attività in cui potere esprimere la propria creatività, anche indipendentemente dai percorsi formativi effettuati in precedenza. Sembra dunque che i giovani siano pronti a mettere la propria laurea nel cassetto e a riscoprire mestieri dimenticati: come quelli raccontati da Paola Caravà nel recente saggio Il lavoro manuale, sottotitolo «Orgoglio e pregiudizi», (Guerini e GiGroup), che racconta storie di successo di professionisti che per farcela hanno utilizzato soprattutto le mani. Quelle che hanno fatto grande il Made in Italy e a cui l'autrice, formatrice e coach da trent'anni, dedica il primo capitolo, a ricordarne l'importanza: «Siamo due sorelle imprenditrici e ci compensiamo perfettamente. Una più logica, razionale e orientata all’azione; l’altra più sensibile, fantasiosa e dotata di senso estetico» scrive descrivendo la destra e la sinistra. La mente, ironizza, «è il direttore generale della nostra azienda». L'autrice non istituisce una gerarchia tra tipologie di lavoro per cui è necessario l'utilizzo della manualità: che sia il cameriere di sala, o lo stilista di grido, o il macchinista del teatro («Come se le mani non si usassero anche per tenere una penna o per battere su una tastiera del computer!», si legge in un passaggio) la dignitosità non cambia. E così, in tono leggero e a tratti scherzoso, si riporta un'intervista a Rosita Missoni, moglie del leggendario Ottavio, scomparso di recente, e tuttora alla guida di un'azienda quasi di culto per il Made in Italy. Il loro fu soprattutto un grande amore: lei ancora studentessa lo conobbe a Londra alla fine degli anni Quaranta, dove lui si trovava per gareggiare alle Olimpiadi. Dopo il colpo di fulmine, il resto fu storia: «Ottavio lavorava la materia, i filati, il colore, le righe... orizzontali, verticali, diagonali, a zig zag. Così nascevano i tessuti, che poi Rosita traduceva nelle linee e nelle forme della moda» sintetizza Caravà. Ma non è solo di icone dell'industria italiana, soprattutto manufatturiera, che si parla nel libro. Il manuale raccoglie anche esperienze meno gloriose, ma esemplari perché di fatica, dedizione e successo. C'è per esempio il percorso di Ruben, un 28enne fiorentino che dal 2008 lavora al Teatro alla Scala di Milano come macchinista-costruttore. Il pratica oggi fa il falegname: ma era il suo sogno. «Mi cimentai nella costruzione di una pedana da danza, cioè una struttura composta da murali di legno, tavole edili gialle 50 per 2 metri, un tappeto di linoleum e le classiche aste da sala di danza con gli specchi. Fu un’esperienza bellissima» racconta dei suoi esordi, «una settimana immerso in Garfagnana a fare un lavoro che mi piaceva e ad ascoltare i racconti di maestri, come Saverio Cona, che avevano vissuto gli anni gloriosi del teatro (Settanta, Ottanta e Novanta)». Poi la selezione e l'accesso al teatro più prestigioso d'Italia, dove ogni giorno – dice – segue «il primo consiglio che mi hanno dato i colleghi più esperti di me: ruba il mestiere con gli occhi». Il rischio è che altrimenti la tradizione si perda di generazione in generazione. Affascinante è anche l'avventura di tre giovani designer fiorentini, trasformatisi per gioco in cappellai di lusso. Sono ancora all'università quando Ilaria e Veronica Cornacchini (32 e 29 anni) e Matteo Gioli (27) decidono per hobby di provare a creare cappelli che poi, sempre per gioco, presentano alla fiera Pitti. I loro modelli piacciono, il passatempo diventa un'azienda (la Super Duper), arrivano i compratori esteri (soprattutto giapponesi), oggi il 90% del loro fatturato. «Nessuno di noi ha intrapreso questa avventura per 'fare soldi', ma solo per passione» spiega Ilaria, ed è così che «a ogni stagione riusciamo ad ampliare il nostro parco clienti». Un ottimismo quasi stridente rispetto alla valle di lacrime in cui si ritrova oggi il lavoro intellettuale, sempre più svilito e sottopagato. «Io non faccio distinzione tra mestieri più o meno umili, ma sono convinta che qualsiasi mestiere se fatto bene abbia la stessa dignità: dal cameriere alla modista» chiarisce alla Repubblica degli Stagisti. Quello che «mi interessa è spostare l'attenzione sul fatto che il lavoro tecnico non deve essere percepito come seconda scelta, come alternativa per i 'falliti della conoscenza'», e il rimprovero va a una madre che vide anni piangere dopo un colloquio con un professore che le aveva sconsigliato studi liceali per il figlio. Anche Missoni, prima e anche dopo le luci della ribalta, «si è seduto al tavolo di lavoro e con le mani ha progettato tessuti». Il messaggio è insomma chiaro: reinserire il lavoro manuale nella mappa mentale dei ragazzi, con la stessa dignità di quello intellettuale. Non considerarlo un ripiego in attesa dell'occasione della vita. Restituirgli valore perché è lo stesso che ci ha consegnato il Made in Italy, quel marchio che oggi gli investitorio esteri si contendono: «Nessuno vuole venire a investire da noi, o aprire uno stabilimento qui, però se si tratta di accapparrarsi pezzi del Made in Italy fanno a gara» riflette Caravà. Forse ci voleva la crisi a metterci in guardia sull'assurdità di certi «pregiudizi». La colpa della scarsa fama di cui gode questo settore - nel libro viene riportato un sondaggio, che rileva come la manualità sia giudicata «non importante» dal 60% preso da un campione di figli 15-19enni e genitori 40-64enni - non è certo dei giovani, ma della cultura che è stata loro tramandata: «A monte c'è una scuola materna che punta tantissimo sulla manualità, ma poi progressivamente dalle elementari questo allenamento scompare» riflette la formatrice. E poi, «siamo stati noi, quelli della mia generazione, a dire 'studia e trovati un lavoro sicuro, magari in banca'» ammette. È giunto invece il momento guardare con occhi nuovi agli insegnamenti del passato, quelli del Novecento, pensando a cosa hanno significato per lo sviluppo del Paese. Sarà per questo che la Caravà dedica il libro al padre Pietro, tenente dell'esercito fatto prigioniero dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale e poi morto a causa degli stenti della prigionia. Il pensiero di quella storia è d'ispirazione a «guardarsi indietro e lasciarci alle spalle certi pregiudizi». Ilaria Mariotti 

Servizio civile tra le offerte di Garanzia giovani, non tutti sono d'accordo: «Non è lavoro»

