Categoria: Editoriali

Chance ai giovani, Bangladesh - Italia uno a zero. A quando anche qui un microcredito "alla Yunus" per aiutare i ragazzi a diventare indipendenti?

Ieri a Milano c'era Muhammad Yunus. L'uomo che si è inventato il microcredito, creando una banca per i più poveri e realizzando una sorta di rivoluzione economica che ha rimesso in piedi il suo paese, il Bangladesh. L'uomo che ci ha creduto per trent'anni: all'inizio in solitudine, poi con il sostegno crescente di economisti e attivisti, fino al bestseller Il banchiere dei poveri (pubblicato nel 1998 da Feltrinelli) e al premio Nobel per la pace, ricevuto nel 2006.Lasciamo perdere le note stonate della serata al teatro Dal Verme, dalla complimentosa cerimonia delle buone intenzioni orchestrata dal redivivo Red Ronnie ai contributi musicali inaspettati e inappropriati di due cantanti (l'esordiente Erica Mou e poi Paola Turci), fino allo spot elettorale del sindaco Letizia Moratti che ha fatto perdere la pazienza al pubblico facendo salamelecchi a Lucio Stanca ad di Expo e Alessandro Profumo di Unicredit, quando tutta la platea aspettava ormai da un'ora l'intervento di Yunus.Soprassediamo quindi sul quadro della serata, e andiamo al centro: a lui, Yunus. Che è un genio, senza se e senza ma. Uno che ha capito che per sconfiggere la povertà c'è un sistema infallibile, l'accesso al credito (con un approccio pragmatico ben più convincente degli appelli alla solidarietà un po' generici e pelosi lanciati dal palco). Cioè permettere a tutti, anche ai più poveri, di costruirsi il loro piccolo – talvolta addirittura microscopico – business. E legare indissolubilmente la crescita del benessere economico alla diffusione dell'istruzione: così tutte le donne che hanno ricevuto in trent'anni prestiti dalla banca di Yunus, la Grameen, e sono oggi azioniste di quella stessa banca, hanno dovuto promettere non solo di restituire il finanziamento ricevuto, ma anche di mandare i propri figli a scuola. Il che ha creato oggi, in Bangladesh, una nuova generazione più forte: istruita, colta, pronta al futuro. Ingegneri, medici, economisti, insegnanti: potevano essere bambini analfabeti, sono stati bambini istruiti. Potevano essere adulti analfabeti, condannati a ripetere la vita dei genitori: sono oggi adulti diplomati, in molti casi addirittura laureati. Grazie alle borse di studio della Grameen. Grazie alle idee del visionario Yunus.Questo cosa c'entra con i giovani italiani? C'entra. Dalle ultime file del teatro Dal Verme, ieri, una voce di ragazza si è alzata, esasperata, proprio mentre Letizia Moratti aveva chiamato sul palco Profumo a raccontare del nuovo progetto di Unicredit, una finanziaria che erogherà microcrediti agli ex carcerati. E la ragazza ha urlato: «Prima che ai carcerati, pensate ai laureati!».Questa ragazza ha ragione. L'accesso al credito, nell'Italia del 2010 agiata ed evoluta, è precluso ai giovani. E non si tratta solo di quando si vuole comprare una casa, e le banche non si fidano di chi non ha la busta paga e pretendono l'umiliante procedura della garanzia dei genitori. Si tratta anche – e soprattutto – di quando un giovane ha un'idea e vorrebbe realizzarla da solo, sulle sue gambe. Aprendo la sua microimpresa, avviando un business, con la prospettiva magari di poter creare, se le cose andranno bene, anche posti di lavoro per altri. Ma le banche italiane non gli aprono nemmeno la porta: meglio continuare sulla strada già battuta e non rischiare – non sia mai che il prestito non venga restituito, che il giovinastro s'involi coi denari.Il punto è che non è vero. Yunus lo ha dimostrato: la sua Grameen Bank registra un tasso di restituzione dei finanziamenti del 97%, pur prestando soldi ai più poveri tra i poveri, perfino ai mendicanti (e di questi uno su cinque, grazie al miracolo del microcredito, non solo vive meglio ma esce anche dalla condizione di accattonaggio). Se qualche banca decidesse di fare lo stesso coi 20-30enni italiani, dando fiducia anche ai precari, anche agli stagisti, anche ai nullatenenti, creerebbe un humus eccezionalmente fertile per lo sviluppo e la crescita di questi giovani e dell'intero Paese. È questa la prossima battaglia: l'accesso al credito per noi giovani. Per poter smettere di dover dipendere dai nostri genitori, poter sognare non solo un lavoro dipendente ma anche un futuro da imprenditori, e poter avere un'opportunità per realizzare le nostre idee e i nostri sogni. Perchè, a dirla con Yunus, quando una persona non trova lavoro deve rovesciare la prospettiva: smettere di cercare qualcuno che glielo dia, ma utilizzare le proprie energie e la propria mente per crearne uno. Far partire, insomma, un'avventura imprenditoriale in grado di dare lavoro non solo a chi la avvia ma anche ad altri, contribuendo così allo sviluppo del Paese. E per fare questo – in Italia così come in tutto il mondo – ci vuole un sistema creditizio alleato, e non nemico, dei giovani.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Bamboccioni? Nel libro «L'Italia fatta in casa» Alesina e Ichino spiegano di chi è la colpa- Giovani, lavoro e stipendi troppo bassi: quando al mutuo ci pensa papà (indebitandosi). Parola di Luigi Furini- Caro Celli, altro che emigrare all’estero: è ora che i giovani facciano invasione di campo e mandino a casa i grandi vecchi- Stage gratuiti o malpagati, ciascuno può fare la rivoluzione: con un semplice «no»

La lezione di Rita Levi Montalcini: i giovani devono credere in se stessi nonostante tutto e tutti

