Categoria: Approfondimenti

Grape, la start-up che rende il vino più buono

C'è anche la scienza dietro a un buon vino. Lo sanno bene Simona Campolongo (30 anni), Chiara Pagliarini (31) e Fabrizio Torchio (33), tre dottorandi di ricerca della facoltà di Agraria di Torino che hanno dato vita a Grape, una start-up che si occupa di analisi microbiologiche di vitigni e cantine. «Il nome è una sigla che sta per Gruppo ricerche avanzate per l'enologia. Solo in un secondo momento ci siamo resi conto che significa anche 'uva' in inglese», racconta Campolongo. Microbiologa come Pagliarini - mentre Torchio è un enologo - ha conosciuto i suoi soci in università. Uno spazio che per questa azienda è centrale: «Prima di partire, ci siamo confrontati a lungo con i nostri docenti. Siamo nati come uno spin-off universitario, incubati all'intero di 2i3T. Ancora oggi abbiamo sede nella facoltà di Agraria: paghiamo un affitto per i locali e abbiamo una convenzione per l'utilizzo dei macchinari. Alcuni di quelli presenti nel laboratorio sono di nostra proprietà».Il business plan è stato scritto tra il 2010 ed il 2011 poi, quando tutti e tre hanno completato la tesi di dottorato, si è passati alla fase operativa. Così è nata una srl, che lo scorso anno si è iscritta nel registro delle start-up innovative. In totale i soci sono sette, quattro sono professori dell'università di Torino che sono entrati con quote molto piccole nel capitale sociale da 15mila euro. Il grosso l'hanno messo i tre giovani startupper, attingendo dai loro risparmi. Ma che cosa fa, di preciso, Grape? «La nostra azienda è articolata in tre dipartimenti che si interfacciano tra loro», spiega la microbiologa. Il primo si occupa dei lieviti utilizzati nella produzione del vino: «eseguiamo dei campionamenti sul campo, caratterizziamo questi microrganismi per via genetica e verifichiamo se siano candidati o meno per la vinificazione». Il secondo “visita” i vitigni per controllare se le piante presentino sintomi di alcune patologie. Il terzo «quantifica gli antociani e i flavonoidi». In altre parole, «effettua un'analisi degli aromi». Ma perché un'azienda dovrebbe avere bisogno di questi servizi? «Perché noi permettiamo di migliorare la qualità finale dei vini».Il lavoro, specie in una regione come il Piemonte, non manca. E la concorrenza non è così agguerrita: «In Italia ci sono pochi laboratori come il nostro e non tutti offrono un'assistenza completa, dal campo alla bottiglia, come facciamo noi». Oltre ai propri risparmi, i tre startupper hanno ottenuto 8mila euro grazie a un bando regionale che sostiene le start-up. Ora cercano nuovi finanziatori. «Siamo stati ad alcuni incontri con fondi di venture capital, ma ci siamo resi conto che fanno fatica a guardare all'agricoltura. Diciamo che il nostro non è un settore che “tira”, come succede invece per il farmaceutico». Fortunatamente per l'azienda, però, «siamo in grado di sostenere da soli gli investimenti necessari». Anche perché già dal primo anno l'azienda ha cominciato ad avere utili, con un fatturato che nel 2013 ha toccato i 200mila euro. Nonostante questo, Simona Campolongo è l'unica dei tre soci ad essere stipendiata, mentre gli altri due vivono grazie ad un assegno di ricerca. «Abbiamo già preso una persona, con un contratto a progetto, che si occupa delle analisi», aggiunge: perché non bisogna dimenticare che le startup, nel loro piccolo, creano anche nuovi posti di lavoro.Intanto, lo scorso ottobre, Grape è stata l'unica azienda italiana invitata alla Biotech Week, fiera europea delle biotecnologie. «È stata un'esperienza positiva, ci ha dato la possibilità di aprire il nostro laboratorio ai curiosi», spiega la startupper: «Il nostro è un campo ostico, è stato carino spiegare quello che facciamo». Un'attività che non si limita ad aiutare i viticoltori piemontesi a migliorare la qualità del vino. Ma che, con l'associazione Innuva, studia anche come utilizzare i prodotti di scarto della vendemmia, ricchi di polifenoli. Due i progetti che coinvolgono la start-up torinese: il primo riguarda lo sviluppo di prodotti per la cosmesi, l'altro paste riempitive dentali. E se evita di produrre rifiuti, il vino diventa ancora più buono.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it 

Jobs Act e abolizione del contratto a progetto, non tutti pensano che sarebbe un passo avanti

Il Jobs Act servirà davvero a rilanciare l’occupazione in Italia o si rivelerà l’ennesima riforma parziale, che non sarà in grado di incidere? In attesa che il decreto del governo Renzi superi il nuovo esame del Senato e venga dunque convertito in legge, tra gli addetti ai lavori permangono forti perplessità, sia sulla natura del provvedimento (su alcuni punti fondamentali si dovranno attendere i decreti delegati) sia sulla sua efficacia. Del decreto e del progetto Garanzia Giovani si è discusso pochi giorni fa nell’incontro organizzato a Milano dal centro studi Adapt e dalla società di servizi per il lavoro Synergie, dal titolo “Lavoro: cosa cambia davvero con il Jobs Act e la Garanzia Giovani? Riforme e politiche del lavoro ai tempi del governo Renzi”.«L’impatto reale del Jobs Act sull’occupabilità è difficile da quantificare», ha riassunto in avvio di lavori il giornalista Oscar Giannino. I dubbi espressi dal moderatore riguardano alcuni punti chiave del decreto: dal contratto a tutele crescenti allo sfoltimento delle tipologie di contratti temporanei. «Bisognerà vedere quali contratti resteranno: ad esempio alcuni giorni fa i dipendenti di alcuni call center sono scesi in piazza, chiedendo che non vengano aboliti i contratti a progetto. Questi lavoratori sono consapevoli che per loro l’abolizione dei cocopro potrebbe significare la perdita del posto di lavoro, perché le imprese potrebbero a quel punto scegliere di delocalizzare», ha sottolineato Giannino. Restano incertezze anche sul sussidio unico di disoccupazione, il Naspi, per il quale non sono ancora state definite le risorse, e sui lavoratori autonomi, per i quali «il Jobs Act poteva essere l’occasione di fare un passo avanti».Considerazioni condivise dal presidente di Adapt Emmanuele Massagli, trentunenne ricercatore di Diritto del lavoro, che ha offerto una lettura dei dati, diffusi venerdì a fine novembre, sulla disoccupazione e sui nuovi contratti di lavoro. Se da un lato il tasso dei disoccupati, secondo l’Istat, a ottobre ha raggiunto il massimo da quando esistono le serie storiche – al 13,2% - dall’altro il ministero del Lavoro, che ha anticipato le comunicazioni obbligatorie sui nuovi rapporti di lavoro, ha certificato un aumento degli avviamenti a 2 milioni 474mila (+2,4% rispetto al terzo trimestre 2013), di cui 400mila nuovi contratti a tempo indeterminato (+7,1%), mentre le cessazioni sono state pari a 2 milioni 415mila (+0,9%). Non solo: sempre secondo l’Istat, nel terzo trimestre i posti di lavoro sono stati 122mila in più. «Tra questi non ci sono però giovani tra i 15 e i 29 anni, e nemmeno adulti tra i 30 e i 45, mentre crescono (+5,5%) gli over 50», ha sottolineato Massagli. «In più, sette nuovi contratti su dieci sono a tempo determinato, di cui molti di durata inferiore a sei mesi: crescono anche i contratti a progetto, nonostante la legislazione sfavorevole. Questi dati significano che chi assume preferisce i contratti a termine, ricorrendo anche ai cocopro, e sceglie adulti esperti: continua invece il crollo del mercato del lavoro giovanile». Il Jobs Act è in grado di interpretare queste esigenze? Secondo Massagli «in parte sì, in parte no. Intanto è il quinto intervento in cinque anni, e questo è un problema perché ogni nuova legge è soggetta a interpretazioni: quindi facciamo le riforme, ma che vadano bene». Per il presidente di Adapt, ad esempio, alcuni dubbi riguardano l’introduzione del contratto a tutele crescenti. «Cosa succederà  nel mercato del lavoro con l’abolizione dei contratti a progetto e la rimodulazione dei tempi determinati? Non si sa ancora, ma di certo se i contratti a progetto scomparissero dal primo gennaio sarebbe un problema: senza un’applicazione graduale si rischia di creare centinaia di migliaia di disoccupati». Sul fronte delle misure per incentivare l’occupazione giovanile, Massagli ha sottolineato: «C’è una forte esigenza di politiche attive, e adesso è in vigore il più grande piano per i giovani da cinquant’anni a questa parte: si chiama Garanzia Giovani». A questo proposito, Adapt e Repubblica degli Stagisti hanno lanciato un questionario online, attraverso il quale i giovani coinvolti possono raccontare la loro esperienza con il progetto: ad oggi hanno aderito più di 1200 ragazzi. Per il presidente di Adapt «prima di affacciarsi al mondo del lavoro, i giovani incontrano solo la scuola e l’università. Investire sulla formazione è il primo modo per combattere la disoccupazione giovanile». Per Massagli quelle avviate dal governo «sono riforme necessarie, anche se qualche dubbio c’è».Un giudizio in chiaroscuro sul Jobs Act è stato espresso anche da Valentina Aprea, assessore al Lavoro della Regione Lombardia. «Innanzitutto si tratta di una delega in bianco al governo: su alcuni punti il decreto è così generico da consentire anche letture contrapposte dello stesso principio», ha commentato. «Inoltre, dovrebbero esserci risorse certe e invece la delega prevede l’invarianza della spesa pubblica». Per l’assessore, tra i lati positivi del decreto ci sono «l’estensione dell’Aspi e il rafforzamento delle politiche attive, mentre non mi appassiona il contratto a tutele crescenti, che può diventare un’arma nelle mani degli imprenditori, mentre il patto tra dipendente e datore di lavoro deve essere chiaro. Invece la detassazione dei nuovi contratti è la strada corretta».A difendere la bontà dei provvedimenti del governo Renzi è stato Stefano Lepri, vicepresidente dei senatori Pd e membro della Commissione Lavoro di Palazzo Madama. «Il Jobs Act è l’ennesima rivoluzione? Speriamo che sia l’ultima», ha commentato, spiegando che per i decreti delegati il tempo di attesa sarà «tra i tre e i sei mesi». Secondo Lepri «il combinato disposto della decontribuzione per tre anni e dell’introduzione del contratto a tutele crescenti porterà risultati», e la chiave per l’applicazione del nuovo contratto sarà «la definizione dell’entità dell’indennizzo da corrispondere per i licenziamenti economici: se sarà troppo basso darà buon gioco a chi sostiene che con la nuova norma sarà possibile licenziare senza regole, mentre se sarà troppo alto renderà il licenziamento poco conveniente per il datore di lavoro». Ma la vera sfida, «la più grande perché la più complessa», riguarderà «le politiche attive per contrastare la disoccupazione giovanile. Il progetto Garanzia Giovani parte da lodevoli intenti, ma finora ha ottenuto risultati molto differenti a seconda delle diverse strutture che se ne occupano». Al di là delle buone intenzioni, la strada per far ripartire l'occupazione in Italia sembra quindi ancora molto lunga.