Non si sa ancora con esattezza in che misura il Servizio civile entrerà a far parte della Garanzia giovani: per le associazioni che gravitano attorno a questo settore c'è infatti tempo fino a fine luglio per presentare progetti da inserire nel provvedimento governativo anti-disoccupazione e anti-Neet. Un coinvolgimento che è stato intensificato attraverso «una campagna di sensibilizzazione» spiega alla Repubblica degli Stagisti Enrico Borrelli [nella foto sotto], presidente del Forum nazionale per il servizio civile, chiarendo che è grazie alle richieste delle associazioni che il Servizio civile è stato ammesso nel programma. Quel che è certo è che il suo ruolo non sarà marginale. E questo non fosse altro perché finora di aziende interessate a offrire posti di lavoro ai giovani italiani se ne sono viste ben poche (le ultime rilevazioni parlano di 5mila offerte contro 100mila iscritti). Anche se in realtà sarebbe proprio un'offerta di impiego ciò che si aspetta chi si registra al programma attivato a maggio dal governo, più ancora che un percorso formativo - come il Servizio civile potrebbe essere interpretato, al pari del tirocinio (il Servizio civile prevede peraltro una indennità mensile di circa 430 euro, a fronte di un impegno indicativo di 30 ore settimanali). Si apre a questo punto un interrogativo, già emerso nei tanti dibattiti di approfondimento sulla Garanzia giovani: può il Servizio civile adempiere alle finalità di un provvedimento adottato, su input di Bruxelles, per arginare il fenomeno dei Neet? Bisogna dire che il servizio civile, così come strutturato, è una prerogativa tutta italiana e perlopiù sconosciuta agli altri Paesi «eccetto che Germania e Francia, che da noi qualcosa hanno importato in questo senso», come aggiunge Borrelli. Una tipologia di percorso estranea dunque, di conseguenza, alle varie Youth Guarantee attivate negli altri Paesi. Ma ha veramente senso, in Italia, includerla nella Garanzia Giovani, oppure si tratta di un "diversivo" in attesa che le aziende si facciano avanti? Anche tra gli addetti ai lavori qualche perplessità deve esserci stata dato che – sul sito dedicato al progetto – si specifica che «l'applicazione del Servizio civile nazionale al programma Garanzia giovani presenta delle specificità rispetto alla progettazione standard del Servizio civile nazionale» e che i progetti dovranno essere corredati da «un numero limitato di volontari (4-6)». Inoltre viene chiesto esplicitamente di «tenere presente che i progetti di Servizio civile nazionale si rivolgono principalmente a un target di giovani con bassa scolarizzazione fuori sia dai processi educativi di apprendimento che a quelli del mercato del lavoro». Quasi un monito alle associazioni ad avanzare proposte che assicurino un percorso di qualità. Il rischio è che sentirsi proporre un percorso di servizio civile, quando l'aspettativa era invece quella di una modalità più diretta di avvicinamento al mondo del lavoro, possa creare nei beneficiari della Garanzia Giovani delusione e scontento. Più in generale, il pericolo che l'intera Garanzia giovani - di cui il Servizio civile è solo un tassello - non raggiunga gli obiettivi sperati non è infatti così remoto. «Non si può spacciare per lavoro quella che è un'occasione di socializzazione» dichiara alla Repubblica degli Stagisti Claudio Treves, segretario di Nidil, il ramo della Cgil dedicato ai lavoratori atipici. «È importante come contatto dei giovani con ambienti che non sono scolastici ma non può diventare l'unica via» prosegue Treves, secondo cui è «probabile» il flop dell'iniziativa. Ma c'è di più: per il segretario «l'enfasi sul Servizio civile potrebbe servire proprio a mascherare» l'eventuale insuccesso del programma. «ll lavoro si crea solo agendo sulle condizioni economico-normative» aggiunge «e quindi allargando la base produttiva». Senza questi passaggi l'occupazione resta una chimera. Più sfumata la posizione di Monica Gregori, membro della commissione Lavoro alla Camera in quota Pd. «Garanzia Giovani non assicura un posto di lavoro, ma aiuta a avvicinarsi al mondo occupazionale» precisa: «Il Servizio civile dentro Garanzia giovani nasce come cinghia di trasmissione delle politiche attive del lavoro, e può essere anche un metodo per sbloccare lo stallo in cui versano i colloqui organizzati all'interno dei cpi». Meglio di niente, insomma. Gregori riconosce però che sarebbe necessario un «maggiore investimento su altre misure» come per esempio quelle a favore delle imprese, e aggiunge che «lo stesso Servizio civile avrebbe bisogno di essere riformato per intercettare altre politiche europee». Quanto al «rischio flop» avverte: «Si può evitare solo con un costante monitoraggio delle iscrizioni e delle imprese partecipanti, con l'attenzione tutta rivolta ai territori: l'importante per raggiungere buoni risultati è fare rete». Va detto comunque che Garanzia Giovani prevede anche offerte formative, non solo occupazionali, nell'arco dei famosi quattro mesi. E il Servizio civile è certamente una esperienza formativa. Proprio da questo aspetto parte Borrelli a difesa della presenza di questo sistema nel circuito: «È un'occasione di apprendimento non formale, garantisce acquisizione di competenze» ribadisce. La Garanzia Giovani deve in fin dei conti «rendere i giovani più occupabili, non va fraintesa come veicolo istantaneo di inserimento lavorativo». In tal senso il Servizio civile si sposa perfettamente con il programma, anche perché al suo interno la formazione non deve essere considerata come secondaria: «Se cominciamo con il dire che poiché non c'è lavoro allora è tutto inutile, a quel punto dovremmo sopprimere master, tirocini e quant'altro». Secondo Borrelli «il recupero dell'economia passa invece anche attraverso misure che implementano le competenze» dei giovani. Ergo, il Servizio civile si «qualifica come candidato ideale, preservando la sua diversità di strumento ispirato a una serie di valori come la solidarietà, la pace e la difesa della patria»: senza intenderlo come «politica per il lavoro», ma riconoscendo che potrà occupare per alcuni mesi alcune migliaia di giovani.L'inserimento del Servizio civile nel paniere di Garanzia giovani finisce anche per sanare una situazione drammatica: i posti per il servizio civile sono infatti crollati, negli ultimi anni, dai 45mila posti del 2005 e 2006 ai 15mila scarsi del 2013. Nel 2012 il bando per il servizio civile addirittura venne fatto saltare - e la Repubblica degli Stagisti fu la prima e praticamente l'unica a denunciarlo. Zitti zitti, gli ultimi governi hanno insomma "sabotato" il servizio civile: a parole riconoscendone l'importanza, ma dimenticando poi di reperire fondi per finanziarlo. Quando dunque è arrivata la Garanzia Giovani, con la sua dotazione di oltre 1 miliardo e mezzo di euro da utilizzare nel biennio 2014-2015, è stato quasi naturale pensare di utilizzarla per finanziare anche quelle migliaia di progetti di servizio civile rimasti "orfani" nel corso degli anni per mancanza di fondi, offrendo così una opportunità alle decine di migliaia di giovani a cui piacerebbe fare un percorso di questo tipo, ma che negli ultimi anni hanno visto il numero di possibilità di vedere accettata la propria candidatura assottigliarsi.Fermo restando, però, che il Servizio civile non è considerabile come una "occupazione": e non è forse quello che cerca chi si iscrive a Garanzia Giovani.Ilaria Mariotti 

Sconti e offerte, così le università telematiche provano ad attrarre nuovi iscritti