Il punto di vista di un outsider che invita i giovani a riappropriarsi del loro futuro: con questo nuovo editoriale Alessandro Rosina, 40 anni, docente di Demografia e autore insieme a Elisabetta Ambrosi del bel saggio Non è un Paese per giovani (Marsilio) prosegue la sua collaborazione con la Repubblica degli Stagisti.Nel 1938 c’è una giovane assistente volontaria all’interno della Clinica delle malattie nervose e mentali dell’università di Torino. Ha 29 anni e si è laureata due anni prima con 110 e lode vincendo le ostinate resistenze del padre che, pur desiderando per la figlia una buona formazione di base, è contrario all’emancipazione femminile e non avrebbe voluto mandarla all’università. La brillante dottoressa si chiama Rita Levi Montalcini e oltre alla difficoltà di essere femmina deve fare i conti anche con quella di essere di religione ebraica, grazie alla vergogna delle leggi razziali emanate da Mussolini. Il solerte rettore dell'ateneo torinese, Azzo Azzi, si allinea subito alle disposizioni del regime fascista ed emana un decreto che sospende «la dott. Levi Rita (…) dal servizio, a decorrere dal 16 ottobre 1938-XVI». La Montalcini si trova costretta ad emigrare e se ne va, in un primo periodo, in Belgio. Dopo la guerra viene poi invitata negli Stati Uniti dove svilupperà le ricerche che la porteranno nel 1986 ad essere insignita del premio Nobel per la Medicina.Alla fine ha vinto lei. Le sue doti e la sua voglia di esprimerle non sono state soffocate né dalle resistenze culturali del padre, né dalla stupida spietatezza del regime fascista, né dalla pavida zelanteria degli Azzo Azzi asserviti al sistema. Tutti ostacoli che hanno, semmai, rafforzato le sue convinzioni e la sua determinazione. Ora, fortunatamente, tutto è diverso. Il nostro Paese ha imparato la lezione e i giovani talenti sa allevarli, valorizzarli e offrir loro il giusto spazio. Ora una giovane dottoressa Levi Rita non verrebbe spinta ad andarsene all’estero per trovare il giusto riconoscimento del proprio valore. Ricerca e investimento nella qualità del capitale umano sono state il faro che ha guidato l’azione degli ultimi governi. Del resto non è questo il modo migliore per far sviluppare un paese e mantenerlo competitivo? E invece no, in verità le cose non stanno così. Dobbiamo purtroppo continuare anche oggi ad augurarci che i nostri brillanti giovani, come la Montalcini, non si facciano scoraggiare dai tanti ostacoli che continuano a trovare nel loro percorso di vita e professionale. Del resto anche Dante se n’è dovuto andare da Firenze – ma poi almeno ha deciso lui chi mettere in paradiso e chi all’inferno! Forse il segreto è proprio quello di non smettere mai di credere in se stessi, nonostante tutto e tutti.Alessandro RosinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- L’Italia divisa e l’arte della fuga: se i giovani migliori scappano dal Mezzogiorno, laggiù cosa resterà?- Caro Celli, altro che emigrare all’estero: è ora che i giovani facciano invasione di campo e mandino a casa i grandi vecchi- «Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia)

500 euro al mese, no grazie: ministro Brunetta, i giovani italiani vogliono opportunità non carità

Ministro Brunetta, per favore, lasciamo perdere la carità. Per uscire di casa, diventare indipendenti, costruirsi la propria casa e la propria famiglia, ai ragazzi italiani 500 euro al mese non servono a niente - se non a prosciugare le già vuote casse dello Stato. Per offrire un futuro ai suoi giovani l'Italia ha bisogno di un'iniezione di meritocrazia, di trasparenza, di ammortizzatori sociali, di politiche salariali. Il problema non sono i 500 euro al mese. Il problema sono le imprese che propongono contratti a progetto farlocchi, dove il progetto non esiste, esiste solo la volontà di risparmiare sui contributi e tenersi alla larga dagli obblighi che i contratti più tutelanti impongono. Il problema sono gli stipendi, perché da nessuna parte – tantomeno nelle grandi città come Milano o Roma – si sopravvive con 800 euro al mese, eppure c'è chi propone queste retribuzioni da fame e ahimè c'è anche chi le accetta, salvo poi chiedere un'integrazione a mamma e papà per arrivare a fine mese. Il problema sono i sindacati che difendono lo status quo e cioè il "mercato del lavoro duale", dove chi ha un buon contratto è al sicuro e chi invece è precario non ha tutele né garanzie. Il problema sono i laureati costretti a fare un mestiere che non c'entra niente con quello che hanno studiato: è una sconfitta per il mercato del lavoro che nel nostro Paese va in scena tutti i giorni. Il problema sono i soliti noti e i figli di che si accaparrano, spesso senza merito, i posti migliori – lasciando indietro chi è più bravo ma non ha santi in paradiso. Il problema è la gerontocrazia imperante, che permette a 70-80enni di decidere in perpetuo i destini politici ed economici del nostro Paese, considerando i 30enni poco più che bambini e i 40enni ancora "giovani".  Il problema sono i 500mila stagisti che ogni anno invadono enti e aziende, portando entusiasmo e forza lavoro, che non sono minimamente tutelati e che troppo spesso alla fine dello stage si ritrovano con un pugno di mosche in mano.Un governo che si dice attento alle nuove generazioni deve lavorare per rimuovere queste ingiustizie e assicurare prospettive ai suoi giovani. Non promettere demagogicamente uno "stipendio statale" da 500 euro al mese, perché quella si chiama carità. E i giovani, se permette ministro Brunetta, spesso non hanno lavoro e spesso non hanno stipendio, ma almeno hanno ancora una dignità.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Progetto "Les 4" di Promuovi Italia: il rovescio della medaglia- Bamboccioni? Nel libro «L'Italia fatta in casa» Alesina e Ichino spiegano di chi è la colpa

Gli stage servono a farti lavorare gratis: lettera aperta al vetriolo di Nicola Zanella agli stagisti (o aspiranti stagisti) italiani

