Categoria: Editoriali

Nuove leggi sugli stage, 15 Regioni su 20 non hanno rispettato la scadenza

Tre giorni fa, il 25 novembre, è scaduto il termine ultimo per le nuove leggi regionali in materia di stage. Entro quel giorno tutte le Regioni italiane, cioè, avrebbero dovuto adeguare le proprie normative ai contenuti delle nuove Linee guida sui tirocini, approvate a fine maggio in Conferenza Stato-Regioni.La verità è che le Regioni sono in clamoroso ritardo. La Repubblica degli Stagisti sta svolgendo una ricognizione dalla quale emerge questo quadro: soltanto cinque Regioni hanno già completato l'iter legislativo per aggiornare le proprie normative. Si tratta di Lazio (la prima a tagliare il traguardo a inizio agosto), Basilicata, Veneto, Sicilia e Calabria. Altre due Regioni sono in dirittura d'arrivo, la Lombardia e la Valle d'Aosta: hanno il nuovo testo già pronto e manca solo qualche ultimo passaggio formale per l'approvazione. E le altre 13 Regioni? La situazione è varia. Ve ne sono alcune che non hanno ancora neppure cominciato a elaborare il nuovo testo; altre che hanno una bozza, ma la tengono strettamente riservata e talvolta nemmeno la condividono con le parti sociali (sindacati, associazioni datoriali). Altre ancora hanno avviato tavoli con le parti sociali e sono a metà o tre quarti del cammino. Fintanto che le nuove leggi non vengono approvate, in ciascuna Regione restano ovviamente in vigore quelle precedenti.Ma perché le Regioni sono così in ritardo? Al netto delle inefficienze tipiche della pubblica amministrazione e dei ritardi della burocrazia, vale la pena ricordare che il recepimento delle nuove linee guida non è un affare indolore dal punto di vista politico. Vi sono dei punti controversi, che non tutte le Regioni probabilmente vogliono recepire. In ogni caso, non sono tenute a farlo. Le linee guida non sono che una traccia, un suggerimento senza valore vincolante. Ciascuna amministrazione regionale può decidere di discostarsi anche in maniera significativa da ciò che le linee guida prescrivono.Lo ha fatto il Lazio, ignorando l'indicazione relativa all'indennità minima - 300 miseri euro al mese, dicono le Linee Guida - e innalzando tale indennità addirittura a 800 euro al mese, e ignorando la prescrizione di aumentare la durata massima dei tirocini a 12 mesi anche per i tirocini formativi e di orientamento (oltre che per quelli di inserimento o reinserimento). Cosa che già aveva fatto anche il Veneto, dove la durata massima resta infatti 6 mesi per entrambe le tipologie.Teoricamente le Regioni potrebbero discostarsi dalle linee guida solo in un'ottica di miglioramento e quindi di maggiori garanzie a favore dello stagista (come in effetti è accaduto nei casi citati sopra di Lazio e Veneto): «Le linee guida indicano taluni standard minimi di carattere disciplinate la cui definizione lascia, comunque, inalterata la facoltà per le Regioni e province autonome di fissare disposizioni di maggior tutela» si legge appunto nel testo licenziato dalla Conferenza Stato - Regioni lo scorso maggio. Ma in realtà negli anni passati si sono visti anche peggioramenti (come per esempio la legge della Campania).I punti maggiormente critici sono: la durata massima, l'ammontare dell'indennità minima, la possibilità di fare stage in aziende senza dipendenti, la proporzione massima tra numero di stagisti e numero di dipendenti (e chi si conteggia tra i dipendenti: solo chi ha contratto subordinato o anche i collaboratori? Solo chi lavora stabilmente a tempo indeterminato o anche i contratti a termine?), l'impianto sanzionatorio in caso di violazione delle prescrizioni normative...Non resta che attendere le 15 regioni ritardatarie, e analizzare caso per caso le nuove normative per capire come si propongono di tutelare le persone più o meno giovani che si trovano a fare tirocini.Eleonora Voltolina