Un numero degli iscritti in diminuzione, come anche quello dei laureati, una classe docente troppo precaria e poca ricerca: questi i punti critici delle università telematiche individuati da una commissione di studio nominata dal Miur che qualche tempo fa aveva dato il via a un confronto molto acceso tra l’allora ministro dell’istruzione Carrozza e i rettori degli atenei. La Repubblica degli Stagisti se ne era occupata intervistando i diretti interessati e portando alla luce un dato molto discordante tra ministero e università: quello sul numero degli iscritti, secondo viale Trastevere molto più basso rispetto a quanto dichiarato dagli atenei. Se in giro per il mondo le università online stanno esplodendo, tanto ad esempio da far aumentare gli investimenti in questo settore in Nord America, l’Italia sembrerebbe andare invece contro corrente, almeno stando ai dati del ministero che mostrano in un grafico una caduta dei nuovi immatricolati presso le università telematiche: dagli oltre 6mila studenti del 2010 a poco più di 2mila nel 2012. Questi numeri potrebbero in parte spiegare le iniziative che negli ultimi mesi gli atenei online hanno messo in atto per attrarre il maggior numero di iscritti. Avere più studenti significa maggiori introiti e maggiore forza in caso di futuri controlli da parte del ministero. Così ecco che prima in fase di esami di maturità e dopo di ultime scelte per le iscrizioni molti atenei fanno la corsa a regalare iscrizioni, con veri e propri pacchetti omnicomprensivi. La prima è stata l’università Cusano, con sede a Roma, che ha addirittura istituito un click day il 15 maggio. In pratica in quella data a partire dalle ore 16 era possibile inviare le domande per l’accesso alla «borsa di studio per l’iscrizione a un corso di laurea con percorso plus». Così 600 maturandi di Roma o comuni limitrofi hanno potuto vincere altrettante borse di studio che coprono totalmente i costi per cinque anni. Inclusi nel pacchetto c’erano pure i corsi di lingua inglese e cinese, sempre per cinque anni. Le 600 borse erano suddivise in 175 per la facoltà di economia, altrettante per giurisprudenza, 150 per scienze politiche, 50 per ingegneria industriale e lo stesso numero per ingegneria civile. Per usufruire di una borsa di studio non contava la preparazione o il reddito familiare: l’importante era essere veloci nel cliccare. Considerato che l’iscrizione normalmente costa 2.400 euro l’anno, più la tassa regionale a cui si aggiungono anche le quote per i singoli corsi di lingua, l’università rinuncia quindi a minimo 12mila euro moltiplicati per 600 persone. Leggendo le faq sul click day si scopre che chi si iscrive deve rispettare alcune regole – come laurearsi in tempo e avere una media non inferiore a 24/30 - e osservare alcune attività specifiche: pena il mancato rinnovo della borsa. Tra queste c’è anche la collaborazione con l’ufficio stampa di Ateneo presso la redazione di Radio Manà Manà e quella di Tag24 per la scrittura «di testi e articoli finalizzati all’ottenimento del patentino da pubblicista». Tralasciando il fatto che ormai il mondo del lavoro già straborda di giornalisti in cerca di occupazione, non è chiarissimo perché ad esempio l’università offra questo servizio anche ai cinquanta destinatari del corso in Ingegneria industriale: un po' difficile rintracciare la correlazione con il mondo del giornalismo. L'UniCusano è in buona compagnia: anche molte altre università telematiche cercano attraverso bandi simili e convenzioni particolari di attrarre nuovi iscritti. La Mercatorum, università telematica delle Camere di commercio, ha all’attivo ancora un bando dal nome “Talenti Laureati” per offrire 150 borse di studio, di cui le prime 100 ai diplomati che si iscrivono al primo anno universitario e le altre 50 a chi si iscrive a una specialistica. Le borse di studio non sono una novità, anche le università "tradizionali" ne offrono agli studenti meritevoli, ma di solito vanno rinnovate di anno in anno, con bandi che si modificano e introducono nuove clausole. In questo caso, invece, l’offerta è totale: il bando, che scade a fine luglio specifica, infatti, che «La borsa prevede l’immatricolazione gratuita ai corsi di laurea dell’Ateneo per l’intera durata regolare del percorso di studio». Anche qui però ci sono delle clausole da rispettare: una media di 27/30 e almeno quattro esami superati il primo anno e quattro il secondo. In questo modo sarà possibile conservare la borsa di studio per tutta la durata del corso di laurea. Finite qui le agevolazioni? Non proprio. L’ateneo ha infatti pensato di venire incontro a 100 neo imprenditori che abbiano costituito un’impresa innovativa nel corso degli ultimi due anni. Proprio a loro è data la possibilità di non pagare i 6mila euro totali per i tre anni del corso di laurea ma di usufruire di una particolare agevolazione denominata “100 opportunità per 100 neo imprenditori” grazie alla quale pagheranno solo 2mila euro più la tassa regionale. Anche in questa università sono presenti poi numerose convenzioni: sconti che vanno dal 25 al 35% con enti pubblici, associazioni di categorie, enti camerali, imprese. E che permettono, quindi, un risparmio notevole: non solo a giovani diplomati, ma anche a chi un lavoro già ce l’ha e attraverso percorsi accademici "facilitati" desidera prendere una laurea e poter accedere a scatti di carriera altrimenti impossibili da raggiungere.Un esempio di questa particolare agevolazione arriva anche dall’università telematica internazionale Uninettuno, che offre agli appartenenti all’Arma dei carabinieri o congedati, e ai loro familiari diretti e conviventi, uno sconto del 20% sulla tassa annuale di 2mila euro per laurea triennale e 2.200 per quella magistrale, con la possibilità di sostenere gli esami finali anche all’estero. Stesso sconto anche per una nutrita categoria di associazioni e enti con l’estensione in alcuni casi, come per gli appartenenti alla Guardia di Finanza, anche ai familiari fino al 2° grado. Destinatari privilegiati dell’Unitelma Sapienza sono, invece, i dipendenti di Formez e Sapienza soci al 51%  dell’università telematica, che nell’anno 2013/2014 hanno pagato solo 800 euro per l’iscrizione a un corso di laurea (contro i 2mila standard). L’università ha pensato anche ai giovani con un progetto dedicato agli under 25 per l’anno accademico 2013/14 grazie al quale alcuni giovani hanno pagato la cifra scontata di 800 euro. Previste anche 200 iscrizioni gratuite per giovani tra i 19 e i 23 anni con genitori disoccupati o in cassa integrazione. L’università Giustino Fortunato ha, invece, stipulato un accordo con l’Agenzia delle Entrate della Regione Campania garantendo ai dipendenti uno sconto del 20% sulle tasse annuali (che al momento ammontano a 2.500 euro l’anno). Stesso sconto di cui possono usufruire anche i dipendenti della Banca di credito cooperativo irpina. L’università telematica Pegaso, che ha una retta annuale di 3mila euro, nell’anno 2013/2014 ha istituito 500 borse di studio a favore di disabili e residenti nelle isole minori o in zone disagiate del Paese, e ha a sua volta quasi 300 convenzioni all’attivo con enti di vario tipo, da associazioni a sindacati, comuni e ordini professionali, per i cui dipendenti o iscritti la retta scende a 1.700 euro. Convenzioni che vanno dal 10 fino al 20% di sconto previste anche dall’università E-Campus, che con costi che arrivano a superare i 26mila euro (questa è l’opzione più costosa, con tutor in presenza e due semestri con residenzialità) offre riduzioni dal 10 al 20% a ben 120 tra enti, associazioni e sindacati vari. Molto più contenuta, invece, la lista delle convenzioni dell’Università telematica Leonardo da Vinci, Unidav, che ha attivato solo nove accordi con soggetti cui applicare uno sconto sulla retta di 2mila euro l’anno. Le cifre mostrano come le università telematiche negli ultimi anni abbiano cercato, attraverso particolari sconti e molte borse di studio, di attirare nuovi iscritti, permettendo quindi anche a chi normalmente non avrebbe pensato di iscriversi all’università di riuscire a laurearsi. E andando contro corrente rispetto a molte università statali che - causa tagli ai fondi per il diritto allo studio - hanno invece dovuto ridurre proprio le borse di studio. Resta aperto il dibattito sulla qualità della preparazione offerta agli studenti delle università telematiche rispetto a quelli delle università convenzionali: la relazione dell’Anvur sollevava alcuni dubbi in proposito. Tanto che alcuni considerano questi atenei online dei "creditifici". Ma le università telematiche rispediscono al mittente le critiche e snocciolano dati per dimostrare il valore dei loro moduli formativi. Bisogna a questo punto attendere settembre: solo allora si potrà fare la conta degli immatricolati per l'anno accademico 2014/2015, e capire se le iniziative di attrazione e gli sconti sulla retta hanno avuto l'impatto auspicato, facendo incrementare il numero di iscritti rispetto all'anno scorso.Marianna Lepore

