Apprendistato questo sconosciuto – Tiraboschi: «No allo stage come "contratto di inserimento": per quello ci sono oggi altri strumenti»

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 15 Giu 2009 in Approfondimenti

Lo stage deve svolgere esclusivamente una funzione di formazione e orientamento per i giovani: utilizzarlo in altro modo, come equivalente di un rapporto di lavoro a basso costo, è sbagliato. Ne è convinto Michele Tiraboschi [foto], giuslavorista e direttore scientifico di ADAPT - Centro Studi Marco Biagi: «Nel 1997, quando venne per la prima volta introdotto, lo stage rappresentava uno dei pochi canali di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Oggi, dopo le leggi Treu e Biagi, esistono moltissimi altri strumenti che la normativa prevede per agevolare l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».
Per esempio? «Innanzitutto, quello che si chiama appunto il “contratto di inserimento”, dedicato in primis ai giovani sotto i trent’anni». Dura dai 9 ai 18 mesi, non è rinnovabile e prevede, come spiega il decreto legislativo 276/2003 (la fonte normativa di riferimento per l’attuazione dei principi contenuti nella legge Biagi), che i lavoratori siano inquadrati due livelli sotto la categoria spettante e non siano compresi nel «computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l'applicazione di particolari normative e istituti» (articolo 18, per intenderci). Una clausola interessante è quella che prescrive che, per utilizzarlo continuativamente, un’impresa debba assumere almeno il 60% dei lavoratori «il cui contratto di inserimento sia venuto a scadere nei diciotto mesi precedenti». Questo contratto esige l’esistenza di un «progetto individuale di inserimento, finalizzato a garantire l'adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al contesto lavorativo» e di un libretto formativo dove segnalare la «formazione eventualmente effettuata».
Una cosa un po’ diversa, ma che può sempre tornare utile ai ragazzi per raggranellare qualche soldo extra, è poi il sistema dei «buoni lavoro»: «prestazioni di lavoro occasionale e accessorio» riservate  a giovani studenti, con meno di 25 anni, durante il fine settimana e le vacanze. Lo strumento può essere usato in tutti i settori produttivi per compensi non superiori ai 5mila euro annui.
«Ci sono poi oggi i contratti a chiamata, un part-time più flessibile, il lavoro ripartito, il lavoro a progetto che consentono un impiego di lavoro flessibile con prestazioni retributive e contributive standard» ricorda Tiraboschi.
E infine c’è l’apprendistato, che in effetti andrebbe considerato l’unico vero contratto di “formazione - lavoro” corretto, almeno secondo la circolare 40/2004 firmata da Roberto Maroni che all’epoca era ministro del Lavoro: «Con il decreto legislativo n. 276 del 2003 l'apprendistato diventa l'unico contratto di lavoro a contenuto formativo presente nel nostro ordinamento, fatto salvo l'utilizzo del contratto di formazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Nel settore privato, per contro, il contratto di formazione e lavoro continuerà infatti a trovare applicazione in via transitoria e meramente residuale». Nemmeno il contratto di inserimento, a voler essere pignoli, potrebbe essere annoverato tra i contratti di formazione - lavoro, perché «la formazione del lavoratore è solo eventuale e non integra un elemento caratterizzante del relativo tipo contrattuale». Insomma, l’unica via giusta da seguire per formare un giovane dovrebbe essere quella del contratto di apprendistato, indicato nella circolare come lo «strumento idoneo a costruire un reale percorso di alternanza tra formazione e lavoro, primo tassello di una strategia di formazione e apprendimento continuo lungo tutto l'arco della vita».
L’apprendistato, profondamente riformato dalla legge Biagi, oggi si divide in tre tipi: il primo dedicato ai giovanissimi (per il diritto-dovere di istruzione e formazione, con una durata massima di tre anni), il secondo detto «professionalizzante» (per il conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale, con una durata variabile da due a sei anni), e il terzo per «percorsi di alta formazione» (specificamente pensato per chi sta facendo l’università o altre forme di alta specializzazione). Quest’ultimo tipo di apprendistato, però, è  sottoutilizzato: «Negli ultimi tre anni ne sono stati attivati poco più di mille in tutta Italia: davvero troppo pochi» si rammarica Tiraboschi. Eppure l’apprendistato ha innegabili vantaggi per l’azienda: il limite numerico degli apprendisti è 1 a 1, cioè se ne possono avere tanti quanti sono i propri dipendenti (nel caso dello stage per esempio il rapporto è invece 1 a 10), la quota contributiva è bassa. Ma sconta il fatto di essere poco conosciuto: «La priorità oggi è incentivare al massimo questo strumento, che potrebbe in molti casi sostituire lo stage e permettere ai ragazzi di guadagnare mentre imparano – ma, a differenza dei rimborsi spesa, in maniera trasparente e coerente con la normativa» rincara il professore, aggiungendo che alla luce di questo quadro normativo
«lo stage non può più essere utilizzato come contratto di inserimento, con mini retribuzioni, per un numero significativo di mesi, senza alcuna finalità formativa e di orientamento, ma al solo fine di abbassare il costo del lavoro». Con la flessibilizzazione del mercato del lavoro, insomma, secondo Tiraboschi lo stage dovrebbe «tornare a essere uno strumento di raccordo tra scuola, formazione e mercato del lavoro e non una forma strutturata di mini-lavori», e abbandonare quindi la funzione di inserimento lavorativo.
In concreto, però, dei 300mila stagisti che ogni anno invadono le imprese private e gli enti pubblici, si può calcolare a spanne che almeno un terzo cerchi attraverso lo stage proprio una porta d’ingresso nel mondo del lavoro. Prova ne sia che gli stage vengono svolti non solo durante i percorsi formativi, ma anche dopo; che la funzione di inserimento lavorativo viene ribadita anche in programmi pubblici o semipubblici (ad esempio il Progetto Fixo, che prevedeva un premio in denaro per quelle aziende che avessero assunto uno stagista); e che gli stage sono ampiamente utilizzati anche dai centri per l’impiego, dove la gente va per trovare – appunto – un impiego. Professor Tiraboschi, questo si può ignorare? «Non si deve ignorare, ma correggere. Usare lo stage come inserimento lavorativo è una forzatura. Le aziende non dovrebbero utilizzare lo stage come periodo di prova allungato: dovrebbero invece cominciare a utilizzare gli altri strumenti che la normativa mette a loro disposizione a questo scopo».

E allora, è giusto che anche i media e il web si impegnino per far conoscere l’apprendistato. La Repubblica degli Stagisti certamente farà la sua parte per promuoverne l’utilizzo: del resto, già nella Carta dei diritti dello stagista avevamo messo nero su bianco che lo stage non avrebbe dovuto essere considerato l’unico strumento per realizzare una formazione, e che sarebbe stato giusto incentivare proprio l’utilizzo dei contratti di apprendistato.

Eleonora Voltolina

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