Sciopero contro l'alternanza scuola lavoro: ragazzi, non sbagliate bersaglio

Ieri i giovani sono scesi in piazza contro l'alternanza scuola lavoro. Uno sciopero indetto dalle sigle di rappresentanza degli studenti delle scuole superiori e sostenuto da molte altre realtà. Il messaggio: non vogliono essere sfruttati. A una come me, che da quasi un decennio si batte per i diritti degli stagisti e contro lo sfruttamento, viene da piangere.Ma ragazzi, che state dicendo? Dite che non è giusto che facciate esperienze di lavoro, che alla vostra età dovreste solo studiare sui libri. Da anni però è ormai assodato che uno dei motivi per cui in Italia la disoccupazione giovanile è così alta è che non c'è un buon dialogo e coordinamento tra sistema scolastico e mondo del lavoro. Ci sono dati statistici incontrovertibili che dimostrano che in tutti i Paesi dove l'alternanza scuola-lavoro viene realizzata, come Svizzera Austria e Germania, il tasso di disoccupazione giovanile è bassissimo. Noi abbiamo quasi il 40%, uno dei tassi più alti d'Europa. Vogliamo farci qualcosa o ce lo teniamo così?Dite che non volete svolgere mansioni semplici, umili, di fatica come servire hamburger. Eppure vi è un enorme  valore formativo, a 17 anni, a imparare come si sta in un negozio. Come si serve un cliente. Come ci si rapporta con il proprio superiore, come si arriva puntuali e in ordine, come si sta sul posto di lavoro. Sì, anche per chi fa il liceo, anche per chi pensa che il cameriere non lo farà mai nella vita (e poi, chi lo sa?), un'esperienza di qualche settimana a fare un mestiere non di concetto è più che utile. È prezioso.Dite che 200 ore sono tante. Ma 200 ore sono 25 giorni. 25 giorni da diluire nell'arco di 3 anni. E quanti ce ne vogliono prima che ciascuno di voi, che nella maggior parte dei casi non ha mai messo giustamente piede prima in un luogo di lavoro, anche solo capisca dov'è e come si deve muovere? Pensate davvero che un'azienda possa usarvi per sostituire i suoi dipendenti? No. I 17enni in alternanza scuola-lavoro non sono appetibili a questi fini. Altri lo sono, e io mi batto tutti i giorni da molti anni per fermare lo sfruttamento. Ma proprio perché mi batto contro lo sfruttamento, so riconoscere lo sfruttamento. E no, fare 3 settimane in alternanza in un ristorante o un'officina meccanica o un ufficio comunale non è sfruttamento.Ancora sulla durata: per gli istituti tecnici e professionali le ore sono 400. Di nuovo, si tratta di 50 giorni. Da diluire in tre anni. Di cosa stiamo parlando?C'è tanta confusione, a partire dalla terminologia. Ho letto articoli di giornale ridicoli, che mischiavano le vostre esperienze in alternanza scuola-lavoro con i tirocini curriculari degli studenti universitari. Una confusione inaudita e pericolosissima. Forse li avete letti anche voi, forse hanno confuso anche voi. La verità è che i vostri percorsi non andrebbero chiamati stage, perché sono una cosa diversa. Perchè VOI siete diversi. Siete studenti, siete nella stragrande maggioranza dei casi ancora minorenni o neomaggiorenni, e i vostri percorsi formativi durano pochissimo, quasi sempre meno di un mese. Per questo ho già lanciato mesi fa alla ministra Fedeli la proposta di trovare una denominazione ad hoc per queste esperienze, per esempio "work experience", eliminando completamente la dicitura "tirocini" che può trarre in inganno, ed elaborando un quadro normativo ad hoc. Certo, ci sono stati brutti casi. E' vero. Ad alcuni di voi è capitato di essere messi a fare cose completamente slegate dal progetto formativo che vi era stato prospettato. Aziende sconsiderate, che non avevano capito nulla di cosa volesse dire ospitare uno studente in alternanza scuola-lavoro. Queste storture vanno denunciate. Ma bisogna anche avere la pazienza necessaria a che la cultura dell'alternanza scuola-lavoro prenda piede anche in Italia. E sopratutto non bisogna buttare il bambino con l'acqua sporca. L'alternanza scuola-lavoro è preziosa per il vostro futuro. Non per il mio. Non per quello dei vostri genitori, o dei vostri insegnanti, o del ministero dell'istruzione o del governo. Per il vostro futuro. Per darvi le basi per essere cittadini più consapevoli, lavoratori più consapevoli. La cosa migliore sarebbe offrire agli studenti, all'interno dell'alternanza, percorsi di work experience in linea con gli studi. Mandare gli studenti di liceo classico in uno studio legale, in un museo, in un'agenzia di comunicazione. Mandare quelli dello scientifico in uno studio di architettura, o presso l'ufficio di un ragioniere, o in una società informatica. Mi seguite? State annuendo? Attenzione però. Perché questo vuol dire anche mandare i ragazzi dell'alberghiero in un albergo, o un ristorante. Vuol dire mandare quelli dell'Itis in un'autofficina. Però – anzi, perciò – questa coerenza rischia anche di diventare una gabbia. E sopratutto, ci vuole tempo per trovare le aziende disponibili a ospitarvi, ragazzi. Non tutte vi vogliono. È molto impegnativo accogliervi, se vi si vuole accogliere bene. Ecco perché a volte il sistema del "match" salta, e le scuole vi mandano dove possono, presso le aziende che hanno dato la disponibilità a ospitare studenti in alternanza, senza fare particolare caso alla coerenza del settore di attività di quelle aziende con i vostri percorsi formativi.Allora c'è da gridare allo scandalo, se si viene assegnati a un fast food? La domanda vera è: si può diventare più consapevoli di come funziona il mondo servendo per qualche giorno hamburger? Certamente no, se si hanno 25 anni, magari un titolo di studio, e si ambisce a trovare un lavoro e a mantenersi. Altrettanto certamente sì, però, se si hanno 17 anni, e quell'esperienza è solo un modo per "assaggiare", per pochi giorni, il mondo del lavoro dopo aver tanto studiato sui libri, e con la prospettiva di tornare subito dopo a quei libri.E allora una domanda ve la faccio io, ragazzi che siete scesi in piazza a protestare. Voi che considerate umiliante e inappropriato passare due o tre settimane a servire hamburger o a disporre scatolette nello scaffale di un supermercato, e che sicuramente sapete che tutti i mestieri sono degni, siete consapevoli che centinaia di migliaia di persone fanno questo per vivere, tutti i giorni? Si alzano la mattina e svolgono esattamente quelle mansioni, per otto ore al giorno, per portare a casa lo stipendio con cui poi pagano i libri per mandare i loro figli – alcuni dei quali siete proprio voi, sì – a scuola. Non fate, vi prego, l’errore di denigrare questi mestieri. Di giudicarli privi di contenuto formativo. Non pensate che non vi sia formazione nell'imparare come si dispone la merce su uno scaffale, come si risponde alla lamentela di un cliente, come si rispetta la consegna di un compito assegnato dal capo, come si imparano le fasi della preparazione di un prodotto. Non sono mestieri degni solo quelli in cui non ci si sporcano le mani. Un periodo "on the job" in un supermercato è un'esperienza preziosa anche per chi nella vita punta a diventare un(a) supermanager, o un(a) grande avvocato-a, o presidente(ssa) del consiglio. Imparare, scoprire con umiltà come funziona il mondo del lavoro, anche partendo dai mestieri più semplici, consente di capire meglio il mondo.E anche se così non fosse, un'esperienza del genere comunque almeno un risvolto positivo ce l'ha di sicuro: stimola a rispettare le persone che lavorano, che ci servono al tavolo quando siamo al ristorante, che ci mostrano le magliette nei negozi, che ci accolgono nei posti dove noi siamo i clienti e loro gli inservienti. È un bel bagno di realtà. Magari non proprio piacevole, ma educativo.Lo so che è una posizione scomoda, la mia. Lo so che sarebbe più facile per me dirvi quello che vi dicono tanti altri, sobillarvi, dirvi “fate bene a protestare! Che vergogna! Uno studente non dovrebbe essere usato per queste mansioni degradanti!”. Ma se c’è una cosa che ho preferito fin qui sopra ogni altra, nel mio lavoro, è l’onestà intellettuale. E se voglio essere onesta con voi, devo dirvi che tutto questo livore verso l’alternanza scuola-lavoro non ha ragione di esistere. Che nessuno vi sta sfruttando. Che state avendo delle opportunità – più o meno ben organizzate, più o meno ben strutturate – di “assaggiare” il mondo del lavoro. Chi dice che queste opportunità non sono importanti, che sono umilianti, usa parole forti, fa la voce grossa e ottiene i titoli di giornale. Io invece voglio parlare alla vostra testa, non alla vostra pancia.Penso, ragazzi, che avreste molte cose per cui protestare. I fondi per il diritto allo studio che sono stati troppo scarsi per troppo tempo; adesso sono aumentati, finalmente, ma la verità è che non sono mai abbastanza. Il sistema didattico vetusto. Le dotazioni tecnologiche ridicole nelle scuole. La mancanza di un sistema di orientamento serio, che vi aiuti a scegliere al meglio cosa fare dopo le superiori.Avreste tante cose per cui battagliare. Non sbagliate bersaglio.Eleonora Voltolina