Stage senza compenso, la protesta monta anche negli Stati Uniti

Estate nel mondo del lavoro è anche sinonimo di stage: quelli che tanti giovani alle prese con università, master e corsi vari sono obbligati a frequentare e quelli che aziende, negozi, studi professionali offrono, talvolta per coprire i vuoti di organico causati dalle ferie. In Italia negli ultimi anni si è cercato in parte di regolamentare questa giungla, prevedendo discipline ad hoc per i tirocini extracurriculari: ma lasciando curiosamente fuori, nell'elenco di eccezioni, anche i tirocini estivi che dunque sono un "capitolo a parte", e non godono di quei piccoli ma importanti diritti - primo tra tutti, quello a ricevere un minimo di indennità - introdotti  a favore degli stage extracurriculari. Di strada dunque, come la Repubblica degli Stagisti documenta da anni, ce n’è ancora tanta da fare, ma il nostro Paese non è l’unico alle prese con gli stage gratuiti che rimpiazzano le nuove assunzioni o le sostituzioni estive. Succede anche negli Stati Uniti, dove questa pratica ha preso sempre più piede iniziando anche ad attirare l'attenzione dei media - specie dopo alcune sentenze storiche arrivate dai tribunali.Bisogna partire da un dato: secondo un’indagine condotta dalla National Association of Colleges and Employers nel 2012, solo il 37% degli stagisti non "ricompensati" ha ricevuto, alla fine dello stage, un’offerta di lavoro. Tale statistica conferma come accettare mesi di lavoro (anche se sarebbe più corretto dire "formazione on the job") non pagato possa in pochi casi portare a trovarne, in seguito, uno retribuito. Certo il dato del 37% può sembrare altissimo a un italiano, visto che nel nostro Paese solo il 9% di tutti gli stage attivati nelle imprese private - quindi non solo quelli senza compenso presi in considerazione in questa statistica americana - si trasforma poi in un'assunzione. Eppure, secondo InternMatch la prospettiva del 37% non basta a giustificare la marea di stage non pagati che sta dilagando: questa piattaforma online interamente dedicata agli stage denuncia che al maggio del 2013 oltre il 36% delle aziende continuava a offrire tirocini non retribuiti o pagati meno del salario minimo stabilito dalla legge. Arrivando alla conclusione che in tutti gli Stati Uniti ogni anno si attivano fino a un milione di stage non pagati. Dalla loro parte gli stagisti americani hanno anche una serie di sentenze – che in Italia invece su questo settore non sono mai arrivate – che hanno sanzionato grandi nomi come Donna Karan, Fox Searchlight, o Condé Nast. I giudici hanno stabilito che ai tirocinanti non pagati andasse invece corrisposto il salario minimo (poco al di sopra dei sette dollari l’ora) stabilito dal Fair labor standards act. Ma come, lo stage non è un lavoro eppure gli stagisti negli Usa hanno diritto al salario minimo che spetta ai lavoratori? Sì, è proprio così. In quella legge - risalente al 1938 - già si decideva che un tirocinio poteva non essere pagato soltanto se fatto in un “ambiente educativo”, quindi solo se strutturato non come un vero e proprio lavoro – oggi si direbbe una “learning on the job experience”. Insomma, un percorso formativo più assimilabile all’apprendimento e quindi al guardare quello che si fa nell’ufficio, o nel negozio, o nella fabbrica, ma senza mettere in pratica. La distinzione con il tempo si è fatta via via troppo poco specifica, tanto che in tempi recenti molti giovani che negli uffici, negli studi televisivi, nelle redazioni giornalistiche, partecipavano attivamente al lavoro di squadra, ma inquadrati come tirocinanti, hanno cominciato a fare causa contro i datori di lavoro per veder riconosciuto un compenso. Per affrontare questa situazione nel 2010, sotto l’amministrazione Obama, il Dipartimento del lavoro ha stabilito dei criteri per determinare nello specifico quando per un tirocinio può non essere previsto un compenso – sottintendendo ovviamente che in caso non si verifichino queste condizioni, invece, il soggetto ospitante non può esimersi dall'offrire allo stagista una indennità pari almeno al salario minimo.  Leggendo queste sei regole ci si accorge che non sono molto lontane dalle richieste avanzate negli anni anche dagli stagisti italiani. Secondo questo testo, il tirocinio “lecitamente gratuito” è simile alla formazione, deve essere cioè a totale beneficio dello stagista, il tirocinante non sostituisce i dipendenti e anzi lavora sotto la supervisione del personale, e il datore di lavoro non deve trarre alcun vantaggio immediato dal lavoro del tirocinante. A queste quattro regole ne seguono altre due che specificano la necessità di massima trasparenza a monte, che si concreta nel fatto che datore di lavoro e tirocinante sappiano entrambi fin dall'inizio che non ci sarà alcun compenso per il periodo dello stage e che lo stagista sia consapevole che non avrà automaticamente diritto a un posto di lavoro finito il tirocinio. Se quindi lo stage rispetta tutti e sei questi criteri contemporaneamente, e dunque in pratica non è lavoro né tanto meno sfruttamento ma è realmente solo formazione, allora lo stagista non ha più i requisiti per il minimo salariale.La forza della battaglia per i diritti degli stagisti a stelle e strisce viene anche in questo caso dall’aggregazione tra giovani alle prese con internship e traineeship. Sui blog studenteschi, infatti, vengono messi in risalto continuamente i motivi per cui è necessario rifiutare i tirocini non pagati: non essendo dei veri dipendenti non si può fare ricorso in caso di molestie sessuali o discriminazione razziale, i debiti degli studenti - che in America per pagare le tasse universitarie sono costretti spesso a fare dei mutui su stessi che ripagheranno una volta trovato un impiego - salgono senza alcuna certezza di un’occupazione e, circostanza a cui pochissime volte si pensa, se un’azienda non ha i mezzi per pagare uno stagista è molto difficile che possa permettersi di assumerlo alla fine. Se, infatti, poco meno di quattro stagisti su dieci senza rimborso riescono alla fine ad essere assunti (quasi al pari, 35%, di chi un tirocinio non l'ha proprio fatto), secondo dati del National Association of Colleges and Employers la cifra cambia sensibilmente quando si parla di tirocini che prevedono una congrua indennità in cui la percentuale sale al 60%. Svantaggiati da un sistema che in qualche modo pur cambiando non sembra voler modificarsi realmente, alcuni giovani americani hanno iniziato a combattere la pratica degli stage gratuiti nel settembre 2013 dando vita alla Fair Pay Campaign, una campagna per un’equa retribuzione, con lo slogan «Lottiamo per eliminare i tirocini non pagati», facendo leva sul fatto che «le opportunità dovrebbero essere date dal talento non dalla ricchezza. I tirocini fanno indebitare milioni di persone e moltissimi altri devono rinunciare ai propri sogni perché non possono permettersi di lavorare gratis». L'appello dei giovani militanti anti-stage gratuiti è semplice: «Seguiteci e combattiamo insieme per offrire un lavoro retribuito a tutti». Tra i fondatori c’era anche Christina Isnardi, studentessa alla New York University, che al terzo anno si è trovata a fare un tirocinio in una società cinematografica in cui faceva le stesse cose degli altri dipendenti, ma gratis. Così ha deciso di reagire e ha lanciato una petizione online in cui cita il Fair labor act e richiama la New York University a «cancellare gli annunci illegali di tirocini non retribuiti». In pochi giorni ha già raccolto centinaia di adesioni e l’università ha deciso di aumentare i controlli su questo tipo di annunci. A dimostrare come il problema sia entrato nel dibattito americano c’è, poi, il discorso che Hillary Clinton ha tenuto pochi mesi fa alla Ucla: parlando della disoccupazione giovanile, la Clinton ha puntato il dito contro le aziende che approfittano della giovane forza lavoro attraverso tirocini non retribuiti. Il fatto che a dirlo sia una possibile candidata alla Presidenza degli Stati Uniti – che peraltro alla Casa Bianca ha già vissuto otto anni in qualità di First Lady – potrebbe in parte consolare tutti gli stagisti che lì ci lavorano, e lo fanno gratis visto che il Fact sheet 71 che specifica quali stagisti devono ricevere il salario minimo come previsto dal Fair labor act, prevede un'eccezione per gli stagisti nel settore non profit e di governo che possono anche non essere pagati. In pratica non obbliga a non pagare i tirocinanti, ma rende lecito non farlo prevedendo che «alcuni individui possano donare il loro tempo liberamente e senza aspettarsi un pagamento». Una possibilità che viene sfruttata in pieno: per questo motivo i tirocinanti alla Casa Bianca hanno lanciato una petizione online con cui hanno raccolto più di 8mila adesioni e contano di arrivare a 10mila, per chiedere di pagare tutti i tirocinanti di quel palazzo. Qualcosa inizia a cambiare anche in un altro settore, come quello del giornalismo, dove il lavoro gratis è spesso un’abitudine. La Scuola di giornalismo della Medill Northwestern University per rispettare le regole del Dipartimento del lavoro ha scritto nel corso del 2013 alle varie testate in cui abitualmente mandava i suoi studenti per tre mesi l’anno a svolgere tirocini - ovviamente non pagati - per chiedere se sarebbero state disponibili a pagare i loro studenti. Così quindici testate hanno iniziato a pagare gli stagisti e altre diciotto hanno detto che lo avrebbero preso in considerazione. Un risultato che in altri tempi sarebbe stato improbabile, e che in Italia risulta addirittura – purtroppo – impensabile. Certo di strada ce n’è ancora tantissima da fare. Per questo ci sono gruppi come l’Intern labor rights, che si batte contro la pratica dei tirocini non pagati e grazie alla rete cerca di pubblicizzare i problemi e gli incontri periodicamente organizzati per discutere di questo problema. Con lo stesso obiettivo c’è anche il sito del Dipartimento del lavoro che mette a disposizione un numero a cui chiamare in caso si stia frequentando un tirocinio gratis se si ha il sospetto che invece andrebbe pagato. La strategia è, infatti, quella di affidarsi alle denunce degli stessi stagisti, ma come spesso capita in questi casi sono in pochi ad avere il coraggio di mettersi contro i propri superiori. Nei primi tre anni dall’approvazione delle linee guida infatti il Dipartimento è riuscito a citare solo undici aziende che non pagavano i propri tirocinanti. Salvo poi scoprire, con un’analisi più approfondita, almeno una cinquantina di stagisti non pagati, pur in assenza delle 6 regole, in tutto il territorio, dal Vermont al Texas. Chiaramente una goccia nel mare: verosimilmente bisognerebbe aggiungere a quel 50 qualche zero per arrivare al numero vero di stagisti ingiustamente privati del compenso minimo. Qualcuno suggerisce di aprire una qualsiasi pagina del sito Craigslist per riuscire a bloccare a priori gli annunci di stage gratuiti, invece di aspettare le denunce spontanee – postume – degli stagisti. Ma c’è da riconoscere che a piccoli passi qualcosa, in questo settore, sta iniziando a cambiare anche negli Stati Uniti.Marianna Lepore