Università, la proposta dei ricercatori Adi: «Abolite gli assegni di ricerca»

Professori praticamente mai: le speranze di arrivare al traguardo, per i "giovani" - le virgolette sono d'obbligo, visto che si parla anche di quarantenni - che lavorano all'interno delle università e in particolare per chi è assegnista di ricerca, sono minime. Molto difficile è infatti passare dal primo step della vita del ricercatore, quello dell'incarico di indagare su un tema di interesse scientifico, alle fasi successive dei contratti a tempo determinato a due livelli, a o b (l'indeterminato è stato abolito dalla riforma Gelmini). Secondo i calcoli dell'Adi, associazione dottorandi di ricerca, ci riesce appena un risicato 3% di quei 15mila assegnisti recensiti nel 2013 in tutto il paese. Se si conta che in questo momento i titolari di contratti di ricerca in scadenza non superano le 2mila unità («forse 2500» ipotizza Antonio Bonatesta, segretario Adi), si fa presto a capire che il numero è destinato a contrarsi ulteriormente. Ed è probabile, lo lasciano intuire le dichiarazioni di Bonatesta raccolte dalla Repubblica degli Stagisti, che con il tempo la figura del ricercatore si indebolisca sempre più, con conseguente chiusura di atenei e corsi di laurea: «È questo l'obiettivo politico». Il problema del settore non è tanto - o solo - la retribuzione da fame: dietro la fuga all'estero dei migliori cervelli italiani c'è soprattutto l'assenza di concrete prospettive di carriera. «Esiste una specie di cursus honorum che noi chiamiamo via crucis» scherza il segretario, composto sostanzialmente da quattro passaggi: dopo il dottorato, con o senza borsa di studio (con cifre intorno ai mille euro mensili per i più fortunati), nella migliore delle ipotesi ci si aggiudica un assegno di ricerca, con importi tendenzialmente sempre al di sotto dei 1500 euro mensili. L'assegno è annuale e rinnovabile per quattro anni. In mezzo, una giungla di figure ancora più precarie, che non valgono neppure per arricchire il curriculum: quelle di chi fa ricerca a titolo gratuito per una cattedra («ci siamo passati tutti per sei mesi o un anno»), o dei borsisti e collaboratori, ovvero quelli che - forti di un piccolo contratto post laurea di qualche mese - «collaborano a programmi di ricerca». Un insieme folto, perché nel 2013 erano circa un terzo del personale non strutturato impegnato in attività di ricerca: 8mila collaboratori e 500 borsisti su circa 24mila, secondo il rapporto Anvur 2014. E sopratutto un insieme segnato dall'inizio dalla mancanza di sbocchi: questi ricercatori in erba sono fuori dal sistema, non sono parte di quel 'cursus honorum', ma solo «un esercito di riserva di precari completamente flessibile e sostituibile», come riassume il rappresentante Adi. Oggi dunque già ottenere un assegno di ricerca rappresenta un passaggio importante - sempre che poi non si venga espulsi dal sistema, come accade per la quasi totalità degli assegnisti («il 97%» ribadisce Bonatesta). Alla conclusione del periodo di assegno potrebbe infatti capitare la fortuna di firmare un contratto a tempo determinato, prima il cosiddetto RTDa e poi - se va bene - l'RTDb. Senza garanzie, però. Nella maggior parte dei casi invece l'ex assegnista si ritrova fuori dal mondo accademico, a dover ricominciare «occupandosi di tutt'altro», spesso buttando via gli anni passati sui libri. Una situazione che colpisce non giovani freschi di laurea, ma «persone intorno ai quarant'anni e anche oltre». Per chi intraprende la carriera accademica la gavetta «dura almeno dodici anni: tra dottorato, assegno di ricerca e contratti a tempo determinato a loro volta rinnovabili di tre anni». L'identikit del «giovane ricercatore precario» è quello di uno studioso che ha «dai 30 ai 45 anni», e per cui il percorso verso una cattedra che non arriva quasi mai può oltretutto interrompersi in qualunque momento. Il turnover è peraltro praticamente bloccato: «È al 50%, se vanno in pensione dieci professori, ne entrano in cambio cinque». Dulcis in fundo, non è escluso che, dopo l'abilitazione professionale e il concorso, si resti nel perenne limbo dell'attesa che un'università apra il reclutamento. Eppure, in un quadro così degradante, a detta dell'Adi una soluzione ci sarebbe: superare la figura dell'assegnista di ricerca, semplificando tutte le figure intermedie compresi borsisti e collaboratori e introducendo al loro posto un contratto da «professore junior che contenga in sé la clausola tenure track», al momento già parte dell'infatti ambitissimo RTDb. Un modello statunitense: al ricercatore si dà la certezza di un futura assunzione come professore, ma alla condizione che il suo iter sia considerato qualificato e si guadagni un feedback positivo dalla comunità scientifica. Insomma una clausola di meritocrazia. Che potrebbe funzionare anche da antidoto al familismo, come chiarisce un dottorando alla Luiss: «Non è possibile, realisticamente, eliminare la cooptazione dal sistema di reclutamento delle università: è normale che un professore coinvolga nel suo progetto persone che conosce e stima». Ciò che serve è «il criterio del merito nella selezione, di cui devono essere responsabili soggetti terzi, magari le aziende». Il governo, con la legge di Stabilità, sta invece imboccando un'altra direzione. «Quello che viene presentato come un provvedimento per la ripresa del reclutamento dei giovani ricercatori è in realtà creazione di nuovo precariato, pagato con nuove rinunce sul versante delle garanzie di stabilizzazione» si legge nel comunicato Adi lanciato nel giorno di protesta a suon di flashmob in tutta Italia e rimbalzato sui social con l'hashtag #finoaquando?Il decreto punta al recupero dell'organico dei ricercatori a tempo determinato di tipo 'a' cessati nell'anno precedente. «Una soluzione fittizia» è la critica dell'Adi, «perché i primi contingenti di RTDa termineranno il loro percorso solo nel 2016-17, l'effetto sarà differito» e riferito solo a quelle «tre regioni che nel 2013 detenevano da sole il 50% dei posti a bando, a fronte di moltissime altre che non hanno potuto farlo». Ma soprattutto aumenterà il precariato investendo sulla tipologia contrattuale meno garantita. Il contesto descritto non deve però spostare l'attenzione dalla questione centrale, che restano le risorse. Altrimenti ci ritroviamo «a fare riforme con le briciole» sintetizza Bonatesta. L'attacco dell'Adi è in particolare allo stanziamento da 150 milioni per la quota premiale (salito dal 13 al 18%), regalo per gli atenei migliori con cui si promuovono «meccanismi di finanziamento profondamente discriminatori»: l'Adi denuncia anche la poca chiarezza nei criteri di selezione, accusando il governo di voler «smantellare il sistema accademico nazionale mantenendo solo pochi nuclei autoproclamatasi di eccellenza». È davvero opportuno, chiede sarcasticamente l'associazione dei dottorandi e dottori di ricerca, «fondare il funzionamento di gran parte del sistema accademico sul lavoro precario, privo di aspettative e colpito tanto nei progetti di vita quanto nella libertà stessa della ricerca?». Quando invece questi stessi ricercatori, se adeguatamente tutelati, potrebbero innescare il motore della ripresa economica? Ilaria Mariotti 