«Per quel progetto? Prendiamo uno stagista, che non ci costa nulla».Caro mio, mi dispiace ma devi rimettere i tuoi sogni nel cassetto. Quella telefonata, nella quale ti proponevano un magnifico stage “professionalizzante”, in realtà era una trappola. Ti avrebbero potuto chiedere direttamente: «Dottore, è disponibile a lavorare per noi gratuitamente per otto ore al giorno?». Così almeno sarebbero stati sinceri.Forse esagero. In effetti in alcuni casi fare uno stage può essere una buona idea, arricchire le competenze e dare opportunità per una successiva assunzione. Ma troppo spesso si risolve in una perdita di tempo. Non mi credi? Vediamo i buoni motivi per i quali di solito si accetta la proposta di stage.«Così imparo un lavoro». Bene. Dimmi però che professionalità ti costruisci facendo fotocopie dalla mattina alla sera, inserendo dati tutto il giorno o facendo telemarketing. Se va bene puoi imparare a usare la fotocopiatrice per fascicolare, fare gli ingrandimenti, e soprattutto, togliere la carta inceppata. Oppure puoi diventare “la mano” più veloce dell’azienda nell’inserimento dati e imparare ad usare tutte e cinque le dita invece del solo indice. Un Mozart del pc… Se proprio ti va bene arricchirai il tuo vocabolario di nuove parolacce, sentendo le risposte delle persone che chiami per la tua importantissima ricerca di mercato mentre sono a casa che cenano con la loro famiglia dopo una giornata di lavoro.«Mi hanno detto che seguirò un progetto interessante». Sì, come no. Immagina che importanza potrà avere un progetto affidato ad uno stagista senza alcuna esperienza… E poi spesso sono progetti talmente specifici che invece di aumentare le tue future possibilità di lavoro le fanno precipitare. Il massimo poi è quando ti chiedono di fare il venditore. Con che coraggio si chiede ad uno stagista di cercare nuovi clienti e di andare in giro per vendere prodotti e servizi? Certo, è vero che vendere è una bella “palestra” che insegna molto di più di qualsiasi corso manageriale. Ma da quando è stato inventato il commercio, chi vende un prodotto ha diritto ad un compenso, una commissione. Invece lo stagista no: un buono pasto e via.«Almeno vedo l’azienda dall’interno, capisco come funziona». Ma pensi veramente che il tuo tutor ti porterà in riunioni importanti, magari nelle quali si discutono progetti futuri o si mostrano dati aziendali che domani potresti comunicare alla concorrenza? Io dico di no. Bene che ti vada ti presenterà alle persone con cui dovrai relazionarti. Solo che i tuoi “colleghi” di  lavoro percepiranno la notizia in un altro modo: «ecco quello che potrebbe portarvi via il lavoro». E così spesso gli stagisti trovano difficoltà ad inserirsi nelle aziende: perché «se uno stagista è sveglio, intelligente e magari si presenta anche bene, potrebbero metterlo al mio posto…perché dovrei dargli una mano?»: questo è quello che molti pensano. E via con i «non ho tempo», «mi spiace ma già abbiamo poche cose da fare noi, come facciamo a dare del lavoro a te».  E con le gelosie. Soprattutto tra donne, quando la stagista è giovane e carina. «Imparerò qualcosa dal mio tutor». Deve essere proprio un’anima buona. Se ha molto tempo da dedicarti vuol dire che è una figura praticamente inutile quindi ci sarebbe poco da imparare. Anzi, meglio apprendere il meno possibile. Se invece il tuo tutor è uno in gamba o una figura importante, secondo te avrà il tempo di spiegarti come si fanno le cose? Già ora va a casa tutti i giorni alle nove e mezza di sera, rovinandosi la salute e rischiando il divorzio, figurati se ha tempo da perdere con uno scocciatore del quale tra un mese si perderanno le tracce… Quindi rassegnati a passare il tuo tempo da solo, apprendendo solo dall’osservazione, oppure a darti appuntamento con il tuo tutor alle nove e mezza di sera. Forse troverà cinque minuti per mostrarti qualcosa di interessante. Magari mentre cerca per l’ennesima volta di giustificarsi al telefono con la moglie per il ritardo con cui andrà a casa.E poi, soprattutto in questo periodo, quanti posti vacanti pensi che ci siano in un’azienda? Praticamente zero. E anche se ci fossero, sai quanto sono gli stagisti e gli ex stagisti tra i quali quell’azienda potrebbe scegliere? Sono decine, a volte centinaia. Una specie di lotteria.«Ma così le aziende possono valutarmi vedendomi all’opera». E’ quello che ti dicono, caro il mio illuso. Se volessero veramente valutarti, credendo in te, ti assumerebbero con un vero contratto di lavoro. C’è il periodo di prova. Basta e avanza per valutarti ed eventualmente per rispedirti al mittente…Nicola Zanella* Nicola Zanella, 37 anni, si è laureato in economia aziendale alla Bocconi di Milano, ha lavorato nel marketing per Wella e dal 2000 ha avviato uno studio per fornire servizi di consulenza e formazione manageriale. Di recente ha pubblicato con la casa editrice Sperling&Kupfer Il brainstorming è una gran caxxataNota dell'autore: il taglio di questa lettera è volutamente provocatorio, nello stile del mio libro. Le alternative serie ci sono: le trovate nell'intervista.Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Il brainstorming? Una gran caxxata: in libreria un manuale che demolisce manager e aziende- Nicola Zanella, autore del libro "Il brainstorming è una gran caxxata": «Gli stage servono a far lavorare gratis la gente» 

L’Italia divisa e l’arte della fuga: se i giovani migliori scappano dal Mezzogiorno, laggiù cosa resterà?