Cerco ingegnere a 600 euro al mese, ovvero l'analfabetismo degli addetti alle Risorse umane

Gira sui social, da un paio di giorni, un trafiletto che ha suscitato indignazione, tamtam sui media e perfino l'annuncio di un'interrogazione parlamentare al ministro del Lavoro. Si tratta della foto di un'inserzione pubblicata su un giornale cartaceo, una come diecimila altre, che offre un posto a un ingegnere, descrivendo il profilo richiesto e indicando il link al sito aziendale dove è possibile candidarsi inviando il cv.La fiammata di sdegno riguarda le condizioni offerte: «Contratto di 6 mesi, 600 euro netti al mese, ticket restaurant per ogni giorno lavorato» recita l'annuncio. Per questa proposta l'azienda in questione cerca un ingegnere civile con laurea magistrale «a pieni voti», che parli bene il tedesco e possibilmente anche l'inglese, che magari abbia fatto un Erasmus (esperienza molto apprezzata in sede di selezione), e che sia disponibile alle trasferte.È talmente palese che, se si trattasse di un'offerta di lavoro, la job description sarebbe completamente sproporzionata rispetto alle condizioni economiche offerte, che non serve neanche ripeterlo. All'occhio di qualsiasi esperto di mercato del lavoro è altrettanto palese che non si tratta di un annuncio di lavoro, bensì di un annuncio di stage. La durata, il compenso, il profilo ricercato: tutti gli indizi fanno intendere che la bufera si sia scatenata su un qui pro quo. Quel che appare un'offerta di lavoro umiliante e al ribasso, è in realtà un'offerta di stage come mille altre.E allora qual è il problema? È che l'inserzione è stata evidentemente  scritta coi piedi. Perché non appare mai la parola stage: anzi, appare la parola “contratto”, che è totalmente fuorviante (uno stage non è un contratto di lavoro!). Il proprietario dell'azienda, chiamato in causa in uno dei tanti articoli scaturiti dall'indignazione del web, si è difeso dicendo che in Gruppo Dimensione offrono lo stage come primo step a molti giovani e che poi assumono più di tre quarti degli stagisti con un vero contratto di lavoro subordinato. Ebbene, sarebbe il caso che lunedì mattina quel proprietario facesse una colossale lavata di capo al suo direttore Risorse umane. Perché la sua azienda non sarebbe mai finita in questa bufera se la persona incaricata del recruiting avesse fatto bene il suo mestiere.Delle due, l'una: o si tratta di una persona completamente ignara dei fondamenti del diritto del lavoro, che non conosce nemmeno la differenza tra un contratto di lavoro e un tirocinio; oppure di un furbetto che ha pensato bene di scrivere “contratto” anziché “stage” nella speranza di attirare più candidature. Non saprei proprio quale opzione augurarmi. In ogni caso, il risultato per l'azienda è stata una tonnellata di pubblicità negativa, un pesante colpo alla propria “reputation” sui social e non solo.Qual è la morale di questa storia? Che in Italia si devono fare dei passi avanti nella gestione delle risorse umane, e al più presto. Le imprese farebbero meglio a capire che ciascun ufficio HR è un biglietto da visita, che ormai si viene giudicati dai cittadini anche per come si trattano i propri dipendenti (e stagisti). E che ogni annuncio di stage e di lavoro, oggi, è quasi come una pagina pubblicitaria: dunque bisogna stare molto attenti a ogni singola parola.Il mercato del lavoro italiano è ancora immaturo, drammaticamente opaco. Troppe aziende pensano di poter ancora agire come trent'anni fa, pubblicando inserzioni imprecise, offrendo ai colloqui condizioni diverse da quelle prospettate nell'annuncio, giocando sulla sproporzione di forze tra chi offre lavoro (l'azienda) e chi più o meno disperatamente lo cerca (i candidati). Pensano che questi comportamenti resteranno senza conseguenze. Ma il web ha cambiato tutto. Questa azienda piemontese lo ha scoperto nel modo più traumatico, con una vera e propria doccia fredda: il suo annuncio di stage, tutto sommato dignitoso, banale nella sua normalità, è finito nel tritacarne e l'azienda non può biasimare che sè stessa. Se avesse prestato più attenzione al modo e alla veridicità in cui comunicava all'esterno le opportunità offerte, niente di tutto questo sarebbe successo. Bastava essere trasparenti e chiamare le cose con il loro nome: uno stage è uno stage, e va chiamato col suo nome, e non confuso con – o spacciato per – un contratto di lavoro.Eleonora Voltolina

La Repubblica degli Stagisti cambia il mondo del lavoro: arriva il riconoscimento di Ashoka