Tirocinanti negli uffici giudiziari, il ministero non sa quanti sono e quando (e se) saranno pagati

Due mesi. Tanto ha atteso la Repubblica degli Stagisti le risposte del ministero della Giustizia sulle disposizioni relative agli stage all'interno degli uffici giudiziari italiani destinati ai laureati in Giurisprudenza e introdotti dal Decreto Fare. E alla fine le risposte che sono arrivate sono poche, imprecise, insufficienti. In pratica un'ammissione di impotenza: il ministero non sa - o dice di non sapere - quanti giovani stanno facendo un tirocinio presso i suoi uffici giudiziari, e in particolare non sa quanti lo stanno facendo all'interno di un progetto speciale di tirocini introdotto l'anno scorso dal Decreto Fare.L'antefatto. A giugno 2013 in Gazzetta Ufficiale viene pubblicato il cosiddetto Decreto Fare, che identifica il decreto legislativo 69/2013. Quel documento contiene un articolo – il numero 73 – che stabilisce i requisiti per uno speciale programma di tirocini formativi presso gli uffici giudiziari, destinati a laureati in giurisprudenza in possesso di una serie di requisiti elencati nel testo dell’articolo: tra questi l'età inferiore ai 30 anni, il voto di laurea di almeno 105/110 e la votazione di almeno 27/30 in alcuni specifici esami. Fin qui nulla di strano, se non fosse che scorrendo il testo dell’articolo balzano all’occhio una serie di caratteristiche degne di approfondimento. Innanzitutto gli stage consistono in una «formazione teorico-pratica della durata di  diciotto mesi presso gli uffici giudiziari» per assistere e coadiuvare magistrati degli organi di giustizia riportati nell’articolo.  È evidente che, trattandosi di stage successivi al percorso formativo, si stia parlando di tirocini extracurriculari, alle cui regole anche i tirocini per laureati in giurisprudenza oggetto dell’articolo 73 dovrebbero attenersi. E che dunque la durata massima dovrebbe essere di dodici mesi: i diciotto - ben un anno e mezzo - del Decreto Fare si configurano dunque immediatamente come una clamorosa eccezione. La Repubblica degli Stagisti ha analizzato l’articolo con Umberto Buratti, ricercatore di Adapt, l’associazione fondata da Marco Biagi specializzata su temi del lavoro: «Non è facile comprendere quale sia la vera natura dei tirocini indicati dal provvedimento. Il Capo II del d.l. 21 giugno 2013 n. 69 parla di tirocini presso gli uffici giudiziari, l'articolo 73, invece, di formazione presso gli uffici giudiziari, mentre nel testo si usa parola stage. C’è quindi un’imprecisione terminologica evidente, mentre le linee guida in materia di tirocini differenziano in maniera precisa le diverse tipologie». È utile ricordare che i giovani laureati in giurisprudenza che vogliono diventare avvocati hanno già previsto nel proprio iter dei «periodi di pratica professionale», vale a dire i tirocini previsti «per l’accesso alle professioni ordinistiche»: il praticantato, in poche parole. Che è normato in maniera differente rispetto ai “normali” tirocini. Questi tirocini per laureati in giurisprudenza di cui parla il Decreto Fare non sono però praticantati - tuttavia sono valutati come un anno di tirocinio forense e notarile o di frequenza a una scuola di specializzazione per le professioni legali. Insomma «non sembra quindi esserci dubbio sul fatto che la legge, pur non richiamando in modo esplicito gli stage  tirocini formativi e di orientamento, avrebbe comunque dovuto riferirsi» continua Buratti «alle disposizioni presenti nelle linee guida del mese di gennaio 2014», quelle concordate in sede di Conferenza Stato-Regioni. Questo perché «le linee guida esplicitano che i principi in esse contenuti sono applicabili anche nei casi in cui il soggetto ospitante sia una Pubblica Amministrazione e chiariscono che gli standard minimi di riferimento indicati valgono anche per quanto riguarda gli interventi e le misure aventi medesimi obiettivi e struttura dei tirocini, anche se diversamente denominate». Cosa dicono nello specifico queste linee guida? Stabilite per i tirocini extracurriculari all'inizio del 2013, esse prevedono una durata massima per questi periodi formativi di sei mesi per neodiplomati e neolaureati, cioè persone che abbiano concluso l'ultimo ciclo di studi da meno di un anno, e di 12 mesi per gli altri. L’articolo del Decreto Fare riferendosi a persone già laureate parla invece, come detto, di una durata dello stage di addirittura 18 mesi. Inoltre nello stesso articolo non c’è alcun tipo riferimento al periodo massimo di 12 mesi dal conseguimento del titolo di studio per attivare il tirocinio. Questo particolare potrebbe sembrare ininfluente, invece è molto importante: perché la normativa attuale prevede che solo i tirocini attivati entro i 12 mesi dal conseguimento dell'ultimo titolo di studio possano essere definiti come “di formazione e orientamento”. È poi possibile attivare stage anche da chi abbia terminato gli studi da più tempo: ma in quel caso l'inquadramento muta leggermente, e si passa ai “tirocini di inserimento / reinserimento lavorativo”. Una sottigliezza lessicale da non sottovalutare.Oltre alla prima incongruenza sulla durata e alla seconda sulla terminologia, c’è anche un passaggio significativo sulle caratteristiche del tirocinio: l’articolo stabilisce infatti che lo stagista assista il magistrato nello svolgimento delle proprie attività ordinarie. Un’affermazione che pare mettere in discussione la natura stessa del tirocinio, che dovrebbe essere finalizzato all’apprendimento e non allo svolgimento di una vera e propria attività lavorativa, come sembra in questo caso. «La lettura integrale dell'articolo 73 del d.l. 69/2013 mette in luce la volontà del legislatore, a meno a parole, di proporre un'esperienza primariamente formativa: tale considerazione nasce dalle ripetute indicazioni in merito al ruolo del magistrato che funge da tutor e dalla possibilità di frequentare appositi momenti di formazione» dice però Buratti: «Il richiamo all'assistenza e all'aiuto nel compimento delle ordinarie attività di lavoro di per sé da solo non è sufficiente a mascherare un rapporto di lavoro. Qualsiasi esperienza di tirocinio aziendale, infatti, prevede l'affiancamento nelle operazioni quotidiane e una formazione di tipo on the job». Uno degli aspetti più spinosi è poi la questione dell'indennità: l’articolo prima precisa che «lo svolgimento dello stage di formazione teorico-pratica non dà diritto ad alcun compenso o trattamento previdenziale o assicurativo». Anche in questo caso una disposizione palesemente in contrasto con le linee guida, in cui è stabilità una «congrua indennità» pari a un minimo di 300 euro. Anzi l'indennità minima può essere anche maggiore: la cifra è a discrezione delle Regioni, che nel corso del 2013 hanno recepito le linee guida elaborando ciascuna un proprio provvedimento in materia di tirocini. In uno dei commi successivi del Decreto Fare si legge poi che «agli ammessi allo stage è attribuita una borsa di studio in misura non superiore ad euro 400 mensili», per le cui modalità di assegnazione si dovrà tener conto dell'indicatore di situazione economica equivalente (Isee). Un vero e proprio rovesciamento: la cifra che molte regioni pongono come minima per il rimborso spese degli stagisti diventa in questo decreto quella massima. Forse, come ipotizza Buratti, «più che veri tirocini, sembra essere di fronte a borse di studio, ma non c’è dubbio che le linee guida restino la normativa di riferimento».  L’articolo dunque contiene più di un elemento in netto contrasto rispetto a quanto previsto per i tirocini extracurriculari. Al contrario sembra però voler introdurre degli elementi «compensativi» per il tirocinante: accanto alla validità pari a un anno di tirocinio forense o notarile, il tirocinio costituisce titolo di preferenza per la nomina a giudice onorario e vice procuratore onorario, per i concorsi indetti dalla pubblica amministrazione e dall’Avvocatura di Stato. Non è facile al momento capire perché sia entrata in vigore una legge che sembra in contraddizione rispetto alle linee guida su questo tipo di tirocini. Né quanti stage di questo tipo siano finora partiti. In ogni caso, 400 euro al mese per 18 mesi significano 7.200 euro a tirocinante: supponendo che anche solo 100 giovani laureati in Giurisprudenza si cimentino in questo tipo di tirocinio, si dovrebbe trovare un fondo di 720mila euro per erogare queste indennità. Ma da dove dovrebbero arrivare questi fondi? Il ministero della Giustizia afferma che essi fanno parte del FUG (Fondo unico giustizia), ma le risorse per pagare gli stagisti non sono state ancora sbloccate dal ministero dell’Economia. La Repubblica degli Stagisti ha provato ad avere chiarimenti, prima di tutto chiedendo un semplice dato numerico: quanti sono, ad oggi, i giovani impegnati in questo tipo di stage negli uffici giudiziari italiani. Una domanda semplice e secca. Eppure clamorosamente il ministero ha ammesso di non avere idea di quale sia questo numero: dopo lunghe rincorse, l'ufficio stampa ha risposto che al momento non c’è una stima del numero di stage attivati secondo i dettami del Decreto Fare dal settembre 2013 a oggi, ma che probabilmente arriverà a fine anno. Evidentemente 14 mesi non sono bastati per mettere in funzione un database... Senza contare che, dato che i fondi per le indennità sembrano essere ancora bloccati, è verosimile che tutti questi laureati in Giurisprudenza stiano facendo da mesi il loro stage senza percepire il compenso previsto. E chissà quando lo riceveranno. Anche su questo il ministero non fornisce una risposta chiaro. Al momento dunque l’unica certezza è la mancanza di una risposta esaustiva da parte del ministero della Giustizia a tutte le domande ancora sul tavolo. Che rischiano di rimanere inevase, alla faccia della trasparenza e della valorizzazione dei nostri giovani laureati.Chiara Del Priore