Il punto di vista di un outsider che invita i giovani a riappropriarsi del loro futuro: con questo nuovo editoriale Alessandro Rosina, 40 anni, docente di Demografia e autore insieme a Elisabetta Ambrosi del bel saggio Non è un Paese per giovani (Marsilio) prosegue la sua collaborazione con la Repubblica degli Stagisti.La Banca d’Italia ha appena pubblicato uno studio sulla mobilità per lavoro in Italia, che mette in luce soprattutto la presenza di un consistente flusso di uscita dalle regioni del Sud Italia - il che conferma quanto già da qualche anno emergeva dai dati Istat e dai rapporti dello Svimez. Ma, oltre al dato quantitativo, ancor più degno di nota è quello qualitativo: ad abbandonare il Mezzogiorno sono soprattutto le sue risorse migliori, ovvero i giovani con istruzione più elevata e con maggiori qualifiche professionali.Se l’Italia appare una nave che affonda, le falle maggiori si trovano a Sud. Da quest'area del Paese chi può se ne va. Chi rimane si rassegna rinunciando sia a lavorare che a fare figli. Da qualche anno, infatti, il Sud è diventata anche una delle aree con più accentuata denatalità del mondo occidentale. Oltre alla fiducia sembra oramai persa anche la speranza. Difficile trovare un’altra area del mondo sviluppato che stia disinvestendo così tanto nel capitale umano, in termini sia quantitativi che qualitativi. Pochi figli, pochi servizi per l’infanzia, basse performance scolastiche, ridotte opportunità occupazionali, emorragia delle risorse migliori. Nel 2011 celebreremo un secolo e mezzo di unità d’Italia, ma ci sarà ben poco da festeggiare se ci arriviamo continuando a fuggire dai problemi invece di risolverli. Perché, allora, anziché intenderlo come un desolante anniversario commemorativo, non lo facciamo diventare un’occasione per raccogliere e lanciare nuove idee, anche provocatorie e scomode, per l’Italia del futuro? In alternativa al “si salvi chi può”, cosa servirebbe all’Italia per non affondare e avventurarsi in più prolifiche e produttive acque? Meno assistenzialismo, forse, e più politiche attive che promuovano l’entrata e la permanenza nel mercato del lavoro. Meno privilegi legati all’anzianità e maggiore valorizzazione delle capacità dei singoli. Meno corporazioni e più spazio alla libera iniziativa. Meno cooptazione e nepotismo e più selezione basata su trasparenza e merito. Meno fughe individuali e più reazioni collettive?Alessandro RosinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Caro Celli, altro che emigrare all’estero: è ora che i giovani facciano invasione di campo e mandino a casa i grandi vecchi- «Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia)- Trentenni italiani, la sottile linea rossa tra umili e umiliati nel libro «Giovani e belli»

Il Fortino, una riflessione di Roberto Bonzio sui giornalisti di domani: «Oggi chi è dentro le redazioni è tutelato, ma fuori ci sono troppi sottopagati»