Cos'è Ashoka? Fino a un paio d'anni fa, anch'io non lo sapevo. Dico “anch'io” perché Ashoka non è ancora conosciuta, in Italia, così come lo è invece all'estero. Eppure si tratta di qualcosa di straordinario: un'organizzazione non profit che opera come una sorta di talent scout degli imprenditori sociali. Cerca in tutto il mondo coloro che lavorano per risolvere un problema che interessa la società – in qualsiasi ambito: ecologia, educazione, diritti. Li individua, li valuta, li passa al microscopio. E chi passa la selezione diventa “Ashoka Fellow”: entra nel network e da quel momento in poi l'associazione offre il suo supporto per sviluppare l'attività, renderla ancor più efficace e diffusa, talvolta anche esportarla in altri Paesi.Il motto di Ashoka è “Everyone a changemaker”: gli imprenditori e le imprenditrici sociali sono «changemaker che mirano ad un cambiamento sistemico, affinché prosperi l'intera comunità». In estrema sintesi: individuano un problema, si inventano una soluzione nuova, la strutturano in una modalità imprenditoriale, coinvolgono il loro target di riferimento, elaborano e promuovono proposte da sottoporre ai politici per migliorare il contesto di riferimento a livello normativo.Ashoka è attiva dal 1980; l'headquarter é a Washington ma i 3.300 fellow selezionati in questi trent'anni sono sparsi in tutto il mondo. La sede italiana è stata aperta un paio d'anni fa. Quasi un anno fa ho ricevuto una telefonata e ho saputo che ero stata “segnalata”. Ho cominciato il primo step di selezione con curiosità e timore, mantenendo le aspettative al minimo – perché era chiaro che il procedimento era lungo, complesso, e le probabilità di arrivare alla fellowship molto scarse. Invece, step dopo step, sono arrivata alla fine: Ashoka si è convinta che la Repubblica degli Stagisti potesse davvero essere un esempio forte di come si può aggredire un problema sociale che riguarda i giovani – le difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro, gli stage che da opportunità rischiano di trasformarsi in trappola, se non gestiti in maniera responsabile – con un'idea nuova. Una testata giornalistica online che diventa luogo di incontro, informazione, denuncia, proposta; un meccanismo inclusivo che coinvolge il mondo delle imprese, valorizzandole e responsabilizzandole, e attraverso questa collaborazione garantendo anche la sostenibilità economica del progetto (fattore importantissimo per Ashoka: non si sostengono sognatori tout court, ma imprenditori sociali).Così, Ashoka ha detto sì. Ha detto che quel che ho fatto finora con la Repubblica degli Stagisti è importante, innovativo, e merita di essere sostenuto. Da oggi, e nei prossimi anni, Ashoka sarà dunque al mio, al nostro fianco. Valuterà con noi le strategie per rinforzare la Repubblica degli Stagisti, ampliare gli orizzonti di attività, consolidare il legame con i giovani, aumentare le imprese coinvolte, proseguire nel lavoro di proposta politica per migliorare il quadro normativo. Ipotizzare anche repliche in altri paesi dove la situazione degli stagisti sia simile all'Italia.Dire Ashoka vuol dire sopratutto il grande network di Ashoka, con tante possibili sinergie con i fellow italiani (io sono l'undicesima), ma anche con quelli stranieri che hanno realizzato progetti e iniziative su temi vicini al nostro. Da oggi ne faccio parte anch'io. E dico grazie. A chi ci ha creduto, a chi ci ha aiutato, a chi ha collaborato. Sono passati otto anni da quando presentammo il progetto al Circolo della Stampa di Milano, con le prime nove aziende pioniere che avevano creduto in noi. Con Ashoka a fianco a noi, i prossimi otto saranno una sfida entusiasmante per crescere ancora!Eleonora VoltolinaL'immagine è di © Alessandro Lorenzelli

Se il ministro dice che é più probabile trovare lavoro giocando a calcetto che mandando cv

In effetti, Giuliano Poletti non ha detto proprio questo. La sua frase originale aveva una sfumatura un po' diversa; sottolineava il fatto che le opportunità di lavoro spesso nascono da rapporti di fiducia, e che è più facile costruire questo rapporti in occasioni informali (la metafora del calcetto) piuttosto che formali (inviando un cv).Dunque il ministro ha detto una cosa sostanzialmente vera, sopratutto in un mercato del lavoro imperfetto e opaco come quello italiano: che il networking conta moltissimo, a volte addirittura più delle competenze. Un dato di fatto, suffragato da dati e ricerche che dimostrano che nella maggior parte dei casi le posizioni di lavoro vacanti vengono occupate grazie al passaparola, alle conoscenze, alle segnalazioni, e non mettendo un bell'annuncio e valutando in cv in maniera imparziale (ed efficiente).Dunque tutto ok? Ha fatto bene Poletti a dire quello che ha detto? No. Non ha fatto bene per niente – per almeno tre ragioni. Per il suo ruolo. Per la platea che aveva di fronte. E per la responsabilità politica.Il suo ruolo è quello di ministro del Lavoro. Lui al momento rappresenta, in Italia, la persona che più di tutte ha competenze e poteri in tema di occupazione. Non é un semplice cittadino: è il ministro della Repubblica incaricato dal presidente del Consiglio di occuparsi di questo tema. Se queste stesse parole fossero state pronunciate da un manager, magari in forma di consiglio ai ragazzi, per suggerire loro di non sottovalutare i contesti informali nella loro azione di ricerca di lavoro, non ci sarebbe stato nessun problema. Ma un ministro è un ministro. Deve essere continente. Deve misurare le parole col bilancino, stando attento al fatto che quel che dice assume inevitabilmente una valenza politica. Con quelle parole - effettivamente poste come un dato di fatto, senza una nota di biasimo o rammarico - è come se lui avesse posizionato il suo ministero, avesse avallato questo stato di cose. Non è opportuno che l'abbia fatto, perché appunto è il ministro del Lavoro.Secondo, perché si rivolgeva per giunta a giovanissimi. La frase é stata pronunciata a Bologna, durante un incontro con gli studenti di un istituto tecnico a cui il ministro era andato a parlare di alternanza scuola - lavoro. Un contesto delicato, una platea delicatissima: adolescenti alle prime armi, ancora digiuni di esperienze di lavoro, ma già bombardati da una narrazione a tinte fosche, in cui trovare un lavoro decente e guadagnare uno stipendio degno sono descritti come obiettivi difficili da raggiungere. Giovani sfiduciati, a cui non di rado cattivi maestri insegnano che studiare non porta a niente e che con la cultura non si mangia. Un ministro del Lavoro, di fronte a una platea come questa, deve scegliere con cura e con senso di responsabilità i messaggi da lanciare. Anche se magari é vero che attraverso gli amici del calcetto qualche volta si viene a sapere di qualche opportunità di lavoro, non sta al ministro occuparsi di questo aspetto. Altri lo faranno. A lui sta il compito di sottolineare quanto le competenze siano importanti nel mondo del lavoro, quanto la fatica sui banchi di scuola, magari intervallata da work esperience, abbia senso e non vada sottovalutata. Lui è la figura che più di tutte le altre dovrebbe rappresentare una guida per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro: il suo ruolo non è quello di indicare strade secondarie, nell'implicita ammissione che quelle maestre (quelle su chi lui ha potestà) non funzionano a dovere. Perfino io, nel mio piccolo, ho cura di modulare il registro a seconda delle diverse platee che mi trovo di fronte; e tengo sempre bene a mente che, quanto più giovani sono coloro che ho davanti, tanto più devo sforzarmi di modulare i messaggi dosando realismo e ottimismo, e sopratutto trasmettendo i valori più importanti. Qui il valore più importante è che bisogna studiare tanto, perché le competenze sono la chiave di tutto. Il terzo punto è che una frase così equivale ad abdicare. Cosa aggiunge alla situazione dei giovani italiani che attraversano il guado tra formazione e lavoro? Niente. Nella frase non c'è una analisi critica, ma sopratutto non c'è non dico una proposta politica, ma nemmeno una rivendicazione del proprio operato. Non c'è un rendiconto di ciò che sta facendo questo ministero, e più in generale questo governo, per sanare la situazione, per rendere più vivo e fluido e meritocratico il mercato del lavoro. È come se si dicesse: la situazione é questa, prendetene atto e agite di conseguenza. Personalmente non ho nulla contro il pragmatismo: essere concreti e non millantare sono qualità che apprezzo. Ma di fronte a una situazione critica, a un malcostume, un esponente del governo non può cavarsela con una battuta. E' il miglior regalo all'antipolica.Eleonora Voltolina