Artimede: nasce a Como l'incubatore per start-up culturali

Un incubatore dedicato alle imprese attive in campo culturale: nasce a Como Artimede, un progetto per aiutare gli startupper che operano in questo settore a far crescere le loro aziende.L'idea, spiega Matteo Torri di ComoNext - la struttura che ospita l'iniziativa - «è nata due anni fa durante la fase di preparazione di Artificio». Ovvero un progetto di costituzione di un network di realtà impegnate nella cultura finanziato con mezzo milione di euro dalla Fondazione Cariplo. Oltre all'incubatore con sede a Lomazzo, «l'iniziativa coinvolge la cooperativa sociale Csls e due associazioni culturali, Luminanda e Nerolidio: l'obiettivo era quello di creare un centro culturale diffuso in tutto il territorio comasco». Ed è lavorando a questo progetto che il gruppo si è reso conto «che molte persone, per quanto molto preparate sul fronte strettamente legato alla cultura, non avessero grandi competenze dal punto di vista imprenditoriale e manageriale».Artimede nasce proprio allo scopo di colmare queste lacune. Qui è entrato in gioco ComoNext, «coinvolto per creare una sorta di incubatore virtuale, per dare un supporto a chi voglia fare della cultura un lavoro», prosegue Torri. «Cerchiamo di aiutare gli startupper a strutturare la loro idea, a capire come gestirla e come darle un'impronta più imprenditoriale». Il risultato è un corso di formazione, iniziato a metà ottobre e in via di conclusione. Durante le lezioni si è parlato dei temi classici legati al mondo start-up, come l'analisi del mercato, la definizione di un piano di marketing, il bilancio. Ma anche di questioni attinenti le specificità del settore culturale: proprietà intellettuale, aspetti previdenziali legati ad Enpals, la cassa dei lavoratori dello spettacolo, la tutela dei diritti d'autore. Grazie al finanziamento di Fondazione Cariplo, la partecipazione ai corsi è stata completamente gratuita.«Le lezioni hanno la durata di due ore, alla quale ne aggiungiamo una terza per offrire chiarimenti e sciogliere dubbi» aggiunge Torri: «C'è comunque la possibilità di fissare degli incontri con i docenti per approfondire le diverse tematiche». Ai corsi si sono iscritti aspiranti imprenditori che mirano ad operare in diversi settori. «Andiamo dal design all'arredamento, dall'editoria al fundraising in ambito culturale. Noi siamo partiti dalla definizione dell'Unione europea, che accomuna le imprese culturali a quelle creative: nella categoria rientrano anche il teatro e il design, tutto quello che ha a che fare con le arti visive e performative». Per tutti l'obiettivo comune è quello di strutturare un'azienda. «Al termine delle lezioni chiediamo di presentare un business plan, che copra sia gli aspetti tecnici che quelli di mercato. Alla fine del corso emetteremo un bando, riservato ai partecipanti, per selezionare le idee migliori, che saranno coinvolte in un percorso di tutoraggio più intenso».Per il momento gli oltre venti partecipanti si dicono soddisfatti dell'iniziativa. «Stiamo tenendo traccia dei feedback, sulla base dei quali ottimizzeremo il percorso per il prossimo anno». Il finanziamento concesso da Fondazione Cariplo copre infatti un triennio di iniziative. Artimede avrà dunque altre due edizioni, la prossima in programma già nella primavera del 2015. Dopodiché, se ComoNext riuscirà a trovare i fondi per sostenerlo, continuare senza il sostegno dell'ente nato dalle casse di risparmio lombarde. Una volta terminato il percorso formativo, «difficilmente le imprese rimarranno incubate nel parco scientifico-tecnologico. È difficile che un'impresa di questa natura possa trovare spazio in una realtà come questa». Le porte, però, rimarranno sempre aperte: «potranno accedere a tutti i servizi di supporto che vengono forniti alle start-up». Ci sarà insomma sempre qualcuno disposto ad aiutare chi cerca di fare impresa in un settore complesso come quello culturale.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it