Nubi sulla Garanzia giovani, mancano le aziende e le offerte di lavoro

A distanza di quasi due mesi dall'avvio del progetto Youth Guarantee italiano - simbolicamente partito il primo maggio, giorno della festa dei lavoratori - i risultati sono molto modesti e le speranze sulla riuscita iniziano ad assottigliarsi. Pochi gli iscritti totali finora (un po' meno di 90mila giovani a sette settimane dall'avvio), ma ancor più esiguo il numero di imprese, solo 90, che si sono rese disponibili a collaborare, assumendo giovani oppure ospitandoli in tirocinio. Fatti i conti, ciò significa che al momento esiste una possibilità di risposta solo per un misero uno per cento tra chi, tra i 15 e i 29 anni, si è registrato come inattivo. «Siamo a rischio boomerang» dice senza mezzi termini Gianfranco Simoncini, assessore al Lavoro della giunta della Toscana. L'occasione per fare il punto della situazione è un dibattito organizzato dall'associazione Civita nei giorni scorsi a Roma: «Aprire a grandi speranze e poi dare una risposta occupazionale a un uno o due per cento della platea degli iscritti sarebbe una grande sconfitta» incalza: «È un bene che si cerchi di recuperare il rapporto di fiducia tra i ragazzi e le istituzioni attraverso un sistema di servizi per il lavoro diversi e rinnovati rispetto al passato, ma c'è bisogno di un salto di qualità». Simoncini snocciola i numeri della sua regione, assicurando che da loro il percorso è partito: sono numerosi i giovani toscani che hanno sbrigato le prime formalità e altrettanti i «patti di attivazioni già stipulati». Che tradotto vuol dire però solo essere stati ricollocati in un limbo, in attesa che spuntino «contratti di tirocinio o servizio civile, gli unici pronti a partire entro breve». Ed è lo stesso assessore ad ammettere che, «per quanto positivo possa essere come arricchimento personale, il servizio civile, uno dei percorsi più gettonati della Garanzia Giovani, non è tuttavia vera occupazione». Gli fa eco un'operatrice di un centro per l'impiego che interviene dal pubblico: «Da noi si presentano ragazzi che magari arrivano da un'altra regione, che hanno sostenuto dei costi, anche comprando un biglietto aereo. E noi cosa possiamo offrire loro? Un corso di formazione? Un tirocinio a 400 euro nella migliore delle ipotesi?». Nel Lazio, ad esempio, sono stati fatti «accordi per inserimenti in apprendistato solo con Enel e Finmeccanica», ricorda Monica Gregori, deputata del Pd eletta nel Lazio. Al netto dei problemi organizzativi elencati dai relatori - Regioni che stentano a partire, sistemi informatici che non dialogano tra loro, incertezza sugli incentivi destinati alle aziende che contrattano - la vera questione è infatti che senza posti di lavoro concreti, e quindi aziende disposte a offrirli, la Garanzia Giovani si limiterebbe a una grande beffa. Perché è il lavoro che i ragazzi si aspettano, ed è quello che andrebbe creato attraverso una politica industriale. Invece, ammette Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro alla Camera a cui sono affidate le conclusioni dell'incontro, «non possiamo dire ai giovani coinvolti che nell'arco di qualche mese avranno accesso a un lavoro di qualità [la Garanzia Giovani 'garantisce' appunto un'offerta formativa o occupazionale entro quattro mesi dall'attivazione, ndr], perché non è così». In un momento in cui, peraltro, «le politiche per il lavoro non hanno più un baricentro, con le larghe intese c'è un po' di destra e un po' di sinistra, e si procede per tentativi». Damiano fa riferimento ai tre pilastri delle azioni per l'occupazione messe in campo dal governo Renzi: decreto Poletti, legge delega e Garanzia Giovani: «un triangolo» lo chiama il parlamentare, già ministro del Lavoro ai tempi del secondo governo Prodi, su cui pende un interrogativo: «Siamo sicuri che gli obiettivi dei tre non facciano a pugni tra loro?». «Con il decreto diventa più conveniente il lavoro a termine» spiega Damiano, prendendo le distanze: «Per me è il lavoro a tempo indeterminato quello da rendere più conveniente, con un violento sconto fiscale». E con la legge delega «dovremmo stabilire qual è il centro della nostra azione». E per il terzo pilastro, la Garanzia Giovani, si apre un altro punto critico del provvedimento che l'Europa ci ha commissionato: «Non ci sono paletti, criteri, che dicano quale siano gli standard di qualità da offrire: per esempio affermando che non si possano firmare contratti a tempo di meno di sei mesi, e con una retribuzione minima stabilita». E naturalmente i tre pilastri sono strettamente interconnessi: la legge delega, spiega ancora Damiano, sarà per esempio il punto di svolta anche sul piano dei centri per l'impiego, snodo fondamentale per tutti i disoccupati e per i potenziali fruitori della Youth Guarantee italiana. Che la riforma dei cpi sia essenziale lo dicono pure i numeri: in Italia c'è un operatore ogni 250 disoccupati, quando in Germania ce n'è uno ogni 22. Qualcosa, evidentemente, non funziona. Allora ci sono Regioni che scelgono di puntare su circuito degli enti accreditati, delegando al privato ciò che il pubblico non riesce a fare, anche in tema di Garanzia Giovani. Un sistema che però è ancora a macchia di leopardo, e che rischia di non soddisfare pienamente le aspettative dei giovani. «Se non ci sarà una rivalsa sociale» chiude Damiano, «è solo perché tra i beneficiari esiste frammentazione: non possono fare massa tra di loro». Fino a quando?Ilaria Mariotti 

Nuovo apprendistato a scuola, le opposte fazioni di sostenitori e detrattori

È arrivato subito dopo gli ultimi dati Istat sulla disoccupazione giovanile di inizio giugno, un 46% che pesa come un macigno, il decreto interministeriale per l'avvio di un programma sperimentale di apprendistato rivolto alle scuole superiori. Un periodo «on the job» come lo chiamano i fautori del provvedimento, che però non sembra piacere a tutti. Sostenitore del provvedimento è Enzo De Fusco [nella foto sotto], coordinatore scientifico della Fondazione consulenti del lavoro, talmente favorevole all'apprendistato nelle scuole da lanciare la proposta che il provvedimento si applichi non solo agli istituti tecnici ma anche ai licei: «Gli studenti del classico potrebbero essere impiegati in qualche giornale o azienda che faccia cultura» ipotizza. «E dirò di più: la misura renziana, invece che sperimentale, dovrebbe diventare sistematica e obbligatoria come avviene per gli infermieri e le scuole alberghiere, con esiti eccellenti». In realtà, sostiene lui, non è stato inventato nulla di nuovo: «Questo modello era già stato inserito nella legge Biagi del 2003, ma si era incagliato sul coinvolgimento delle regioni, organismi incaricati di redigere il piano formativo e le convenzioni». Insomma la norma c'era, ma come spesso accade a mancare erano i decreti attuativi. L'esecutivo attuale ha dunque solo riesumato un sistema di «alternanza scuola lavoro preesistente, aggiungendo un elemento sostanziale: il paletto delle ore che possono essere dedicate alle due attività, cosa mai avvenuta prima». Ed è proprio sul 35% di ore sottratte allo studio per dedicarle al lavoro che si è scatenata la polemica. «Per l'interazione tra apprendimento in aula ed esperienza di lavoro si potranno utilizzare fino al 35% dell'orario annuale delle lezioni» è scritto sul comunicato diramato all'indomani del decreto. «Per gli istituti tecnici e professionali si tratta, ad esempio, di un massimo di 369 ore su 1.056, ovvero di margini di autonomia nettamente superiori rispetto a quelli di cui le istituzioni scolastiche dispongono solitamente per organizzare la propria offerta formativa», puntualizzano dal ministero. Secondo De Fusco tutto dipende dalla scarsa propensione degli insegnanti a un sistema così strutturato: «La verità è che togliere ore di aula significa ridurre cattedre ai professori. Se esento uno studente per il 35% delle ore mettendolo nelle aziende, c'è qualcuno che nel frattempo nelle scuole si gira i pollici». Eppure un apprendistato di questo tipo «è uno strumento che consente all'azienda di allevarsi i suoi dipendenti già dal mondo scolastico e universitario», ricetta sicura contro la disoccupazione. «Come si fanno tre ore di inglese, così andrebbero trascorse delle ore in azienda» ragiona De Fusco. E il diritto allo studio non ne viene intaccato? «Il punto non è questo. Tutto sta nel realizzare un sistema coerente di alternanza scuola-lavoro in modo che ogni azienda vada a prendersi i soggetti di cui ha bisogno. Le aziende devono diventare lo sfogo naturale della scuola». Opposta la visione degli studenti. Danilo Lampis [nella foto in basso], coordinatore nazionale del principale sindacato studentesco italiano, l'Unione degli studenti, si scaglia contro quasi tutti gli aspetti del decreto: «È un'operazione populistica, fatta ad appena due giorni dalle ultime, allarmanti rilevazioni Istat sulla disoccupazione giovanile, e su cui noi – che facciamo parte dei tavoli ministeriali su questi temi – non siamo stati minimamente interpellati». Lampis si dice contrario anche alla filosofia dietro questo tipo di riforma, frutto delle ultime linee di indirizzo dettate dall'Europa per avvicinare il mercato del lavoro e quello delle scuole, a cui l'esecutivo si starebbe semplicemente adeguando: «L'idea è che per risolvere la disoccupazione ci si debba conformare alle esigenze delle imprese, appiattendo la didattica ai loro dettami». E inoltre «questo intervento sull'apprendistato punta a coprire un vuoto legislativo perché di fatto alcune aziende già si comportano così: è il caso di Enel, che sta sottoscrivendo accordi sul territorio per inserire apprendisti al suo interno, con un progetto sperimentale di alternanza scuola-lavoro». E che c'è di male? «Noi non siamo contrari dal punto di vista ideologico a questa visione alla tedesca (il riferimento è al modello duale, ndr)». Il problema, dice Lampis alla Repubblica degli Stagisti, è che ci sarebbe bisogno di altro: «di investimenti per un miglioramento della didattica e della formazione per esempio, quando il decreto non specifica neppure criteri esatti per la selezione delle aziende e sulla qualifica del tutor che interverrà nel percorso» denuncia. Poche garanzie in sostanza, e in effetti al punto 3 del decreto, dedicato alla tipologia dell'azienda, si parla solo di una generica «affidabilità economica e finanziaria» e di «capacità di accogliere gli apprendisti». Lo stesso per i tutor, al punto 8, per i quali è prevista solamente la modalità di selezione e nulla di più. «È un attacco alla società della conoscenza» prosegue il coordinatore dell'Uds: «Così si lede il diritto allo studio per cui un soggetto non dovrebbe mai essere immesso nel mercato del lavoro al di sotto dei 17 anni e si risponde alle esigenze di un mercato che chiede competenze sempre più basse». Con buona pace degli obiettivi della strategia di Lisbona, «che auspica più laureati per un Paese, come l'Italia, ancora ben al di sotto della media europea». La soluzione, rilancia Lampis, «potrebbe essere quella di incrementare le ore di scuola: con questa riforma si sopprimono fino a 60 giorni di aula, che potrebbero invece essere reintegrati riformulando l'orario scolastico». Ilaria Mariotti