Qualche idea (non richiesta) per creare centomila posti di lavoro

Ecco qui una serie di proposte, non certamente rivoluzionarie, da tempo in circolazione, ma incomprensibilmente mai prese in considerazione.Primo, inserire nel sito di Anpal, l'agenzia nazionale delle politiche attive per il lavoro, un “modello informativo” che carichi tutte le vacancies attive in Italia. Come? Basta imporre per legge che qualsiasi instaurazione di rapporto di lavoro (o meglio, qualsiasi comunicazione obbligatoria) debba essere precedentemente dichiarata dal datore o ente intermediario – non si esclude così il ruolo di attori terzi che possono caricare la vacancy mantenendo l'anonimato del datore di lavoro – sul sito di Anpal.  L’obiettivo è quello di permettere che tutte le persone interessate possano candidarsi, senza che questo vada a pregiudicare la scelta da parte del datore di lavoro. Il modello garantirebbe, a spanne, quasi un milione di opportunità caricate ogni anno; questa proposta aspira al fatto che nel breve-medio periodo si realizzi un più efficace macthing tra domanda e offerta di lavoro. Così finalmente andando sul sito di Anpal o in un centro per l'impiego si troverebbero delle opportunità di lavoro nel proprio territorio.Secondo, in pochissimi casi c’è la vera necessità di fornire nuove competenze ai neo-laureati – nulla che in poche settimane non si riesca ad ottenere tramite formazione interna – mentre a questi giovani serve esperienza. Invece, spesso sono gli adulti lavoratori over 50 che dovrebbero formarsi (pensiamo alle nuove competenze nella web analysis): a volte le loro competenze sono obsolete e questo è purtroppo soprattutto vero nella pubblica amministrazione. Quindi i lavoratori della PA con più di 50 anni con titoli di studio bassi o non più coerenti con la professione svolta, potrebbero prendersi un anno sabbatico per consolidare nuove competenze e contemporaneamente al loro posto giovani neolaureati potrebbero venir assunti a tempo determinato per un anno, con la totale trasparenza che tale contratto non comporti la successiva stabilizzazione. Il modello di Job-Rotation verrebbe replicato a scaglioni tutti gli anni: a spanne, 30mila soggetti l’anno.Terzo, in tema di mobilità occupazionale va generalizzato il sistema Eures, ovvero si deve replicare in almeno tutti i capoluoghi di Regione il  modello presente oggi a Milano. Circa 4-5 persone lavorano in questo ufficio, si punta a triplicare il numero di giovani che trovano lavoro all’estero con Eures: stiamo parlando di 30mila persone che vanno all’estero per lavoro, non sono numeri altisonanti ma sicuramente importanti.Quarto, nel nuovo piano di rafforzamento dei centri per l'impiego previsti da Anpal (sperando che si realizzi veramente), vogliamo assumere qualche agente commerciale che finalmente vada nelle aziende – proponendo anche tirocini extracurriculari e contratti in apprendistato duale – in modo che non sia sempre l’azienda a doversi rivolgere ai CPI? Sono consapevole che alcuni di questi uffici fanno già marketing, ma con tutto il rispetto solo in certi casi (rarissimi) questa attività è fatta bene; in altri è  auto-referenziale o una balla colossale. Bene, si può arrivare ad altri 5mila vacancy.Quinto, usiamo in altro modo parte (ripeto: parte) dei soldi dell’Inail. Gli infortuni sul lavoro sono drasticamente cambiati, dato che è cambiato il modello produttivo: ormai il 90% delle persone lavora nel settore terziario/impiegatizio (e il rischio di chi oggi fa la “badante” o l'addetto alle “pulizie” non è certamente paragonabile a quello dell'operaio in fonderia di quarant'anni fa) e svolge attività meno rischiose del passato. Non dico che non ci siano incidenti, ma permettetemi di evidenziare che stiamo parlando di un modello produttivo certamente più sicuro rispetto a quello del 1950. Quindi usiamo questi soldi per formare e sostenere l’attività di cura ai non autosufficienti: qui siamo almeno 20mila collocati, dedicati all’attività di RSU. Sesto e ultimo, vogliamo realizzare – nel concreto intendo – 'sta benedetta partnership tra Camera di Commercio e CPI per favorire l’auto-impiego? Attenzione, non sto parlando di start-up o incubatori: se tralasciamo l’ambiente del core metropolitano milanese e qualche bell’esempio di hamburgheria/birreria artigianale, il resto è un mezzo disastro, e soprattutto non riguarda giovani o disoccupati ad alto rischio di esclusione. Sto intendendo il mondo dei professionisti, delle partite Iva che potrebbero rientrare nel regime forfettario (e il suo altissimo coefficiente di redditività), ma per scarsa informazione non hanno idea di cosa devono fare o come funziona, né a chi chiedere. Questa proposta vuole essere un’alternativa al commercialista, oppure si pagano dei consulenti tramite forme analoghe al “paniere” dei servizi offerti dalla Dote Unica Lavoro della Regione Lombardia. In sintesi, formiamo e aiutiamo nuovi professionisti - qui chiudiamo con altri 10mila.  Francesco Giubileo