Garanzia giovani in difficoltà, ma dall'Ue miliardi per finanziare i progetti dei giovani

Una due giorni per fare rete, lanciare progetti e sfruttare le opportunità offerte dai finanziamenti europei. E per non lasciare che la mancanza di informazione o di organizzazione faccia perdere qualche buona occasione. Questo il senso dell'iniziativa dell'Agenzia nazionale giovani, 'Gioventù italiana, una garanzia per l'Europa', che ha riunito a Roma, il 5 e 6 novembre, 200 giovani esponenti di associazioni, enti locali, gruppi informali che hanno voluto dare voce alle proprie idee. Sono arrivati nella Capitale, hanno riempito il Tempio di Adriano e in due giornate hanno raccontato al pubblico quale progetto avessero in testa. Alla fine ne sono stati selezionati due: il progetto della delegazione Apollo 13 'Educazione al dialogo strutturato', che punta a creare un sistema internazionale di riconoscimento delle competenze, specie quelle acquisite tramite l’educazione non formale come il servizio volontario europeo. «Una proposta coerente con uno degli obiettivi del semestre europeo di presidenza italiano» sottolinea il comunicato di chiusura dell'evento, ovvero «la valorizzazione delle competenze». E poi il progetto 'Forever young, idee in movimento', che ha ricevuto il premio creatività grazie ad alcune idee per migliorare il livello di occupabilità a seguito di un’esperienza di mobilità internazionale.Per ora il riconoscimento ai vincitori è stato pressoché simbolico - ai vincitori è andata una targa e qualche gadget - ma non è escluso che l'Ang, come ente accreditato nell'ambito di Erasmus plus, «non supporti questi progetti nel percorso della ricerca dei fondi». Anche perché, come ha ricordato Chiara Gariazzo della direzione Gioventù e Sport della Commissione Europea, gli stanziamenti europei per i giovani sono lievitati negli ultimi anni, segnale che l'Europa ha riposizionato al centro delle sue politiche le nuove generazioni: «Per Erasmus Plus siamo al più 40 per cento, con circa 17 miliardi disponibili» riferisce la Garlazzo. Ignorarli sarebbe un paradosso in tempi di recessione e disoccupazione alle stelle. L'esperienza ha avuto anche altri risvolti. Lo spirito è stato infatti quello di stimolare la partecipazione giovanile: a questo proposito, ha annunciato la Gariazzo, si sta anche pensando «a come rendere internazionali i progetti di servizio civile». E Giacomo D'Arrigo, direttore Ang, in una nota ha puntualizzato che «aldilà del  primo classificato i veri vincitori di questi due giorni sono stati tutti i ragazzi che, provenienti da ogni angolo d’Italia, hanno animato con passione, determinazione e spirito d’iniziativa il Tempio di Adriano con il loro laboratorio di idee ispirato ad Erasmus plus capitolo Gioventù». Non solo neet e bamboccioni, ma «una generazione che rappresenta il futuro del Paese, che non sta ferma e che ha grande voglia di partecipare attivamente. Sono i giovani da cui l’Italia deve ripartire». Anche se poi Bruno Busacca, responsabile delle segreteria tecnica del ministro del Lavoro, intervenuto al convegno per fare il punto della situazione su Garanzia giovani, ha svelato un dato per certi versi sconcertante: «Il 20-25 per cento di quelli che si iscrivono e sono chiamati per un colloquio non si presenta». E non sembrerebbe essere un caso isolato. «Parlando con l'ad di Ikea Italia, Lars Peterson, ho scoperto che il fenomeno si ripete anche per loro» ha aggiunto Busacca: «Ogni volta che aprono un centro e cercano personale, c'è una fetta di ragazzi che diserta i colloqui». Lassismo? Pigrizia? Disillusione? Per Busacca la ragione potrebbe trovarsi nella «sfiducia verso le istituzioni». Una disaffezione del resto ben comprensibile. Ed è lo stesso segretario tecnico, con i dati sul progetto europeo che dovrebbe rilanciare l'occupazione giovanile, a dare la conferma. Non è passato tanto tempo dal lancio, ma a sei mesi dal primo maggio «su 170mila iscrizioni alla Garanzia Giovani, sono solo 76mila i presi in carico». Il che non vuol dire che abbiano un'occupazione o siano stati inseriti in qualche progetto, ma che «il centro per l'impiego o l'agenzia privata li ha sentiti» e in qualche modo messi in lista d'attesa. «Qualcuno ha trovato un'occupazione finora?» ha chiesto il moderatore del panel Paolo Migliavacca del giornale Vita. «Molto pochi» ha ammesso Busacca, giustificando il fallimento - o quasi - del sistema con la scusante del meccanismo mastodontico da mettere in moto. La situazione di partenza non era certo incoraggiante: centri per l'impiego malfunzionanti e sotto organico, enti locali e governo centrale da mettere in condizioni di comunicare per la prima volta attraverso un'unica piattaforma informatica di accesso per tutti i giovani interessati, un Paese come l'Italia in cui non si è mai investito in politiche attive. «È un po' come sparare sulla croce rossa» semplifica Busacca, assicurando però la volontà di «continuare a spingere affinché il sistema funzioni meglio e produca risultati». La buona notizia è che del miliardo e mezzo in dotazione, l'Italia ha già impiegato finora «circa 550 milioni». Nella speranza che il resto dei fondi vada a buon fine... E che i giovani italiani tornino a sperare di avere un futuro in questo Paese. Ilaria Mariotti 