Apprendistato sui banchi di scuola, promosso con qualche riserva

All'inizio di giugno il ministero dell’Istruzione, insieme a quello del Lavoro e dell’Economia, ha emanato un decreto che ha come oggetto «l’avvio di un programma sperimentale per lo svolgimento di un periodo di formazione in azienda, per il triennio 2014-2016, rivolto agli studenti del quarto e quinto anno delle scuole secondarie di secondo grado». Obiettivo la «realizzazione di percorsi di istruzione e formazione che consentano allo studente di conseguire un diploma di istruzione secondaria superiore e contestualmente, attraverso l’apprendistato, di inserirsi in un contesto aziendale di lavoro». Soggetti coinvolti studenti e scuole e imprese pubbliche e private in possesso di una serie di requisiti descritti dal documento. Tra questi affidabilità economica e finanziaria, esperienza nella formazione di apprendisti e certificazione di qualità dei processi aziendali.  Il percorso formativo prevede l’alternanza di periodi in aula e apprendimento sul posto di lavoro, fino a un massimo del 35% dell’orario annuale delle lezioni. Le ore impiegate lavorando concorreranno alla determinazione del credito formativo necessario ai fini dell’ammissione all’esame di maturità. Ogni studente avrà un piano formativo personalizzato e sarà affiancato da un tutor scolastico, individuato tra i docenti del consiglio di istituto, e un tutor aziendale, designato dall’azienda. Saranno le stesse aziende a farsi carico, secondo il decreto, degli oneri legati al programma di apprendistato. Obiettivo principale del provvedimento mettere i giovani in condizioni di affrontare il mondo del lavoro già nel corso delle scuole superiori attraverso un’esperienza «sul campo». Quella di affiancare scuola e formazione pratica per il mondo del lavoro è un’abitudine già radicata in altri paesi europei. In Francia e Germania, ad esempio, l’apprendistato è indirizzato soprattutto a giovani a partire dai 15-16 anni (età in cui generalmente si conclude la scuola considerata dell’obbligo) ed è considerato parte integrante del percorso di istruzione e formazione professionale successivi. In Gran Bretagna nel 2004 sono stati lanciati l’Apprendistato Giovani (Young Apprenticeship), che consente a ragazzi tra i 14 e i 16 anni di affiancare al percorso scolastico un’esperienza di lavoro finalizzata al conseguimento di una qualifica professionale, e il Pre-Apprendistato, che prepara i giovani di età compresa tra i 16 e i 18 anni all’ingresso nel mondo del lavoro. Oltremanica la scuola è obbligatoria fino ai 16 anni, mentre dai 16 anni in poi si può scegliere di iscriversi alla Tertiary Education, necessaria per l’iscrizione all’università. In Italia invece si tratta di una vera e propria  novità: se l’apprendistato per la qualifica professionale si rivolge ai giovani dai 15 anni in poi, le altre due tipologie, professionalizzante e di alta formazione, sono indirizzate a ragazzi di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Nel primo caso però si parla unicamente di attività di formazione professionale sul campo e non di affiancamento scuola-lavoro. Per comprendere meglio la portata del nuovo progetto, La Repubblica degli Stagisti ha parlato con Michele Tiraboschi, giuslavorista e docente dell’università di Modena. Tiraboschi ha evidenziato i meriti ma anche i limiti del decreto: «ogni apertura che consente la collaborazione tra mondo della scuola e del lavoro non può che essere giudicata favorevolmente, visti i pregiudizi sulla formazione e l’apprendimento in ambiente di lavoro che ancora circolano in abbondanza nel nostro Paese. Certo, non si esce dalla logica della sperimentazione, mentre i dati occupazionali dei giovani potevano spingere a scelte più organiche in linea con quanto fanno da tempo altri paesi come Germania, Austria e Olanda che non a caso segnano risultati eccezionali sul tema dell’occupazione giovanile». Insomma se da un lato si tratta di una mossa senza dubbio innovativa, anche se per ora solo sperimentale, dall’altro l’Italia sta cercando semplicemente di mettersi alla pari di altri paesi esteri, che da tempo adottano con successo formule simili. Un altro punto critico riguarda il tema delle eventuali garanzie di occupabilità per i giovani che effettuano l’apprendistato: «La sperimentazione, prevedendo l’utilizzo del contratto di apprendistato, consente ai ragazzi di essere contemporaneamente studenti e lavoratori. Secondo quanto previsto dal Testo Unico del 2011 l’azienda e l’apprendista potranno decidere se proseguire il rapporto di lavoro o meno. È difficile stabilire a priori cosa accadrà anche perché la congiuntura economica attuale non permette di fare previsioni a lungo termine. Tuttavia la formazione on the job e il contatto con il mondo del lavoro accresceranno di certo l’occupabilità del giovane, offrendogli maggiori possibilità di collocarsi al suo interno».E la retribuzione? Nel decreto non è presente alcun accenno, ma Tiraboschi chiarisce che «trattandosi di un normale contratto di apprendistato la meteria è gia regolata dalla legge e della contrattazione collettiva. Il trattamento retributivo dell'apprendista corrisponde di regola a una percentuale che aumenta nel corso del tempo, ovvero un sottoinquadramento fino a due livelli rispetto alla retribuzione di destinazione. Parliamo in ogni caso di cifre tre-quattro volte superiori a quelle di uno stage, con una parte di contributi previdenziali».Il provvedimento dà però in ogni caso l’impressione che si potesse fare di più: «Si poteva avere più coraggio intervenendo direttamente sul Testo Unico e consentendo all’apprendistato scolastico di decollare in tutti gli istituti superiori. Inoltre, perché possibilità di questo genere siano davvero utilizzate è necessario comporre delle vere e proprie task force di esperti del sindacato e delle imprese che assistano giovani, datori di lavoro e scuole nella costruzione dei percorsi» chiude Tiraboschi. Così come accade per tutte le sperimentazioni, bisognerà attendere prima di verificarne l’effettiva portata e soprattutto l’effettivo ritorno in termini di maggiore occupazione giovanile. Al momento il nostro Paese ha solo fatto un passo in più verso l’Europa: se questo apprendistato a scuola "all'italiana" funzionerà o no, lo si potrà dire solo tra qualche anno.Chiara Del PrioreLa foto è di Northen Ireland Executive in modalità Creative Commons