Sulla professione giornalistica interessante è la riflessione di Roberto Bonzio, giornalista dell'agenzia Reuters e autore del progetto multimediale Italiani di Frontiera sui temi dell'innovazione e della meritocrazia che, oltre al sito web e alle conferenze, oggi è anche un gruppo su Facebook con quasi 500 iscritti – e in arrivo si sono anche un libro e una web tv. Nel 2008, organizzando tutto da solo, Bonzio [foto] è stato per sei mesi in aspettativa con famiglia in California, incontrando e intervistando gli italiani di Silicon Valley, fra scienziati e imprenditori di successo. Occasione anche per un confronto – talvolta impietoso – fra media americani e italiani.«Per una volta invece di raccogliere testimonianze mi permetto una riflessione personale. Sul mio mestiere, quello di giornalista. E su come si fa in Italia. Perché mi sembra pertinente ai temi di questo progetto, che parla di merito, innovazione, spirito d’impresa, nuovi modi di pensare»: comincia così II Fortino, scritto all'indomani della firma del nuovo contratto giornalistico (arrivata dopo quattro anni di trattative serrate tra la Fnsi, il sindacato dei giornalisti, e la Fieg che rappresenta invece gli editori). Ed entra subito nel merito: «Visto così, il mondo del giornalismo italiano mi pare anacronistico, schierato, autoreferenziale. Assediato. Come un fortino d’altri tempi. Dopo anni, i giornalisti italiani hanno avuto di recente un nuovo contratto. Ma riguarderà forse la metà di loro. Come mai? La mia personale riflessione e’ dedicata ai giornalisti di domani». Ed ecco il testo.L’ESEMPIO USA – Qualche mese, nel cuore della crisi che ha avuto effetti devastanti sulla stampa americana, ha chiuso i battenti anche il Rocky Mountain News, quotidiano di Denver. Pochi giorni dopo avrebbe compiuto 150 anni ma era proiettato nel futuro, con straordinari esempi di giornalismo d’avanguardia, multimediale nel web. L’ultimo dei quali, dedicato alla propria chiusura. Con una compostezza a noi sconosciuta, giornalisti che davanti al ferale annuncio, prendono appunti. Per raccontare da giornalisti, anche quando la cattiva notizia riguarda le loro vite. Come raccontare, da giornalisti, il quadro della stampa italiana? Dicendo che il re è nudo.UN FORTINO IL GIORNALISMO ITALIANO – Mentre il giornalismo mondiale affronta svolte epocali, a me il giornalismo italiano sembra lo specchio di un Paese di cui dovrebbe essere invece osservatore distaccato e critico. Troppo spesso ingessato, clientelare, rivolto al passato, assurdamente autoreferenziale. Non si limita a raccontare i problemi di questo Paese, ne fa parte in pieno. Un fortino d’altri tempi, in cui ancora una volta il contratto rassicura parzialmente solo chi è dentro. Anche se il fortino sta in piedi solo grazie a chi è fuori e spinge sulle palizzate. Che altrimenti crollerebbero.CHI STA FUORI – Fuori, a tirare la carretta, collaboratori sottopagati, molti giornalisti a tempo pieno senza tutele, costretti spesso a subire ricatti o capricci di capiredattori culi di pietra che non ricordano quando e se sono stati su piazza l’ultima volta, il mondo lo guardano attraverso telegiornali, pochi quotidiani e agenzie, capaci di bocciare la notizia del secolo, se non l’hanno prima vista sull’Ansa. Fuori a spingere anche giovani e giovanissimi che hanno una sola speranza, per tentare di incunearsi con tanta fortuna in uno dei pochissimi posti fissi. Ingraziarsi un capo influente. Per riuscirci, la bravura aiuta ma non è indispensabile. Mentre essere originali, innovativi, anticonformisti può essere pericolosissimo, sinonimo di inaffidabilità, per chi ragiona sempre in base a schemi e consuetudini del passato. Che tipo di giornalisti di domani verranno selezionati così?CHI STA DENTRO – Dentro il fortino, tanti colleghi in gamba, spesso senza galloni. Ma anche papaveri avvinghiati a privilegi assurdi, con stipendi mensili mostruosamente sproporzionati, rispetto ai tanti bravi e sottopagati; alcuni colleghi che nell’era del web considerano un affronto che si metta in discussione la loro mazzetta quotidiana personale di giornali, magari da oltre mille euro al mese. Molti altri che non sanno l’inglese e considerano computer e Internet poco più di macchine da scrivere, vocabolari ed elenchi del telefono. Rappresentati da un Ordine che nel 2008 ha organizzato finalmente la prima prova d’esame col computer. Mandando tutto in tilt per un sistema informatico disastroso! Una corporazione che si difende da editori-imprenditori illuminati, che vorrebbero coniugare flessibilità e meritocrazia? Magari. Nella mia passata esperienza nei quotidiani ho quasi sempre visto premiare la fedeltà sul merito. E temo che in una grande azienda editoriale, in nome della flessibilità, a saltare da una redazione esteri ad un mensile di cucina potrebbe essere non il meno competente di esteri ma il più scomodo, il meno ammanicato. Quanto starà in piedi questo fortino? Più o meno del Paese arretrato e autoreferenziale su cui dovrebbe vigilare?SVOLTE EPOCALI IGNORATE – Intanto, tutto il mondo della comunicazione sta andando incontro a svolte epocali. Un terremoto propiziato dalle nuove tecnologie che è solo agli inizi… Con un paradosso. La circolazione gratuita di contenuti intellettuali su mille piattaforme e fuori dai circuiti tradizionali è una tendenza ineluttabile, rappresenta un’opportunità straordinaria e senza precedenti per il giornalismo, è un’occasione fantastica di promozione culturale globale. Ma coincide con un futuro di incognite, per chi il giornalista lo fa per mestiere e deve trarvi sostentamento. Occorre però capire che indietro non si torna, bisogna guardare avanti. I giornali forse non spariranno ma si trasformeranno drasticamente. E si dovranno trovare sistemi diversi per guadagnare. Come a fatica sta facendo l’industria della musica. Far solo la guerra agli Mp3 è ridicolo. E se i cd spariranno, la musica digitale ha creato intanto anche nuove formule di remunerazione e nuovi mercati. Lo stesso dovrà fare l’intero mondo editoriale. Partendo dalla constatazione che se il traferimento dei contenuti digitali online ormai non ha quasi più un costo, non sarà più possibile guadagnare da quel trasferimento, bisogna trovare altro. Come dovrebbe fare l’industria del latte, se un giorno il latte sgorgasse gratuitamente dai rubinetti di casa.OPPORTUNITÀ – Credo che essere consapevoli di questa realtà globale sia il primo passo per prepararsi al domani. E magari, fare quel che in Italia non è di moda fare: scrutare il futuro e trovare nei cambiamenti epocali e nelle innovazioni anche delle opportunità. Invece di considerarli solo come pericoli e minacce dai quali proteggersi con barricate. Perchè la rivoluzione in corso non distruggerà solo, creerà nuove figure professionali giornalistiche, che magari oggi fatichiamo anche a immaginare. Chiuso il loro giornale, alcuni colleghi del Rocky Mountain News hanno tentato diversi esperimenti di informazione online, anche in chiave locale. Intanto, dentro al fortino del giornalismo italiano, “guardare al futuro” per molti vuol dire solo parlare di scatti d’anzianità e prepensionamenti.Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Crisi dell'editoria: per i neogiornalisti il futuro è incerto - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti / quarta puntata- Giornalisti praticanti, intervista a Roberto Natale della Fnsi: «L'accesso alla professione va riformato al più presto»E le storie di praticantato vissuto:- Luca De Vito: «Alla scuola di giornalismo un praticantato stimolante, ma niente certezze per il futuro»- Praticantato in redazione: l'esperienza di Caterina Allegro in un service editoriale- Praticantato d'ufficio, il calvario di A., giornalista free lance, per diventare professionista

Vademecum per gli stagisti: ecco i campanelli d'allarme degli stage impropri - se suonano, bisogna tirare fuori la voce