Reddito minimo garantito, riparte la battaglia politica

I tempi sono sempre più magri, e allora si ricomincia a parlare di reddito minimo garantito. Sono diverse le associazioni, da San Precario a Libera a Sbilanciamoci, che da tempo si battono per l'introduzione di questa misura, certe che la politica possa trovare le risorse per finanziarlo riordinando l'indice delle priorità del Paese. Sull'argomento occorre «riportare l’attenzione ed esporre la preoccupazione sulla sua scomparsa dall’agenda politica italiana, dopo essere stato quasi egemone nel corso della campagna elettorale scorsa» sostengono gli esponenti di Bin (Basic Income Network).L'Italia in effetti è un dei pochissimi Paesi in Europa, insieme a Grecia e Bulgaria, privo di una misura di reddito minimo. Nonostante le proposte di legge esistano: ricordano da Bin che «in Parlamento ne giacciono tre oltre a quella di iniziativa popolare 'per l'istituzione di un reddito minimo garantito' che ha avuto l'adesione di 50mila cittadini e 170 associazioni». Eppure, a oggi, i testi «non sono stati né calendarizzati né discussi in una qualche commissione». La Regione Lazio è stata pioniera in questo senso con l'approvazione della legge 4/2009 per un sussidio in beneficio delle fasce in difficoltà. «Che però, salutata come momento di avanzamento e di innovazione nelle politiche sociali di questo Paese, è stata poi definanziata dalla giunta Polverini, malgrado le migliaia di richieste di sostegno avanzate nel primo e unico anno di sperimentazione» denunciano da Bin. La proposta del Movimento Cinque Stelle in materia - cavallo di battaglia del programma elettorale dei grillini - è confluita in un disegno di legge che prevede l'istituzione di un reddito di cittadinanza allargato praticamente a tutti i cittadini maggiorenni, titolari di almeno un diploma di scuola superiore e al di sotto della soglia di povertà. Che viene quantificata in 7200 euro annuali per chi percepisce meno di 600 euro annuali, per salire via via con gli importi (considerando ad esempio in una condizione di insufficienza di risorse una coppia che dispone di 1000 euro al mese, o una famiglia di tre membri con 1300 euro). Piccolo problema però: secondi i calcoli degli economisti Tito Boeri e Paola Monti, garantire un sussidio così strutturato costerebbe alle casse dello Stato almeno 17 miliardi di euro, con dodici milioni di famiglie beneficiarie, più del doppio rispetto allo stanziamento richiesto dai promotori del Reis (7 miliardi), altro possibile provvedimento di contrasto alla povertà. «Le risorse ci sono, noi le abbiamo individuate, l'importante è discutere la legge» ha però ribadito Nunzia Catalfo, senatrice M5S, l'altroieri a Roma in occasione dibattito 'Che fine ha fatto il reddito minimo garantito?'. Il nodo si ridurebbe alla registrazione in un qualsiasi ordine del giorno: dopodiché «tutti i gruppi parlamentari devono impegnarsi a votare gli emendamenti altrimenti stiamo perdendo tempo».Anche Pippo Civati, della minoranza del Pd, che ha fatto del reddito minimo garantito il punto di forza nella sua corsa alle primarie, relativizza il problema delle risorse. «Gli 80 euro di Renzi valgono 9,6 miliardi» sottolinea; è evidente dunque che si tratta di «una scelta politica» perché basterebbe rimodulare i criteri di attribuzione del sussidio. Civati sostiene invece che «questo governo prova fastidio verso questo tema» e che nella legge di stabilità sono altre le categorie che si cerca di tutelare: «chi già lavora e i lavoratori autonomi storici come i commercianti», senza nessun occhio di riguardo per le moderne fasce di bisognosi, i «nuovi poveri e nuovi professionisti» tra cui le partite iva. La riprova è che Matteo Renzi «è il più grande nemico delle misure anti povertà, lo è da sempre, gli 80 euro sono un manifesto contro», spiega, perché vanno a favore dei ceti medi e non dei più poveri. «L'unica che potrebbe occuparsene è il ministro Madia» facendo parte dell'esecutivo ed essendone sostenitrice.Che il grosso ostacolo sia invece rappresentato dai fondi lo ribadisce Massimiliano Smeriglio, vicepresidente della Regione Lazio. Allo stato «stiamo discutendo del taglio dei 4 miliardi alle regioni, che non si coprono eliminando le auto blu e altri sprechi: il totale vale solo 200 milioni, lo abbiamo già calcolato». Altro che spending review dunque: la scure si abbatterà su «asili nido, ospedali, comuni». Surreale in queste condizioni mettere sul tavolo la questione reddito minimo. Con tutto che da Act arriva un'idea per il finanziamento: «Colpire con un'aliquota minima, dello 0,5 per cento, il centile più alto della ricchezza del Paese, ripensando un welfare ancora tutto incentrato sulla previdenza». Certo, rilancia Maria Pia Pizzolante di Tilt, passi avanti ne sono stati fatti: «Si è tolto un velo sul dibattito, non lo si considera più utopia come anni fa». Nel frattempo la situazione del Paese è degenerata, la spirale della povertà si è allargata inglobando - secondo gli ultimi dati Istat - sei milioni di individui, circa il 10 per cento della popolazione. La disoccupazione è cresciuta, specie giovanile, «la precarietà è divenuta ormai normalità e si è generalizzata oltre il mondo del lavoro, senza considerare gli working poor o i milioni di 'scoraggiati', tutte e tutti senza alcuno strumento di sostegno del reddito» rincarano la dose da Bin. Il reddito minimo garantito potrebbe funzionare allora come strumento di democrazia, che «ricompatti la società», ipotizza Arturo Salerno di Progetto Diritti, «facendo crescere le opportunità per tutti, stimolando a non accettare lavori sottopagati, superando le dinamiche perverse dell'economia». Non è forse questo, si chiede, «l'obiettivo della politica?». Ilaria Mariotti

Il lavoro è già "smart", ma il Jobs Act non se n'è accorto

Il lavoro del futuro è sempre più smart: gli orari rigidi e prestabiliti e la presenza obbligatoria davanti alla scrivania non sono più elementi essenziali per valutare l’operato dei dipendenti, che invece, grazie alle nuove tecnologie, possono lavorare tranquillamente in mobilità (a casa, al parco, in treno, al mare) ed essere giudicati in base ai risultati effettivamente conseguiti, piuttosto che sul numero di ore trascorse in ufficio. Una vera rivoluzione, che è già diventata realtà: lo smartworking, olavoro agile, è già stato sperimentato in varie aziende private e in enti pubblici. Il Comune di Milano, ad esempio, ha dedicato a questa esperienza un’intera giornata, lo scorso 6 febbraio:  104 tra enti e aziende hanno aderito alla sperimentazione, proponendo ai dipendenti di lavorare in mobilità. La “Giornata del lavoro agile” ha permesso, con la semplice abolizione del tragitto casa-lavoro, di risparmiare circa 2600 ore, pari a 325 giornate lavorative di otto ore ciascuna: tutto tempo guadagnato, utilizzato dai lavoratori per riposare, o dedicarsi alle attività domestiche e alla cura della famiglia.Il lavoro del futuro è sempre più smart: gli orari rigidi e prestabiliti e la presenza obbligatoria davanti alla scrivania non sono più elementi essenziali per valutare l’operato dei dipendenti, che invece, grazie alle nuove tecnologie, possono lavorare tranquillamente in mobilità (a casa, al parco, in treno, al mare) ed essere giudicati in base ai risultati effettivamente conseguiti, piuttosto che sul numero di ore trascorse in ufficio. Una vera rivoluzione, che è già diventata realtà: lo smartworking, o lavoro agile, è già stato sperimentato in varie aziende private e in enti pubblici. Il Comune di Milano, ad esempio, dopo l'esperimento dello scorso anno ha deciso di replicare anche nel 2015 la "Giornata del lavoro agile": il prossimo 25 marzo sarà l'occasione, per lavoratori e aziende del capoluogo lombardo e dell'area metropolitana, di sperimentare una diversa organizzazione del lavoro e della vita quotidiana. Lo scorso anno oltre 100 tra enti e aziende di varie dimensioni hanno aderito alla prima giornata dedicata a questa nuova modalità lavorativa, toccandone con mano i vantaggi in termini di conciliazione tra vita privata e lavoro, risparmio di tempo e riduzione delle emissioni nocive. Quest'anno le aziende interessate potranno aderire compilando la domanda sul sito di Palazzo Marino. «Per questa edizione abbiamo voluto coinvolgere anche gli oltre 40 spazi di coworking presenti in città e aderenti all'albo qualificato creato dal Comune», ha spiegato l'assessore comunale alle Politiche per il Lavoro Cristina Tajani. «Questa giornata di "porte aperte" consentirà alle persone e alle aziende che vorranno aderire di utilizzare moderni spazi attrezzati, dove trovare un appoggio dotato di wifi e altri servizi per lavorare in maniera condivisia da una postazione diversa da quella abituale». Anche a Torino lo smartworking esiste da tempo: già nel 2012 il Comune aveva lanciato un progetto che coinvolgeva 20 lavoratori, e nel 2014 la possibilità è stata estesa a 40 dipendenti dell’ente locale. Come Laura Ribotta, ingegnere e madre di tre figli, che ha portato la sua esperienza al convegno sul lavoro agile organizzato lo scorso ottobre a Milano, nell’ambito della kermesse “Il tempo delle donne”. «Lavoro da casa e ogni giorno devo garantire due ore di reperibilità, durante le quali rispondo alle mail e alle telefonate che arrivano al numero del Comune. Una volta alla settimana vado in ufficio». Per Ribotta il lavoro agile rappresenta una soluzione efficace per conciliare gli impegni lavorativi con la gestione della famiglia: «Non provo più quella sensazione di ansia, di fretta, la preoccupazione di non riuscire a fare tutto», ha raccontato l’ingegnere. Ma lo smartworking non è solo un’opzione destinata alle mamme, o a chi ha importanti carichi familiari: «Questa modalità consente alle aziende di attrarre nuovi talenti e di trattenere le professionalità già presenti: negli Stati Uniti e nel resto d’Europa è molto diffuso, mentre in Italia la mentalità dominante lo considera ancora un’opportunità riservata a chi ha tanti figli o a chi ha problemi di salute». Nel nostro Paese, infatti, è ancora opinione diffusa che la presenza in ufficio fino a tardi sia un punto di merito. Sfatare questo luogo comune è uno degli obiettivi che si è posta Elisabetta Caldera, responsabile delle risorse umane di Vodafone Italia, che ha coinvolto in un’iniziativa di smartworking, partita ad aprile 2014, 3.100 sui 7mila dipendenti delle 8 sedi italiane. «Volevamo sperimentare una modalità di gestione delle risorse umane innovativa e al passo con i tempi, che fosse attraente anche per i giovani, e passare da una cultura orientata alla presenza fisica a una cultura che mette al centro gli obiettivi», ha spiegato Caldera. «Si tratta di un passo culturale molto rilevante, specie in Italia, un Paese in cui la presenza in ufficio fino a tardi è ancora considerata come l’unico modo di fare carriera». Inoltre, ha sottolineato la responsabile Hr della multinazionale, «lo smartworking non è riservato solo alle donne con carichi familiari, ma rappresenta un modo diverso di lavorare per tutti, anche per gli uomini». Al progetto i dipendenti di Vodafone Italia hanno aderito su base volontaria. «Tra i lati negativi dell’esperienza di lavoro agile c’è la mancanza di socializzazione fisica con i colleghi, che per molti resta un’esigenza», ha spiegato Caldera. «Per questo abbiamo deciso di proporre un’adesione volontaria: se lo smartworking diventa una forzatura, i risultati sono scadenti». Finora i riscontri sono stati positivi, anche da parte dei capi, all’inizio i più restii. «Li abbiamo formati con corsi appositi, perché molti di loro, più gli uomini che le donne, temevano di non riuscire a controllare i dipendenti e ad accertarsi che lavorassero», ha precisato la manager. Non ci sono ancora dati definitivi sulla produttività, ma il gradimento sembra alto. «Nessun capo si è finora lamentato dei risultati raggiunti dai dipendenti in smartworking: le persone sono pronte per questo cambiamento», ha concluso Caldera.Quello che manca è però una normativa che regoli alcuni aspetti fondamentali del lavoro agile, come la sicurezza per i lavoratori che operano fuori dalla sede. Una proposta di legge bipartisan sul tema, che superava le norme esistenti sul telelavoro, era stata presentata a gennaio dello scorso anno dalle deputate Alessia Mosca (Pd), Barbara Saltamartini (Ncd) e Irene Tinagli (Sc), con l’auspicio che entrasse a far parte del Jobs Act. Ma nel testo della riforma del lavoro c’è solo un riferimento al vecchio “telelavoro”: lo smartworking, la forma di flessibilità "buona" che pure già esiste, non sembra rientrare nella lista delle priorità.