23 gennaio, in memoria di Roberto Franceschi

Se Roberto fosse vissuto oggi, sarebbe probabilmente un lettore della Repubblica degli Stagisti. Brillante studente di economia alla Bocconi, ventenne colto e idealista, impegnato in politica.Invece Roberto Franceschi ha vissuto i suoi vent'anni nel 1973. E nel 1973, in una fredda sera di gennaio, è morto. Ucciso da un proiettile sparato dalla polizia, di fronte all'ingresso della sua università – la Bocconi – mentre con altri compagni manifestava contro il divieto imposto dal rettore all'ingresso di esterni a un'assemblea del Movimento Studentesco prevista per quella sera all'interno dell'università.Oggi, 23 gennaio 2017, ricorre il 44esimo anniversario di quella tragedia. E come ormai da molti anni, alla Bocconi si celebra il ricordo di questa ricorrenza attraverso una serata speciale, un dibattito su un tema importante dell'attualità (quest'anno, quello dei foreign fighters, con la proiezione del film-documentario “Our war” dei registi Benedetta Argentieri, Bruno Chiaravalloti e Claudio Jampaglia) organizzata dalla Fondazione Franceschi.Da pochi mesi ho l'onore di far parte del consiglio di amministrazione di questa Fondazione creata dalla famiglia Franceschi, con il fondo ricevuto come indennizzo, per onorare la memoria di Roberto sostenendo i giovani e la ricerca sui temi sociali che tanto lui aveva a cuore.La Fondazione Franceschi si prodiga in molte attività che hanno come fulcro i giovani. Dispensa borse di studio, sia per studenti di scuola superiore, meritevoli ma privi di mezzi, per permettere loro di proseguire gli studi all'università, sia per ricercatori universitari. Organizza nelle scuole percorsi formativi sul diritto al lavoro. E ogni 23 gennaio, nell'auditorium della Bocconi, rinnova il ricordo dell'impegno di Roberto coinvolgendo il pubblico - con uno sguardo particolare agli studenti - in un dibattito su un tema importante dal punto di vista sociale e di interesse per la collettività.Per me, stasera, sarà il primo 23 gennaio alla Bocconi. La serata è aperta al pubblico, e il mio invito a tutti i milanesi è quello di partecipare, e di sostenere questa Fondazione. Alle 20 ci sarà la proclamazione dei vincitori dei fondi di ricerca Roberto Franceschi, elargiti con il sostegno di Intesa Sanpaolo, e dello Young Professional Grant. A seguire, un dibattito di introduzione alla tematica e alla proiezione del film coinvolgerà i tre registi, il produttore Riccardo Annoni, il giornalista Kovan Alshawish e l'ex magistrato Gherardo Colombo, moderati dalla scrittrice Benedetta Tobagi. Una serata non solo per non dimenticare il passato, ma per capire meglio il nostro presente, e il futuro.Eleonora Voltolina

Post referendum e centri per l'impiego, come affrontare l'emergenza

Il quadro post-refendum pone il tema delle politiche attive del lavoro e servizi pubblici del lavoro: un enigma. Vediamo le poche cose certe:  le coperture previste in finanziaria dovrebbero garantire gli stipendi degli attuali dipendenti dei centri per l'impiego e un piano di rafforzamento di 1000 unità a tempo determinato (provenienti probabilmente dagli esuberi di altri settori della Pubblica amministrazione, come i vigili del fuoco).Rimane confermata la concorrenza in tema di politiche attive del lavoro tra Stato e Regione, ovvero la presenza in Italia di venti modelli diversi tra accreditamento e progetti di politiche del lavoro. Questo fatto entra direttamente in conflitto, un domani, con la generalizzazione dell’assegno di ricollocazione, mentre è opinione di chi scrive che non ci dovrebbero essere problemi con la sua sperimentazione, dato che si tratta di un numero contenuto di destinatari .Il vero problema sono le Province, troppo dissestate economicamente per tornare ad essere titolari della delega sul lavoro; inoltre, in assenza della definizione di Livelli essenziali delle prestazioni (LEP) da realizzare su tutto il territorio nazionale, esse non possono neppure rivendicare la garanzie economiche per garantire tali prestazioni.A questo punto bisogna essere pragmatici: cosa fare data la situazione appena descritta? È probabile che una pianificazione di medio periodo inevitabilmente si fonderà su un ruolo centrale delle Regioni, non solo per supplire alle carenze economiche delle Province, ma soprattutto come anello di congiunzione con l'Anpal.Proprio il fatto che rimanga la concorrenza tra Stato e Regioni nel realizzare le politiche del lavoro significa che il “potere” decisionale di Anpal sarà piuttosto limitato e affidato ad una sorta di “geometria variabile”: in certi casi assumerà un ruolo chiave per il riassetto regionale dei centri per l’impiego e dell’erogazione delle politiche, mentre in altri sarà quasi assente. In ogni caso  dovrà essere concordato con le Regioni un eventuale accordo “quadro”.  Inoltre, è certo che l’esito negativo del referendum rende ancora più  difficile l’attuazione del decreto legislativo 150/2015: si rischiano numerosi ricorsi e lo stallo su molte questioni, a partire dalla mobilità di parte dei dipendenti Isfol.Bene, queste sono le buone notizie; passiamo a quelle cattive. Lo stato attuale dei Centri per l’impiego non è pessimo: è terrificante. D'altronde si tratta di strutture completamente abbandonate a se stesse, mai sostenute negli ultimi vent’anni (da qualsiasi governo di qualsiasi colore politico) dove, soprattutto per complicità e influenza dei sindacati, si è sempre preferito destinare le risorse a sussidi e anticipi di pensione piuttosto che a programmi di ricollocazione.I dipendenti attuali hanno una consolidata esperienza, ma spesso non adeguata competenza perché rispetto al passato servono nozioni tecniche di analisi dei dati, di psicologia, di analisi comparativa di modelli internazionali ed una elevata padronanza della lingua inglese. Non ne faccio una colpa agli attuali dipendenti – ad eccezione dell’esercito di lottizzati LSU della Sicilia – perché al momento di essere assunti erano assegnati a compiti completamente diversi da quelli attuali e in questi anni non si è mai speso un centesimo per garantirne un adeguato aggiornamento professionale.Tornando all’accreditamento e al ruolo delle Regioni nella programmazione, qui il rischio di avere un’eccessiva burocratizzazione è evidente, senza la possibilità di una “cabina” di regia potrebbe produrre una vera e propria anarchia – come si è in parte visto con il programma Garanzia Giovani, dove molte regioni non sono state in grado di gestire la programmazione nazionale.La soluzione più plausibile per evitare errori del passato e sbloccare una situazione che rischia uno stallo a tempo indeterminato dunque non può che essere quella di un modello a “geometrie variabili” adattato ai singoli contesti territoriali. Chi scrive non è a favore di un modello di questo tipo, però è necessario essere pragmatici e valutare effettivamente quello che si può fare nei prossimi mesi, con le risorse e gli spazi normativi messi a  disposizione.Francesco Giubileo**esperto di servizi per l'impiego e consigliere di amministrazione di Afol Metropolitana