Se un'azienda utilizza lo strumento dello stage per avere a disposizione personale a basso costo, lo stagista sfruttato può rivolgersi agli ispettori della più vicina Direzione provinciale del lavoro e chiedere che sia svolta una verifica. Però, prima premessa: gli ispettori hanno due grandi priorità, il sommerso e la sicurezza sui posti di lavoro. La loro azione, quindi, è giustamente rivolta in massima parte ad assicurarsi che non ci siano lavoratori in nero nelle imprese, che i contratti vengano rispettati, che gli operai lavorino con le attrezzature adeguate e le adeguate protezioni. Lavoro nero e morti bianche,  quindi, prima di tutto.Seconda premessa: se durante uno stage capita di fare le fotocopie, non è opportuno gridare subito allo sfruttamento. E così se il tirocinante viene per qualche giorno o qualche settimana a un punto vendita, o  incaricato di fare una tabella excel o un database, o di tradurre in inglese una email o un documento. É normale, nel corso di uno stage, svolgere anche mansioni per così dire "di basso profilo": anche le fotocopie servono per imparare a lavorare. Il problema però è quando le mansioni citate poco fa diventano l'unica e sola attività dello stagista: quando insomma le promesse del progetto formativo non vengono rispettate, e il giovane si ritrova a fare la segretario, il commesso, l'assistente - però senza contratto né stipendio.Qui allora é giusto anzi indispensabile protestare e far sentire la propria voce: lo stage esiste per essere utile e formativo ai ragazzi prima di tutto. Se utilità e formazione vengono a mancare, non bisogna aver paura ad agire in prima persona per tutelare i propri interessi e diritti. Quali sono i campanelli d'allarme che devono spingere gli stagisti a bussare (nell'ordine) alla porta del tutor aziendale, dell'ente promotore e infine della DPL più vicina? Ecco un piccolo vademecum, ad uso e consumo di tutti i lettori che hanno qualche dubbio sulla correttezza del loro stage.Mansioni dequalificanti. Le fotocopie tutti i santi giorni, appunto. Ma anche i pacchi da spedire in posta, caffè da fare, commissioni personali da effettuare per conto dei capi. Se il vostro tutor vi manda a ritirargli la giacca in lavanderia, insomma, c'è qualcosa che non va.Mansioni di eccessiva responsabilità. Qui, al contrario, parliamo di stagisti caricati di impegni troppo gravosi. Per esempio avere le chiavi dell'ufficio e l'incarico di aprire/chiudere. Essere l'unico in tutto l'ufficio a svolgere una determinata mansione (es. front-office). Essere l'unico riferimento di uno o più clienti o utenti. Gli stagisti sono lì per imparare, e non possono avere sulle spalle nessuna responsabilità: il loro operato deve essere sempre sorvegliato e supportato dal tutor.Mansioni completamente diverse dal progetto formativo stipulato e/o troppo distanti dalla formazione pregressa dello stagista. Il progetto formativo non è un foglio di carta senza valore: quel che c'è scritto rappresenta un patto tra l'ente promotore dello stage (per esempio il centro per l'impiego, o l'ufficio tirocini dell'università) e l'ente ospitante, che si impegna a fornire allo stagista un certo tipo di formazione. E deve rispettarlo. Se vi offrono un posto nel trade marketing e poi vi mettono a fare teleselling, insomma, la validità formativa dello stage può essere quantomeno messa in dubbio; ancor di più se il vostro titolo di studio è in linea con le promesse del progetto formativo, ma sproporzionato rispetto alle mansioni che poi vi vengono concretamente affidate.Stage per mansioni di profilo troppo basso. La legge non vieta lo stage per nessun settore: non è illegale, quindi, prendere uno stagista per fargli imparare a fare il salumiere al supermercato, la commessa in un negozio, la parrucchiera. Il buonsenso, però, dovrebbe spingere non solo a rifiutare questi stage, ma anche a segnalarli e biasimarli pubblicamente. Non serve uno tirocinio per imparare a fare l'addetto a una pompa di benzina, o il magazziniere in un'officina meccanica: e se proprio l'impresa non vuole rinunciare, allora è bene che questi stage siano molto brevi, di un mese o al massimo due.Vincoli di orario troppo stretti. Uno stagista non può mai essere considerato indispensabile all'interno di un ufficio. Dover chiedere giornate di permesso con molto anticipo, venire obbligati a recuperare le ore perdute, essere inseriti nei turni del resto del personale non è un buon segno: lo stagista è lì per imparare, non per produrre, e l'impresa non dovrebbe far affidamento su di lui per nessuna attività "cruciale".Troppi stagisti e stage troppo lunghi. Ci sono aziende che prendono sottogamba la normativa, e ospitano più stagisti di quanti la legge consenta, e/o tengono gli stagisti troppo a lungo. In linea generale, provate a fare un calcolo a spanne del posto dove siete in stage: la proporzione tra persone assunte con contratto a tempo indeterminato e stagisti non deve mai superare il 10%. Se ci sono troppi stagisti, è giusto segnalarlo. La durata di uno stage in una determinata azienda in linea di massima non può mai superare i 12 mesi: se avete già fatto un anno di stage e vi propongono una proroga (anche solo di poche settimane), siete di fronte a un comportamento illegale.Stage sterili e inutili. Sono i casi in cui lo stagista fa poco o niente: relegato in un angolino, abbandonato a se stesso, con l'unica attività di scaldare la sedia. Oppure le sue mansioni vengono vincolate in maniera eccessivamente rigida, che rischia di sfociare nell'umiliazione: stagisti che non hanno il permesso di scrivere email, rispondere al telefono, partecipare a riunioni e attività. In questo caso, però, la soluzione non è tanto quella di rivolgersi alla DPL per far valere i propri diritti, quanto quella di fuggire a gambe levate da uno stage inutile.A questo punto, se pensate che il vostro stage rientri o si avvicini a uno di questi casi, uscite dal silenzio e agite. Tacere e subire porta solo alla frustrazione e alla perpetuazione dello status quo: se ognuno dà il suo contributo per rimettere lo stage sul binario giusto, fa qualcosa di positivo per sé e per l'intero mercato del lavoro italiano.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- I controlli degli ispettori del lavoro sull’utilizzo dello stage nelle imprese – i risultati dell'inchiesta- Tanti stage impropri, nessuna segnalazione agli ispettori. Perché? Due testimonianze- Intervista a Paolo Weber: «Gli ispettori a Milano vigilano anche sugli stage, ma quanto è difficile»- La proposta della Repubblica degli Stagisti al ministro Sacconi: imporre a chi sfrutta gli stagisti di fare un contratto di apprendistato- Stagisti sfruttati, i casi finiti in tribunale- Le (poche ma buone) DPL che si occupano (anche) di stage- Controlli sugli stage, tutti i numeri dell'inchiesta della Repubblica degli Stagisti

La proposta della Repubblica degli Stagisti al ministro Sacconi: imporre a chi sfrutta gli stagisti di fare un contratto di apprendistato