Povertà, in Italia dilaga anche tra i giovani che lavorano. E spunta la proposta Reis

È un'Italia sempre più povera quella fotografata dalle ultime indagini Istat: 6 milioni di poveri assoluti a luglio 2014, il dieci per cento circa della popolazione. Un milione sono bambini. Il numero è più che raddoppiato nei sette anni di crisi, dal 2007, quando erano "solo " il quattro per cento del totale. «È il dato centrale sulla recessione, ancora di più che la chiusura delle imprese» osserva Mauro Magatti, economista della Cattolica di Milano, all'incontro romano per il lancio del Reis, quel reddito di inclusione sociale più volte chiamato in causa negli ultimi tempi. L'Italia è l'unica a non averlo in dotazione in Europa, oltre alla Grecia. Mentre i numeri lanciano l'allarme sulla necessità di una misura di contrasto alla povertà assoluta, intesa come impossibilità di vivere dentro i confini di un'esistenza dignitosa, che rende proibitivi gesti semplici come consumare pasti proteici o fare fronte a esigenze minime. «Si tratta di chi non raggiunge uno standard di vita minimamente accettabile legato a un’alimentazione adeguata, a una situazione abitativa decente e a altre spese basilari come quelle per la salute, i vestiti e i trasporti» viene spiegato nel comunicato di lancio dell'iniziativa, supportata da una 'alleanza' composta da Acli e Caritas in testa, e a seguire decine di enti e associazioni come Save the children, Comunità di Sant'Egidio, Action Aid e sindacati come la Cgil. Perché questa ennesima emergenza italiana non sembrerebbe più rimandabile: il problema non riguarda «solo il Sud, ma anche il Nord, non più solo gli anziani, ma anche i giovani, non solo i disoccupati, ma anche chi lavora» sottolinea ancora Magatti. «Dentro ci sono lavoratori come precari, stagionali, nuclei familiari con minori con un unico soggetto che apporta reddito e che si trova in queste condizioni» gli fa eco Vera La Monica, rappresentante Cgil. Che riporta al centro un tema fondamentale, quello della povertà non solo di chi è a spasso, ma anche e soprattutto di chi lavora regolarmente, i cosiddetti working poor, o di chi entra e esce di continuo dal mercato del lavoro. A tutti loro il reddito percepito non basta. «C'è un impoverimento generale del mondo del lavoro» afferma, e sarebbe sbagliato sacrificare una politica per l'altra: «Sono necessarie entrambe», sia quelle contro la povertà assoluta che un «welfare di protezione per chi esce dal mondo del lavoro». Il sospetto è anche che le statistiche ufficiali non riescano a intercettare un'altra grande fetta della società che annaspa: i giovani poveri che pur con un impiego vengono mantenuti dalle proprie famiglie. Magari centinaia di migliaia di trentenni che non ce la fanno con i propri guadagni, con Isee bassissimi e aiutati dai genitori sessanta-settantenni per raggiungere livelli di vita simili a quelli su cui potevano contare prima di rendersi (si fa per dire) indipendenti. Poco importa che sia attraverso il pagamento dell'affitto o il regalo della casa. Perché, attenzione, «non ci si riferisce al fenomeno d’impoverimento che tocca una parte ben più ampia della popolazione, costringendola a rinunciare ad alcuni consumi che desidererebbe potersi permettere (qualche apparecchio tecnologico o la possibilità di andare fuori città in estate) senza però impedire la fruizione dei beni e dei servizi essenziali» come scritto nel report. Ma di un disagio ben più profondo. «È il costo vero di anni di non crescita, ed è ciò che dovrebbe interessare più di tutto se manca la possibilità di una vita degna e libera» insiste Magatti. Non è la prima volta che la questione fa capolino in Italia. Già all'epoca del governo Letta, su impulso dell'ex ministro del Lavoro Enrico Giovannini, fu lanciata una versione sperimentale del reddito sociale: la Sia (Articolo36 ne parlò qui). A oggi attivata e con qualche primo risultato misurabile: «Sono undici le grandi città in cui è partita, eccetto Roma, e i primi pagamenti sono arrivati da aprile a agosto» fa sapere il sottosegretario al Lavoro, Franca Biondelli, intervenuto all'incontro. Mentre sono «27mila le famiglie interessate» e «50 milioni» i fondi stanziati. Una goccia nel mare considerato che la platea dei potenziali beneficiari dovrebbe essere di 6 milioni e le risorse dieci volte maggiori. Solo un inizio dunque, e per di più con un'impostazione che il Reis vorrebbe superare.Quanto costerebbe infatti quest'ultima misura? 7 miliardi, riferisce Cristiano Gori, coordinatore del gruppo scientifico che ha studiato l'intervento. Più o meno quanto si era prefisso il precedente esecutivo. Ma invece di inserire una quota così elevata da subito nella legge di stabilità, l'idea è di iniziare con «1,5 miliardi nel primo anno, già a partire dal 2015, per poi salire fino ad arrivare alla cifra menzionata solo nel 2018», chiarisce Gori: «Stiamo parlando dell'1% della spesa ordinaria corrente». Attualmente «l'Italia investe lo 0,1% nella correzione della povertà, contro lo 0,5 dell'Europa». E l'obiezione che i soldi non ci siano è una scusa, sostengono i promotori. «Basta pensare agli 80 euro di Renzi, che pesano sul bilancio dello Stato per 10 miliardi», torna a dire Magatti. Il punto «è la volontà politica e il disegno». Se la misura andasse in porto, ai nuclei più bisognosi andrebbero 400 euro al mese in più. Ma è solo un importo indicativo, perché il sussidio dipenderebbe da una serie di dati incrociati che tengono conto non solo del reddito, ma anche dei beni patrimoniali come il possesso della casa. L'affitto o il numero di figli farebbero di conseguenza scattare gli aumenti. «Il livello di reddito monetario al di sotto del quale si percepisce il Reis è pari a 628 euro nel caso di una coppia con casa di proprietà, mentre sale a 1.003 euro se la coppia paga un affitto pari a 500 euro» spiega il documento. «Se la medesima coppia avesse un figlio i due livelli aumenterebbero corrispondentemente a 817 e 1.192 euro. Ovviamente tale livello risulterà maggiore in caso di un più alto canone di locazione e minore in caso contrario». Da segnalare poi che l'impianto generale non prevede solo il trasferimento monetario – per i detrattori mero «assistenzialismo» - ma anche servizi alla persona, come «percorsi di inclusione sociale e lavorativa per «il superamento dell'emarginazione dei singoli e delle famiglie attraverso la promozione delle capacità individuali e dell'autonomia economica» specifica il rapporto, e ancora «percorsi di welfare generativo» che consentano alla persona di impegnarsi nel volontariato, ad esempio, come contropartita al sostentamento ricevuto. Il rischio che le buone intenzioni dietro una misura a favore dei più deboli rimangano tali è alto. Del resto la data del lancio dell'iniziativa, alla vigilia della legge di stabilità, non è casuale. Il sottosegretario ha aperto una speranza parlando della povertà come «priorità per il governo». Nel frattempo però sono arrivate le prime anticipazioni sulla legge di stabilità, ancora a livello di bozza. E del Reis non sembra esserci nemmeno l'ombra.  

