Cerco ingegnere a 600 euro al mese, ovvero l'analfabetismo degli addetti alle Risorse umane

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 03 Giu 2017 in Editoriali

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Gira sui social, da un paio di giorni, un trafiletto che ha suscitato indignazione, tamtam sui media e perfino l'annuncio di un'interrogazione parlamentare al ministro del Lavoro. Si tratta della foto di un'inserzione pubblicata su un giornale cartaceo, una come diecimila altre, che offre un posto a un ingegnere, descrivendo il profilo richiesto e indicando il link al sito aziendale dove è possibile candidarsi inviando il cv.

stage lavoroLa fiammata di sdegno riguarda le condizioni offerte: «Contratto di 6 mesi, 600 euro netti al mese, ticket restaurant per ogni giorno lavorato» recita l'annuncio. Per questa proposta l'azienda in questione cerca un ingegnere civile con laurea magistrale «a pieni voti», che parli bene il tedesco e possibilmente anche l'inglese, che magari abbia fatto un Erasmus (esperienza molto apprezzata in sede di selezione), e che sia disponibile alle trasferte.

È talmente palese che, se si trattasse di un'offerta di lavoro, la job description sarebbe completamente sproporzionata rispetto alle condizioni economiche offerte, che non serve neanche ripeterlo.

All'occhio di qualsiasi esperto di mercato del lavoro è altrettanto palese che non si tratta di un annuncio di lavoro, bensì di un annuncio di stage. La durata, il compenso, il profilo ricercato: tutti gli indizi fanno intendere che la bufera si sia scatenata su un qui pro quo. Quel che appare un'offerta di lavoro umiliante e al ribasso, è in realtà un'offerta di stage come mille altre.

E allora qual è il problema? È che l'inserzione è stata evidentemente  scritta coi piedi. Perché non appare mai la parola stage: anzi, appare la parola “contratto”, che è totalmente fuorviante (uno stage non è un contratto di lavoro!). Il proprietario dell'azienda, chiamato in causa in uno dei tanti articoli scaturiti dall'indignazione del web, si è difeso dicendo che in Gruppo Dimensione offrono lo stage come primo step a molti giovani e che poi assumono più di tre quarti degli stagisti con un vero contratto di lavoro subordinato. Ebbene, sarebbe il caso che
lunedì mattina quel proprietario facesse una colossale lavata di capo al suo direttore Risorse umane. Perché la sua azienda non sarebbe mai finita in questa bufera se la persona incaricata del recruiting avesse fatto bene il suo mestiere.

stage lavoroDelle due, l'una: o si tratta di una persona completamente ignara dei fondamenti del diritto del lavoro, che non conosce nemmeno la differenza tra un contratto di lavoro e un tirocinio; oppure di un furbetto che ha pensato bene di scrivere “contratto” anziché
stage” nella speranza di attirare più candidature. Non saprei proprio quale opzione augurarmi. In ogni caso, il risultato per l'azienda è stata una tonnellata di pubblicità negativa, un pesante colpo alla propria “reputation” sui social e non solo.

Qual è la morale di questa storia? Che in Italia si devono fare dei passi avanti nella gestione delle risorse umane, e al più presto. Le imprese farebbero meglio a capire che ciascun ufficio HR è un biglietto da visita, che ormai si viene giudicati dai cittadini anche per come si trattano i propri dipendenti (e stagisti). E che ogni annuncio di stage e di lavoro, oggi, è quasi come una pagina pubblicitaria: dunque bisogna stare molto attenti a ogni singola parola.

Il mercato del lavoro italiano è ancora immaturo, drammaticamente opaco. Troppe aziende pensano di poter ancora agire come trent'anni fa, pubblicando inserzioni imprecise, offrendo ai colloqui condizioni diverse da quelle prospettate nell'annuncio, giocando sulla sproporzione di forze tra chi offre lavoro (l'azienda) e chi più o meno disperatamente lo cerca (i candidati). Pensano che questi comportamenti resteranno senza conseguenze.

Ma il web ha cambiato tutto. Questa azienda piemontese lo ha scoperto nel modo più traumatico, con una vera e propria doccia fredda: il suo annuncio di stage, tutto sommato dignitoso, banale nella sua normalità, è finito nel tritacarne e l'azienda non può biasimare che sè stessa. Se avesse prestato più attenzione al modo e alla veridicità in cui comunicava all'esterno le opportunità offerte, niente di tutto questo sarebbe successo.

Bastava essere trasparenti e chiamare le cose con il loro nome: uno stage è uno stage, e va chiamato col suo nome, e non confuso con – o spacciato per – un contratto di lavoro.

Eleonora Voltolina

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