Garanzia Giovani, il mistero del tariffario che nessuno può vedere

Il governo Renzi ha fatto della trasparenza uno dei suoi cavalli di battaglia. Ma, almeno per quanto riguarda il piano Garanzia Giovani, la promessa non sembra completamente mantenuta. Sono due gli aspetti – entrambi essenziali – su cui le informazioni, se non del tutto assenti, sono frammentarie e confuse. Prima di tutto, il tariffario della Youth Guarantee italiana. Un documento importantissimo, perché è in base a questa griglia che viene stabilita l'indennità che i soggetti presi in carico percepiranno (per esempio in caso di stage). E sempre in questo tariffario sono indicati i corrispettivi che verranno erogati agli enti che svolgono la funzione di intermediari nel processo di inserimento – occupazionale o formativo – del giovane, i bonus per le aziende, gli emolumenti per chi fornirà servizi di orientamento o formazione, o lezioni di autoimprenditorialità, insomma tutte le opzioni previste dal programma. Il primo accenno all'esistenza di un tariffario era stato fatto proprio dal ministero del Lavoro Giuliano Poletti, che in un'intervista al Corriere della Sera dello scorso 27 aprile aveva dichiarato alla giornalista Rita Querzè che «un tariffario è stato appena definito dal ministero del Lavoro e sarà uguale in tutte le Regioni» con un «listino prezzi molto articolato perché varia a seconda della 'piazzabilità'». Tanto che il Corriere aveva corredato l'intervista con un boxino che conteneva alcune cifre, ciascuna abbinata a una prestazione. Uno scooppone, insomma.Vale la pena ricordare che in ballo ci sono fondi molto cospicui, quasi tutti di provenienza europea, per un totale di oltre 1,5 miliardi di euro. Un bel tesoretto. La Repubblica degli Stagisti decide dunque di rivolgersi al ministero chiedendo di poter ricevere e visionare il documento ufficiale alla base del cosiddetto tariffario. Quantomeno per verificare le informazioni riportate sul Corsera, che parlano ad esempio di rimborsi di 500 euro al mese per gli stagisti inseriti nel programma Garanzia Giovani, di importi tra i 600 e i 1200 euro per le agenzie che riusciranno a ottenere per i loro "assistiti" contratti a tempo determinato, e dai 1500 ai 3mila euro per quelle meritevoli di aver fatto sottoscrivere un indeterminato.  A fine aprile dunque partono i tentativi, con mail e telefonate al ministero. Il primo a rispondere è Salvatore Pirrone, direttore generale alle politiche attive per il lavoro, che conferma l'esistenza del tariffario: «In effetti abbiamo concordato con le regioni lo schema di azione, sulla base di nove misure, ciascuna accompagnata da una descrizione e da vincoli di rendicontazione» riferisce alla Repubblica degli Stagisti. «La documentazione però è corposa e complessa, onde stiamo predisponendo una 'vulgata' per la comunicazione degli elementi essenziali. La manderò appena pronta», promette. Siamo al 10 maggio. Seguono altre mail e telefonate, ma dopo oltre un mese nessun file è mai arrivato. Stessa sorte con la segreteria tecnica del dicastero, diretta da Bruno Busacca, che alla Repubblica degli Stagisti sempre intorno alla metà di maggio ribadisce: «Il tariffario esiste, per questo Poletti ne ha parlato nell'intervista al Corsera: ma si tratta di documentazione al momento 'riservata'». Assicurando ancora una volta che il tariffario verrà messo a disposizione non appena possibile, e in tempo brevi. Ma per ora di quel tariffario non c'è nessuna traccia: non solo non è stato inviato alla redazione della Repubblica degli Stagisti, malgrado le assicurazioni degli alti dirigenti, ma non è nemmeno stato pubblicato sul sito. Tutto questo nonostante le interviste e le recenti pubbliche dichiarazioni di Poletti, spesso incentrate proprio sulla necessità di rendere trasparenti tutti i meccanismi di funzionamento della Garanzia Giovani. E nonostante nello spot del programma si dica che la «Garanzia Giovani offre alle aziende bonus economici per le nuove assunzioni e incentivi per tirocinio e apprendistato». Sì, ma a quanto ammontano? Mistero. Si sa solo (grazie all'opuscolo che il ministero ha veicolato allegandolo a un numero del quotidiano Il Sole 24 Ore) che «i datori di lavoro che, con l'intermediazione dei servizi per il lavoro, occuperanno giovani fino a 29 anni, avranno diritto a un bonus non cumulabile. Il riconoscimento spetta per la stipula di contratti a tempo determinato o somministrazione (tra 6 e 12 mesi o superiori ai 12 mesi), e a tempo indeterminato, ed è diversificato per tipologia contrattuale, profilo del giovane e differenze territoriali. Non spetta in caso di apprendistato, per il quale è già previsto un incentivo specifico». Nella pagina seguente dell'opuscolo una tabellina spiega che il "profiling del giovane" prevede che a ciascun fruitore di Garanzia Giovani venga attribuito un indice di svantaggio. Quattro le categorie: basso, medio, alto e molto alto. Per il contratto a tempo indeterminato l'incentivo all'assunzione che percepiranno le aziende sarà di 1.500 euro per un profilo basso, 3mila per un profilo medio, 4.500 per un profilo alto e 6mila per un profilo molto alto. Per i contratti temporanei invece le aziende non percepiranno nulla in caso di assunzione di persone con indice di svantaggio basso o medio; in caso di contratto a tempo determinato o di somministrazione di durata compresa tra 6 e 11 mesi percepiranno 1.500 euro per i profili con indice di svantaggio alto e 2mila euro per quelli con indice molto alto; mentre in caso di contratti a tempo determinato o di somministrazione dai 12 mesi in su, prenderanno 3mila euro per ogni contratto a un profilo alto e 4mila euro per profilo molto alto. Nessuna informazione, in questo opuscolo, sui bonus previsti per chi svolgerà l'attività di intermediazione. Le criticità sulla trasparenza della gestione del piano Garanzia Giovani riguardano anche le informazioni disponibili sul sito del ministero. Incredibilmente, manca ancora il nuovo Piano di attuazione italiano della Garanzia per i Giovani, che il governo Renzi ha inviato a Bruxelles poche settimane dopo il suo insediamento al fine di comunicare e far approvare le modifiche apportate rispetto al piano (già vidimato dalla Commissione Ue) del governo Letta. Perché questo documento non è ancora pubblico?Inoltre, da qualche tempo c'è una pagina dedicata al monitoraggio settimanale del progetto: il primo report risale all'8 maggio. Settimana dopo settimana viene fornito un aggiornamento relativamente a quanti giovani hanno aderito (erano quasi 83mila al 12 giugno), con dati sull'età, la provenienza geografica e il genere, e specificando se la richiesta di accesso al sistema Garanzia Giovani è avvenuta tramite il portale nazionale o quello regionale. Un sistema apparentemente impeccabile, che però forse soffre di qualche deficit di programmazione dato che appena qualche giorno fa è andato in panne: non si riuscivano più a scaricare i report settimanali. Fortunatamente il problema adesso sembrerebbe risolto. Ma il monitoraggio ha una pecca ben più importante: dice poco sugli esiti del piano. Sarebbe fondamentale capire infatti cosa si sta facendo di questi 83mila ragazzi già iscritti al programma: qualcuno di loro è già stato preso in carico, a più di un mese e mezzo dall'avvio della fase di iscrizioni? Ci sono Regioni già operative, qualcuna ha già cominciato la fase di contatto con gli aspiranti fruitori del servizio? La Garanzia Giovani – per sua stessa definizione – deve garantire un'offerta di lavoro o formativa entro quattro mesi dalla richiesta dei potenziali beneficiari. Si dia tempo al tempo dunque, dirà qualcuno: in fin dei conti è passato solamente un mese e mezzo. Ma visti i numeri sulla disoccupazione giovanile, bisognerebbe mettere il turbo sia sulla trasparenza sia sulle prestazioni. Ilaria Mariotti 

Dalla valigia di cartone al trolley, l’emigrazione italiana è cambiata: ora deve cambiare l’Aire