La situazione che emerge dalla nostra inchiesta è grave e non va presa sottogamba. Sopratutto in questo periodo di crisi, il rischio che le aziende meno corrette facciano ricorso agli stagisti per rimpiazzare personale "vero", ed evitare così di pagare stipendi e contributi, appare ben verosimile e concreto.C'è bisogno di una stretta decisa nella tutela degli stagisti e nella vigilanza sull'utilizzo di questo strumento. Troppo spesso nella cosiddetta "formazione on the job", cioè lo stage, la parte di "formazione" si perde per strada e resta solo la parte di "job": con evidenti e ingiusti vantaggi per chi formalmente ospita uno stagista, e invece in pratica dispone di un dipendente in più.  La Repubblica degli Stagisti avanza una proposta al ministro del Lavoro Maurizio Sacconi [nella foto qui a fianco]: emettere un provvedimento che preveda che ogni irregolarità rispetto agli stage sia sanzionata con l'obbligo per l'azienda ospitante di assumere lo stagista - o gli stagisti - con un contratto di apprendistato. Se infatti, come ha affermato in una circolare uno dei predecessori di Sacconi - l'attuale ministro dell'Interno Roberto Maroni - l'apprendistato andrebbe considerato l’unico «strumento idoneo a costruire un reale percorso di alternanza tra formazione e lavoro», allora la sanzione più equilibrata e giusta per chi abusa dello strumento dello stage è proprio quella di far inquadrare i falsi stagisti come veri apprendisti.In particolare, sarebbe fondamentale prevedere espressamente questa sanzione per i quattro tipi di irregolarità più frequenti nell'utilizzo dello strumento dello stage: impiegare gli stagisti alla stregua di lavoratori dipendenti; prenderne un numero superiore al lecito; far durare gli stage più a lungo del consentito; "tradire" il progetto formativo, facendo svolgere al tirocinante mansioni completamente diverse da quelle concordate. (Poichè l'apprendistato vale solo per chi ha meno di 29 anni, per tutti gli over 30 la sanzione potrebbe essere trasformata in quella di assumere l'ex stagista con un contratto di inserimento, che ha vincoli meno rigidi per quanto riguarda i soggetti che possono usufruirne).Un provvedimento del genere avrebbe certamente un effetto positivo sul lavoro di tutte quelle DPL che lavorano anche per smascherare gli stage farlocchi, dando agli ispettori un'indicazione chiara e univoca su come comportarsi quando riscontrano irregolarità e abusi. D'altro canto, la misura non sarebbe nemmeno eccessivamente vessatoria dal punto di vista delle imprese, dato che l'apprendistato non solo è un contratto molto vantaggioso dal punto di vista retributivo e contributivo, ma prevede anche una durata (massimo quattro anni): non è quindi quel contratto "eterno" che tanto spaventa oggi gli imprenditori.Accanto a questo provvedimento, che potrebbe avere un impatto davvero significativo sulla situazione, ve ne è certamente un altro che già è stato adottato da alcune regioni e da singole università: vietare di prendere stagisti alle aziende in mobilità, in ristrutturazione, in cassa integrazione. Troppo alto infatti, in questi casi, é il rischio che qualcuna voglia fare la furba e mettere lo stagista a svolgere il lavoro dell'operaio, del magazziniere, della segretaria, dell'ufficio stampa, della venditrice lasciati a casa.Il cappello del "ma io ti offro una preziosa formazione!" era già largo di suo, e lo sta diventando sempre di più. Evitare che con la scusa della crisi si deformi completamente è un preciso dovere per tutti coloro che sono tenuti a vigilare sul corretto comportamento delle aziende nei confronti dei lavoratori, a cominciare dal ministero fino ad arrivare alle associazioni di categoria. Perché non bisogna scordare che vittime di questo sistema non sono solo i giovani, ma anche le imprese che usano correttamente gli stagisti e ai lavoratori fanno contratti seri e danno retribuzioni adeguate. Queste imprese virtuose - o semplicemente oneste - subiscono una concorrenza sleale da parte di quelle che, impiegando gli stagisti al posto dei dipendenti, risparmiano in maniera truffaldina sui costi del personale.Ministro, gli stagisti sfruttati e la Repubblica degli Stagisti e gli ispettori delle DPL sono nelle sue mani. Li aiuti - ci aiuti - a limitare il più possibile i casi di abuso di questo strumento che, se usato correttamente, è tanto prezioso per traghettare i giovani dalla formazione al lavoro.Eleonora Voltolina Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- I controlli degli ispettori del lavoro sull’utilizzo dello stage nelle imprese – i risultati dell'inchiesta- Tanti stage impropri, nessuna segnalazione agli ispettori. Perché? Due testimonianze- Vademecum per gli stagisti: ecco i campanelli d'allarme degli stage impropri - se suonano, bisogna tirare fuori la voce- Intervista a Paolo Weber: «Gli ispettori a Milano vigilano anche sugli stage, ma quanto è difficile»- Stagisti sfruttati, i casi finiti in tribunale- Le (poche ma buone) DPL che si occupano (anche) di stage- Controlli sugli stage, tutti i numeri dell'inchiesta della Repubblica degli Stagisti

Caro Celli, altro che emigrare all’estero: è ora che i giovani facciano invasione di campo e mandino a casa i grandi vecchi