Neet, l'Europa lancia Youth2Work

Un progetto europeo per offrire una soluzione al problema dei Neet (Not being in Employment, Education or Training), i giovani che non lavorano, non studiano e non hanno nemmeno avviato un periodo di tirocinio: si chiama Youth2Work (Y2W) ed è una piattaforma online, finanziata con il sostegno della Commissione Europea nell’ambito del Lifelong Learning Programme, che offre a questi ragazzi la possibilità di seguire una serie di corsi interattivi, nell’ottica di migliorare la propria formazione e acquisire competenze che facilitino la ricerca di un lavoro.Sebbene la situazione di questi giovani, sospesi in un limbo senza prospettive, sia un grave problema per tutta Europa, in alcuni Paesi il fenomeno ha assunto dimensioni preoccupanti: il progetto Youth2Work include infatti tra i partner alcune tra le nazioni europee con le più alte percentuali di giovani senza lavoro e scoraggiati, come Italia, Grecia, Portogallo, insieme a Regno Unito, Austria e Svizzera. A scattare una fotografia recente della situazione italiana è stato il rapporto dell’Istat “Noi Italia 2014”: secondo l’indagine, nel nostro Paese i Neet sono oltre due milioni, pari a circa il 24% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni. Una cifra ben superiore alla media dell’Unione europea a 27 (15,9%); meglio dell’Italia fa anche la Spagna (22,6%), mentre Grecia e Bulgaria presentano percentuali più elevate (rispettivamente 27,1% e 24,7%). Ad avere le maggiori difficoltà sono le donne: in Europa il fenomeno riguarda in media il 17,8% delle ragazze, contro il 14% dei loro coetanei maschi. Anche in Italia le donne Neet sono più degli uomini (in media il 26,1%, contro il 21,8% dei ragazzi); nel nostro Paese esiste anche una forte discrepanza tra le aree geografiche, dato che nelle regioni del Sud persistono maggiori criticità nell’accesso all’occupazione. Sicilia e Campania sono le regioni dove la percentuale di Neet è più elevata, con il 37,7% e il 35,4%, seguite da Calabria e Puglia.La crisi economica, che ha portato a tagli per i finanziamenti ai programmi di supporto ai giovani disoccupati, non è però la sola causa di questo fenomeno: alcuni fattori personali e sociali – come la disabilità, le disparità di genere, la provenienza da una famiglia di migranti, la residenza in aree remote -aumentano la probabilità che un giovane faccia fatica a trovare la sua strada. Proprio a questi ragazzi il programma Youth2Work offre la possibilità di accedere a un programma personalizzato di sostegno, per consentire loro di sviluppare nuove competenze professionali e relazionali, che facilitino la ricerca di un lavoro. Youth2Work non si rivolge solo ai giovani, ma anche ai professionisti che lavorano nel settore della formazione, che attraverso la piattaforma possono sviluppare una maggiore sensibilità nei confronti delle problematiche dei Neet, oltre ad avere la possibilità di entrare in contatto con le migliori pratiche a livello internazionale in materia di supporto ai giovani disoccupati.Per partecipare, basta registrarsi al sito youth2work.eu e accedere ai vari servizi: come la community, attraverso la quale i ragazzi possono interagire, su un modello simile a quello dei social network, con altri giovani o con i formatori; oppure si può cliccare sulle sezioni in cui vengono trattati gli argomenti più “caldi” per chi è alla ricerca di un lavoro, da “L’imprenditorialità è la carriera che fa per te?” a “Come gestire il proprio tempo” a “Conosci te stesso e scopri le tue potenzialità”. Gli argomenti vengono affrontati con un approccio interattivo: i ragazzi possono scaricare video e materiali, oltre a rispondere a questionari e svolgere esercizi pratici. Tra i punti di forza del progetto Y2W c’è l’introduzione dei Career Circles (circoli di carriera), una metodologia di supporto mutuata da un’esperienza avviata nel Regno Unito, dove è stata utilizzata soprattutto per sostenere le donne che volevano avviare nuove attività imprenditoriali. Il metodo si presta ad essere utilizzato anche per altri gruppi di riferimento, come appunto i Neet:  far parte dello stesso Career Circle consente a questi giovani di confrontarsi con i coetanei, stimolando lo scambio di idee ed esperienze. Un altro aspetto positivo è dato dal fatto che quasi tutti i contenuti del sito sono disponibili in tutte le lingue degli Stati coinvolti (inglese, italiano, greco, portoghese, tedesco): alcune sezioni, però, come quella dedicata ai partner, sono disponibili solo in lingua inglese. Inoltre, la presenza di questionari di autovalutazione permette ai ragazzi di scoprire le proprie potenzialità personali, permettendo loro di comprendere meglio le proprie capacità e orientarsi più facilmente nella ricerca di un lavoro.Conoscere se stessi: la vecchia massima si riscopre efficace anche per i Neet del 2014, come confermano i partecipanti. «Prima di entrare nel programma ero molto insicura, e non riuscivo a capire come mai trovare un lavoro fosse così complicato per me», scrive Cristina, greca. «Durante il progetto ho capito quali erano le mie difficoltà e ho trovato il modo di affrontarle: mi ha aiutato molto». Nicola, italiano, è invece un coach esperto di «transizione di carriera, o se preferite reinserimento professionale: basta non chiamarla disoccupazione, un termine antiquato e non aderente alla realtà», scrive. Per Nicola «cercare un lavoro è un'esperienza sicuramente impegnativa, ma è anche un percorso di crescita, di conoscenza, un'avventura per la vita! Il canale che offre maggiori possibilità di assunzione», sottolinea il coach, «è la rete di contatti. È una conferma. Puntate le energie sulla costruzione e attivazione di una rete di conoscenze. Siate motivati, pensate che ogni contatto può portarvi a conoscere la persona giusta, siate sempre attenti al modo in cui instaurate relazioni, e non dimenticate di curare sempre il vostro aspetto».