C’era una volta in cui gli italiani partivano per terre lontane, alla ricerca di qualsiasi tipo di lavoro per «campare». Oggi gran parte dei nostri connazionali lascia l’Italia con una o più lauree in tasca per fare formazione all’estero o trovare un’occupazione all’altezza dei propri titoli di studio.Un ritratto a quanto pare confermato dai numeri. Qualche settimana fa l’Aire, l'Anagrafe italiani residenti all’estero, ha diffuso i dati relativi ai trasferimenti dei nostri connazionali oltreconfine, individuando per il 2013 circa 94mila espatri, con un +19% rispetto all’anno precedente. Protagonisti soprattutto giovani e adulti fino ai 40 anni. Solo per la fascia d’età 20-40 la percentuale sfiora infatti il 30% in più in rapporto al 2012. Sono 45mila i connazionali di questa fascia che si sono spostati all’estero lo scorso anno, circa il 48% del totale, equamente suddivisi tra quelli di età compresa tra i 30 e i 40 anni e quelli tra i 20 e i 30.Questa «nuova» emigrazione sembra però paradossalmente sfuggire proprio all’Aire, che da più di un ventennio rappresenta l’anagrafe ufficiale dei connazionali all’estero. Istituita con la legge 470 del 27 ottobre 1988, l’Anagrafe fa capo al ministero dell’Interno; censisce e raccoglie i dati relativi ai cittadini italiani che spostano la propria residenza fuori dai confini nazionali. Sono obbligati a iscriversi all’Aire i cittadini italiani che modificano la propria residenza per un periodo superiore ai 12 mesi; i cittadini italiani nati all’estero e da sempre residenti fuori dall’Italia e infine tutti coloro che acquisiscono la cittadinanza italiana all’estero. È lo stesso cittadino a richiedere gratuitamente l’iscrizione all’ufficio consolare di competenza entro 90 giorni dallo spostamento della residenza e a comunicare eventuali successive modifiche dei dati rilasciati al momento dell’iscrizione (ad esempio trasferimento di residenza, modifica dello stato civile, rientro definitivo in Italia). Essere iscritto all’Aire comporta la possibilità di usufruire di una serie di servizi: ottenere il rilascio o rinnovo di documenti di identità e certificazioni, ad esempio. E, non ultimo, consente di godere di una serie di diritti, come quello di voto, esercitato per corrispondenza. Il problema però è che l’Aire esclude dall’obbligo di iscrizione una serie di soggetti. Nello specifico: i lavoratori stagionali; i dipendenti di ruolo dello Stato in servizio all’estero e i militari italiani in servizio presso uffici e strutture Nato dislocati all’estero e soprattutto le persone che si recano all’estero per un periodo di tempo inferiore a un anno. Ad esempio uno studente italiano che va a fare un Erasmus non è tenuto a iscriversi, in quanto le esperienze all’estero durano non più di 12 mesi, così come un giovane che va a fare una esperienza all'estero ma che nella maggior parte dei casi non sa per quanto tempo resterà fuori. Sono numerosi poi i giovani che partono per esperienze di stage, ad esempio presso istituzioni UE, della durata media di cinque-sei mesi.Ovviamente non è facile stabilire quanti connazionali prolungano la permanenza e si iscrivono all'Aire. Fatto sta che oggi esso è un ente non rappresentativo della totalità degli italiani presenti oltreconfine. La prova è abbastanza lampante: secondo i dati 2012 di circa 4milioni e 200mila iscritti totali all’Aire, più di un milione e 600mila ha più di 50 anni e oltre il 37% del totale è iscritto da più di 15 anni e quindi si è spostato ormai da tempo. Maria Chiara Prodi, bolognese a Parigi, tra le fondatrici di ExBo, rete virtuale dei bolognesi nel mondo, analizza da tempo le dinamiche della «nuova» emigrazione: «I disagi per un cittadino in mobilità non iscritto all'Aire non sono pochi. Oltre alla precarietà e all'incertezza della permanenza, mi soffermerei anche sul tema sanitario. Una delle ragioni principali per cui i nuovi emigranti italiani non si iscrivono all'Aire è per non perdere il medico di base in Italia. Non sapendo quanto durerà un contratto, oppure lavorando stabilmente su due paesi, preferiscono restare in una situazione irregolare dal punto di vista burocratico, ma più funzionale nella vita di tutti i giorni». Aprire un dibattito sull’attuale ruolo dell’Aire attualmente sembra quasi doveroso.  Un’esigenza condivisa anche da alcuni membri delle istituzioni: «Dinamiche e meccanismi dell’emigrazione sono cambiati: chi va all’estero per lavoro o studio parte col trolley, non con la valigia di cartone. In un contesto simile le norme che regolano l’iscrizione all’Aire sembrano poco al passo con i tempi e credo che vadano aggiornate. Se decidiamo che gli italians sono una risorsa non solo a livello elettorale, dobbiamo rendere utile questo strumento non solo a chi risiede all’estero per un anno. Non dobbiamo concepire l’Aire solo come un albo generatore di diritti», spiega Pierpaolo Vargiu, presidente della commissione Affari Sociali alla Camera. Come fare allora? Secondo il deputato di Scelta Civica «una soluzione potrebbe essere la creazione di un elenco speciale per chi si trova temporaneamente in un altro Paese, così da equiparare tali soggetti ai residenti all’estero». Una proposta avanzata lo scorso marzo dallo stesso Vargiu e sfociata in un emendamento che chiedeva il diritto di voto per corrispondenza ai cittadini in mobilità. L’emendamento bocciato alla Camera è solo l’apice di un dibattito sul voto ai cittadini in mobilità non inclusi nelle liste Aire aperto da tempo. Per le imminenti elezioni europee è stato intanto permesso ai cittadini temporaneamente all'estero per motivi di studio o di lavoro per un periodo di tempo inferiore ai 12 mesi di votare presso le sedi elettorali istituite dall'ambasciata o dal consolato di riferimento dopo la presentazione di un'apposita domanda al consolato, che però andava inoltrata entro il 6 marzo scorso.Si tratta di una soluzione solo provvisoria, che non risolve in via definitiva un problema ormai aperto. All’inizio del 2013 erano stati gli studenti Erasmus a riportare l’attenzione sul tema attraverso una protesta partita dal web e approdata a Palazzo Chigi, ma che si è poi conclusa con un nulla di fatto. Attualmente un decreto (decreto legge 223 del 18 dicembre 2012) consente l’esercizio del voto per corrispondenza anche a un’altra serie di soggetti, tra cui professori e ricercatori universitari all’estero da un minimo di sei mesi e non superiore a 12 o appartenenti alle forze armate o alla pubblica amministrazione, temporaneamente all’estero per motivi di servizio, per una durata superiore a tre mesi e inferiore a un anno. Lasciando però fuori tanti altri. Al momento, spiega Vargiu, «il governo ha preso tempo per studiare una misura migliore» rispetto alla proposta di due mesi fa. Sarebbe anche opportuno che iniziasse a prendere seriamente in esame anche una revisione della legge che renda l’Aire uno strumento in grado di essere uno specchio della realtà effettiva, tutelando maggiormente i diritti di tutti i nuovi «emigranti».Chiara Del Priore

Garanzia Giovani, il ministro Poletti promette: massima trasparenza

Un incontro che ha dimostrato la grande aspettativa che c'è verso l'iniziativa Garanzia Giovani, sia da parte della politica sia sopratutto da parte dei diretti interessati, i giovani: l'evento di lancio dello schema Garanzia Giovani, promosso dal Forum Nazionale dei Giovani e dall'Intergruppo parlamentare under 35 la settimana scorsa nell'innovativo centro per l'impiego Porta Futuro a Roma, è stato molto partecipato. La mattinata ha visto la partecipazione del presidente della Camera Laura Boldrini e del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti; il protagonista è stato certamente il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, chiamato a dare conto dei primi passi della Garanzia Giovani e a rispondere alle istanze delle tante associazioni di giovani intervenute all'evento.Dal dibattito è emersa la consapevolezza che questa iniziativa è una scommessa che bisogna per forza vincere. L'hanno confermato tutti, da Laura Boldrini a Nicola Zingaretti, dalla parlamentare Anna Ascani al portavoce del Forum Giuseppe Failla: i giovani devono essere messi al centro dell'azione politica. Non è più tollerabile che restino ai margini del mercato del lavoro. E attraverso questa Garanzia Giovani, una iniziativa di matrice europea, si deve tracciare una strategia italiana ed europea per il rilancio dell'occupazione giovanile.Due le cose più importanti dette dal ministro Poletti. La prima, che ci sarà massima trasparenza sullo stato di avanzamento della Garanzia: il ministero si è impegnato a pubblicare ogni settimana un report con gli aggiornamenti in tempo reale delle azioni realizzate, ammettendo che solo così si permette all'opinione pubblica di giudicare l'operato del ministero, ma sopratutto di aggiustare il tiro in itinere.E infatti venerdì scorso l'ufficio stampa del Ministero ha diramato il secondo report settimanale, dando notizia che a due settimane dall’avvio del programma (per ora siamo nella fase delle autocandidature, che devono essere effettuate attraverso il sito Garanziagiovani.gov.it o i portali regionali) sono quasi 46mila i giovani che hanno fatto richiesta di essere inseriti nel programma Garanzia Giovani, per un 54% uomini e 46% donne. Il dato più interessante è quello anagrafico, perché ben la metà delle candidature (il 49%) arriva da persone di età compresa tra i 25 e 29 anni. Una fascia di età che per ora è esclusa dal perimetro di azione della Garanzia (che si occupa solo dei 15-24enni senza lavoro), ma che potrebbe essere oggetto nei prossimi mesi di azioni ad hoc, come sottolineato in più occasioni da Poletti. Un altro aspetto rilevante è quello della mobilità interregionale: «Il 26% ha scelto una regione diversa da quella di residenza. La regione con la differenza maggiore tra residenti che hanno aderito e coloro che hanno scelto una regione diversa risulta la Sicilia con 3.100 giovani (pari al 33% degli aderenti residenti in Sicilia) che ha scelto i servizi di altre regioni» si legge nel report.L'altra cosa cruciale emersa la settimana scorsa all'evento di Porta Futuro è poi il chiarimento del ministro sulla natura della Garanzia Giovani: alla domanda secca «La Garanzia è un ammortizzatore sociale?» Poletti ha infatti risposto in maniera chiarissima: «No. È un'iniziativa di politica attiva del lavoro».Tutto bene allora? Non proprio. Perché, report a parte, il nuovo piano della Garanzia Giovani - inviato a Bruxelles dopo il cambio di governo con i ritocchi di Poletti - non è ancora stato reso pubblico. Sul sito del ministero c'è quello vecchio, che il governo Letta aveva presentato alla Commissione europea e che era stato approvato. Ma quello nuovo ancora no: dunque la speranza è che nell'ottica della trasparenza il ministero lo pubblichi al più presto.Un altro documento che dev'essere ancora reso pubblico è poi il famoso “Tariffario” con i fondi previsti per ciascuna prestazione, a cominciare dalla indennità di 500 euro al mese che le Regioni dovrebbero garantire per ciascuno stage attivato nell'ambito della Garanzia giovani. Ma non solo: nel tariffario dovrebbero essere esplicitati anche molte altre voci di spesa interessanti, come gli incentivi alle assunzioni, le commissioni per l'intermediazione, il compenso orario per i formatori. Tutte informazioni che devono essere il prima possibile rese pubbliche, proprio perché la Garanzia Giovani sia una iniziativa di vetro e tutti i giovani possano sapere come verrà speso il miliardo e mezzo di euro che deve servire per rilanciare l'occupazione e l'occupabilità giovanile.Eleonora Voltolina