Referendum, un voto che cambia anche il mondo del lavoro

Se ne parla davvero troppo poco, ma per i giovani che andranno a votare domenica 4 dicembre sul quesito referendario costituzionale uno dei temi cruciali che dovrebbe pesare nella scelta – ben più delle ideologie di partito, che finiscono per inquinare e distrarre dagli argomenti di merito – è il contenuto delle modifiche che la riforma apporta alle competenze in tema di lavoro.In effetti, per ciascuno di noi nell'infinito dibattito c'è un doppio livello di coinvolgimento e di opinione.  Il primo livello è quello sui temi più grandi e notiziabili, su cui ognuno ha un'idea di massima, una posizione. È giusto o sbagliato diminuire il numero dei parlamentari? È giusto o sbagliato superare la forma di bicameralismo “paritario” evitando che la stessa legge debba essere approvata da ciascuno dei due rami del Parlamento? È giusto o sbagliato intervenire sulle modalità di partecipazione dei cittadini alla produzione legislativa, modificando le regole del quorum per i referendum?Poi c'è un secondo livello che definirei più “pratico”, in cui si analizzano i costi/benefici rispetto ad alcuni argomenti particolarmente importanti per la vita quotidiana di ciascuno, in modo da fare una più che legittima valutazione sulle proprie priorità e i propri interessi.Per me per esempio, che dirigo una testata che si occupa di occupazione giovanile e mercato del lavoro, questo livello riguarda il caos che si è creato, negli ultimi 15 anni, con la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni a livello costituzionale.Per capire di cosa parliamo: circa mezzo milione di persone, prevalentemente – ma non solo – giovani, fanno stage ogni anno in Italia. Lo stage è diventato il principale anello di congiunzione tra formazione e lavoro, e – a torto o a ragione – anche il maggior strumento di politiche attive del lavoro.Dunque da una parte abbiamo mezzo milione di persone che hanno bisogno di uno strumento – lo stage – normato in maniera chiara, semplice, che possibilmente garantisca un trattamento equo allo stagista ed eviti abusi e sfruttamento.Dall'altra abbiamo la Costituzione attuale. Che dice che, pur essendo le norme generali sull'istruzione e la previdenza sociale competenze esclusiva dello Stato, non lo sono le politiche attive sul lavoro e la formazione professionale.Risultato. Negli ultimi anni, grazie anche a una particolare sentenza della Corte costituzionale, si sono consolidate 21 normative diverse sugli stage. 21 normative diverse: e parliamo solo di quelle per i percorsi extracurriculari. Un tirocinante di Milano ha diritti e doveri diversi da un tirocinante di Torino, di Roma, di Palermo. Cambia la durata massima dello stage. Cambia la possibilità o non possibilità di farlo in aziende prive di dipendenti. Cambia la cifra minima dell'indennità mensile, in alcune Regioni questo minimo è 300, in altre arriva a 600. Non sono inezie, sono aspetti fondamentali.Ventuno leggi diverse sullo stesso argomento: non è delirante?Questo frastagliamento del quadro normativo e delle strategie di politiche attive del lavoro ha creato dei mostri, complicando e rallentando anche programmi di respiro europeo come Garanzia Giovani.Questo merita una riflessione aggiuntiva. Garanzia Giovani era ed è un progetto europeo, finanziato con fondi europei, comunicato a livello europeo e poi implementato da ciascuno Stato a suo modo. Noi – ça va sans dire – abbiamo avuto una ventina di implementazioni della Garanzia Giovani, con differenze abissali tra Regione e Regione. Così abbiamo avuto giovani fruitori di serie A, di serie B e perfino di serie C (basti pensare agli under 30 calabresi, che hanno visto attivarsi la GG nella loro Regione solo l'anno scorso). La “regia” avrebbe dovuto essere affidata al ministero del Lavoro, ma che regia forte può esistere di fronte a interlocutori che rivendicano ciascuno la propria inappellabile competenza esclusiva in materia di politiche attive e formazione?Per non parlare dell'istituto “diabolico”, della competenza legislativa concorrente, secondo cui su alcuni temi il legislatore statale fissa – dovrebbe fissare – i principi generali di una certa materia, e ciascuna Regione detta – dovrebbe dettare – la disciplina organica della medesima materia, nel rispetto dei principi generali fissati dalla legge nazionale.Tra le materie devolute al regime di competenza concorrente nell'ultima riforma del titolo V, nel 2001, c’è anche la “tutela e sicurezza del lavoro”. Cosa voglia dire la definizione, non lo si sa esattamente. Le molte incertezze interpretative suscitate da queste parole hanno prodotto volumi di carta, indirizzati alla Corte costituzionale, che si è a più riprese pronunciata asserendo che la competenza in materia di “tutela e sicurezza del lavoro” voglia dire che le regioni siano titolate a regolare il mercato del lavoro: l’incontro tra domanda e offerta, i servizi per l’impiego, le politiche attive del lavoro – con la programmazione e il coordinamento di iniziative volte ad incrementare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, gli incentivi alle assunzioni di soggetti appartenenti a fasce deboli o svantaggiate, i sostegni alla nuova imprenditoria giovanile e femminile, i lavori socialmente utili, le politiche per l’inserimento al lavoro di soggetti disabili o svantaggiati, i tirocini formativi e di orientamento.Su tutti questi temi, 21 bocche diverse che possono dire la loro. 21 orientamenti differenti. 21 organizzazioni diverse dei servizi offerti ai cittadini. 21 regolamentazioni.La nuova formulazione dell'articolo 117 della Costituzione prevede che «previdenza sociale, ivi compresa la previdenza complementare e integrativa; tutela e sicurezza del lavoro; politiche attive del lavoro; disposizioni generali e comuni sull'istruzione e formazione professionale» siano di nuovo di competenza statale.Dal punto di vista del mio lavoro quotidiano, della tutela dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro, del monitoraggio dell'occupazione giovanile, questo è senz'altro un ottimo motivo per votare sì. E sono del parere che dovrebbe esserlo anche per i molti giovani che con grandissima difficoltà tentano di trovare il loro posto nel mercato del lavoro italiano.* l'articolo prende spunto dall'intervento di Eleonora Voltolina all'evento “Riformisti, milaneSì e di sinistra - Incontro sulle ragioni del Sì al Referendum Costituzionale del 4 dicembre” che ha avuto luogo a Milano, al Teatro dal Verme, domenica 27 novembre