Il punto di vista di un outsider che invita i giovani a riappropriarsi del loro futuro: con questo editoriale Alessandro Rosina, 40 anni, docente di Demografia e autore insieme a Elisabetta Ambrosi del bel saggio Non è un Paese per giovani (Marsilio) inaugura la sua collaborazione con la Repubblica degli Stagisti. L’Italia è diventata, negli ultimi decenni, uno dei paesi sviluppati che meno offrono opportunità ai giovani. La strategia più comune è diventata quella di rimanere a vivere il più a lungo possibile a carico dei genitori. E, se proprio si deve uscire, meglio andarsene all’estero. Il bilancio fortemente negativo tra giovani cervelli che se ne vanno oltre confine e quelli che riusciamo ad attrarre dal resto del mondo sviluppato è uno dei tanti indicatori che documentano lo stato di sottosviluppo raggiunto dall’Italia sul piano delle possibilità offerte alle nuove generazioni.Uno stato candidamente riconosciuto da Pier Luigi Celli, che sulla prima pagina del quotidiano Repubblica invita il figlio Mattia, finita l’università, a lasciare l’Italia: «scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati». La lettera di Celli, sessantasettenne direttore generale della Luiss, è la dichiarazione di un fallimento. La sua generazione si è presa tutto quello che poteva. La generazione dei figli non è riuscita a detronizzarla e viene quindi invitata ad andarsene in esilio.Il nostro paese, del resto, assomiglia sempre di più ad una squadra di calcio nella quale giocano sempre i soliti, quelli della vecchia guardia. I giovani se ne stanno più o meno comodamente in panchina, chiedendo ogni tanto timidamente di entrare. Insomma, come se Paolo Rossi e Dino Zoff, quelli dell’Italia del 1982 che oggi hanno 50-60 anni, pretendessero di andare loro l’anno prossimo in Sudafrica a giocarsi la coppa del mondo, al posto di ventenni come Davide Santon e Antonio Candreva, le vere promesse dell’Italia 2010.Rimanendo nella metafora, ecco allora la cronaca degli ultimi avvenimenti. I vecchi giocatori litigano continuamente, non si passano la palla, vogliono tutti segnare, nessuno si sacrifica a centrocampo, e la porta rimane fragilmente esposta agli attacchi esterni. Uno di loro, tra i più sornioni in campo, si avvicina alla panchina. Vorrà finalmente uscire? Inizia la stagione dei cambi? Pia illusione. Si ferma vicino alla linea laterale. Fa cenno al figlio di avvicinarsi, ma senza oltrepassare la line bianca, e gli dice: «Caro Mattia, ho visto che ti sei riscaldato bene e con impegno, ma è inutile che pensi di entrare. Come vedi qui giochiamo noi e ci divertiamo molto, anche se in effetti perdiamo sempre. Tu sei bravo, ma qui non c’è spazio per te. Perché allora, invece di perdere tempo qui, non te ne vai a giocare da un’altra parte? Meglio per te, sai. Questa è una squadra di cialtroni che però non vogliono mai mollare, me compreso. Se vali, come penso, vedrai che non farai fatica a trovare un’altra squadra in cui giocare e diventare magari un campione».Ecco, dopo il danno, la beffa. E se invece di emigrare, le riserve facessero una bella invasione di campo?Alessandro RosinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- «Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia)- Trentenni italiani, la sottile linea rossa tra umili e umiliati nel libro «Giovani e belli»- Stage gratuiti o malpagati, ciascuno può fare la rivoluzione: con un semplice «no»

AAA Diritto al futuro cercasi, domenica 15 novembre dibattito sui giovani alla Rassegna della Microeditoria a Chiari

Dura la vita dei giovani in Italia. Da una parte la gerontocrazia, che mantiene gli ultrasessantenni saldamente al potere su tutte le poltrone che contano. Dall’altra la cronica mancanza di meritocrazia, per cui (quasi) tutto si muove grazie a conoscenze e raccomandazioni invece che in base alle capacità e al talento. Dall’altra ancora, un mercato del lavoro «duale», che spacca in due la società tra chi è protetto da un contratto a tempo indeterminato e chi invece si deve barcamenare tra un contratto atipico e l’altro, con retribuzioni spesso insufficienti e prospettive per il futuro limitate a dopodomani. In questo sottoinsieme sta la maggioranza dei giovani italiani: una situazione che non solo crea frustrazione e depressione a livello individuale, ma che ha anche effetti deleteri sull’intera società. Innanzitutto perchè i giovani non credono più nel futuro, non hanno le forze per andare a vivere da soli, costruirsi una vita autonoma e un nucleo familiare, fare figli e diventare finalmente adulti – e quindi stentano anche a entrare a pieno titolo nel circuito dell’economia italiana, perchè se non guadagnano non spendono e se non spendono non investono e se non guadagnano sono i genitori a dover pagare i loro conti fungendo in pratica da ammortizzatori sociali. Secondo poi, perchè quelli più scaltri, più coraggiosi, o anche solo meno pazienti scappano all’estero, per trovare le opportunità di carriera e di guadagno che qui in Italia sono un miraggio. Basti pensare che, per esempio, un laureato che fa un dottorato negli Stati Uniti prende 3mila euro al mese, mentre qui da noi 8-900 quando va bene.Il circolo vizioso va spezzato: e se è vero che servirebbero molte riforme, ancor più indispensabile è attivare il meccanismo del cambiamento attraverso le idee, il dibattito, le iniziative. Impegnandosi in prima persona. Domenica 15 novembre alla Rassegna della Microeditoria a Chiari, in provincia di Brescia, parteciperò al dibattito AAA Diritto al futuro cercasi insieme ad Alessandro Rosina [nella foto a destra], 41 anni, professore di Demografia alla Cattolica di Milano e autore con la giornalista Elisabetta Ambrosi del bellissimo saggio Non è un paese per giovani (Marsilio), e Sergio Nava, 34 anni, giornalista che collabora con Radio 24 dopo varie esperienze all'estero – che forse gli sono servite da ispirazione per il suo libro La fuga dei talenti (Edizioni San Paolo). Insieme cercheremo di fare il punto della situazione sulla «strada accidentata dei giovani italiani tra frustrazione, fuga e riscossa», come recita appunto il sottotitolo dell'incontro, fotografando la situazione di oggi e ragionando su come se ne possa uscire: per far tornare l’Italia un paese per giovani.A moderare il dibattito sarà Massimiliano Magli [nella foto a sinistra], giornalista trentaquattrenne che collabora con il quotidiano Bresciaoggi e dirige il network Nordpress. L’appuntamento è a Villa Mazzotti, in Sala Morcelli, alle 17:05. E quei cinque minuti «mancanti» non sono casuali: saranno dedicati al ricordo della grande poetessa milanese Alda Merini, scomparsa qualche giorno fa, che era stata ospite della prima edizione della Rassegna della Microeditoria nel 2003.Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- «Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia)- Crisi e mercato del lavoro, Tito Boeri: è il momento che i giovani si facciano sentire e lancino delle proposte