“Venite in Italia, gli ingegneri costano meno”: davvero vogliamo attirare investimenti così?

Il mercato del lavoro italiano ha bisogno di imprese straniere che aprano in Italia, creando posti di lavoro? Certamente sì.Per attirare queste imprese in Italia dobbiamo giocarci tutte le carte, evidenziando il più possibile i vantaggi che il nostro sistema Paese può offrire e sperando che riescano a controbilanciare tutti gli aspetti negativi che solitamente vengono associati all'Italia – dal costo dell'energia all'inefficienza della pubblica amministrazione (con annessa impenetrabilità della burocrazia), dalla lentezza della giustizia all'incertezza del diritto? Giusto, dobbiamo giocarci tutte le carte.O forse no. Non proprio tutte.Magari, ecco, cercare di convincere le aziende straniere a venire ad insediarsi da noi magnificando il basso costo dei nostri cervelli, anche no. Citare tra i vantaggi competitivi il fatto che un laureato costi un quarto in meno rispetto ad altri Paesi europei, anche no. Sottolineare che i nostri salari sono bassissimi, anche per le persone con alto grado di scolarizzazione… Ehi, davvero vogliamo puntare su questo?Davvero vogliamo proporre il nostro come un Paese da terzo mondo, rincorrendo un modello di competitività indiano invece che puntare a modelli europei?Perché é quello che appare in una brochure distribuita pochi giorni fa, all'evento di presentazione del piano nazionale Industria 4.0. Il presidente del consiglio Matteo Renzi sul palco a snocciolare i progetti per rilanciare l'economia, e in cartella stampa questa brochure dal titolo “Invest in Italy”, sottotitolo “The right place, the right time for an extraordinary opportunity”. Si elencano le riforme “pro business” del mercato del lavoro, gli incentivi agli investimenti, i distretti industriali, il capitale umano e il talento…Ecco, appunto: il capitale umano e il talento. «L'Italia offre un livello di retribuzione competitivo, che cresce meno che nel resto d'Europa, e una forza lavoro altamente qualificata». Insomma la brochure – peraltro, fatta bene nel complesso: chiara, esaustiva e ben impaginata, si vede che non ci ha messo le mani il ministero della Salute... – presenta come un dato positivo il fatto che in Italia abbiamo stipendi bassi. «Un ingegnere in Italia guadagna in media un salario di 38.500 euro, quando in altri paesi europei lo stesso profilo ne guadagna mediamente 48.800». Con tanto di grafici (v. a lato).Anche perché c'è un vero e proprio paradosso: un governo che presenta all'estero come “vantaggio” un dato che all'interno, per i cittadini, é un dramma – e tra le prime cause della nuova emigrazione. Che i lavoratori italiani siano pagati troppo poco è un dato politicamente negativo, che chi governa deve impegnarsi a mutare attuando politiche che abbiano come obiettivo quello di dare a tutti, specialmente a chi ha un'alta formazione, opportunità di impiego più eque e dignitose dal punto di vista della retribuzione. Dato questo presupposto, “vendere” i bassi salari come fattore competitivo dell'Italia è ben poco sensato, se contemporaneamente si dovrebbe lavorare per farli salire!Qualcuno dirà: per portare a casa il risultato non si deve andare troppo per il sottile. Se qualche azienda, allettata anche dalla possibilità di poter pagare poco i dipendenti, sceglierà di stabilirsi in Italia, noi ci avremo guadagnato posti di lavoro – tanti disoccupati, pure gli ingegneri, avranno contratti e stipendi, e pazienza se sono più bassi che nel resto d'Europa e crescono pure di meno. Dunque tutti contenti.Io capisco questa visione “utilitaristica”. Giuro, comprendo il ragionamento. Ma il costo del lavoro non è un fattore di competitività! Se così fosse, la Svizzera sarebbe ultima nel panorama mondiale – invece è ai primi posti. La battaglia sul costo del lavoro non è solo una battaglia ingiusta, è sopratutto una battaglia persa: un ingegnere indiano costa e continuerà a lungo a costare un decimo di uno italiano. Non è quello il punto.La riforma del lavoro che sosteniamo serve a permettere alle aziende di fronteggiare con maggiori strumenti le variazioni ormai vertiginose del mercato, per permettere loro di fare investimenti che un domani non le affondino, per aiutarle a rischiare di più in innovazione.Il costo del lavoro non è e non potrà mai essere un nostro asset, perché attrae aziende che non investono in innovazione.Lavoriamo invece tutti insieme per valorizzare l'università e la ricerca, riformare la fiscalità in modo che sia chiara e semplice, lavoriamo sui costi dell'energia e sulle infrastrutture, prevediamo incentivi intelligenti rivolti alle aziende straniere che scelgano di stabilirsi da noi. Questa è la chiave per convincerle a venire in Italia.Che il fine giustifichi i mezzi non mi è, francamente, mai andato giù. Ora arriviamo al punto di fare brochure dicendo “Venite in Italia, i nostri ingegneri sono bravissimi e costano poco”: perdonatemi, ma siamo proprio fuori strada. Eleonora Voltolina