Estendere le tutele garantite dai contratti per i dipendenti anche alle centinaia di migliaia di praticanti, lavoratori a progetto, partite Iva e tirocinanti che popolano gli studi professionali – quindi architetti, avvocati, ingegneri, commercialisti... – la cui attività è pressoché priva di regolamentazione. Con questo obiettivo è partita la campagna «Costruiamo la trattativa» lanciata da Filcams Cgil, NIdiL Cgil, Giovani non + disposti a tutto con le associazioni Praticanti Sesto Piano e Iva sei Partita.
La settimana scorsa a Roma si è tenuto un primo incontro con tutti gli esponenti e portavoce di questo comparto, affinché con il loro contributo, spiegando i problemi reali che i lavoratori autonomi affrontano quotidianamente, aiutino le parti sociali a capire quali sono gli snodi su cui battersi e le rivendicazioni da spuntare nella trattativa con Confprofessioni. C'è anche un sondaggio online in cui gli interessati possono votare i punti che ritengono fondamentale inserire nella nuova normativa.
Il progetto risale al novembre 2011: allora venne siglato il contratto nazionale degli studi professionali «che interessa circa un milione di lavoratori subordinati e quattrocentomila tra praticanti e partite Iva a cui per la prima volta sono state estese le tutele dei lavoratori dipendenti» come si legge nel comunicato dei promotori. Tuttavia il percorso è ancora lungo: «La trattativa per la definizione di alcuni elementi contrattuali è ancora in corso».
Tra le proposte c'è un decalogo intitolato «Dieci regole di civiltà per la vita di praticanti, collaboratori e partite Iva negli studi professionali». «Il lavoro autonomo deve essere regolamentato nel contratto nazionale di lavoro e alcuni principi minimi di civiltà devono essere sanciti per tutti e diventare finalmente esigibili». Il primo punto riguarda la formazione: alla controparte si chiede di garantire che questa sia reale e documentata da un progetto formativo in cui figurino le attività da svolgere. A chi ancora studia si deve assicurare la possibilità di seguire la didattica, mentre per i lavoratori vale il diritto alla formazione continua in vigore per i dipendenti.
Al punto due c'è la «giusta paga», che secondo il decalogo «deve essere commisurato alla figura del quadro, secondo i meccanismi retributivi previsti per l'apprendistato del terzo tipo». Per i professionisti che collaborano con o senza partita Iva «la paga oraria del quadro, comprensiva di tutti gli oneri previsti per i dipendenti, deve diventare la base minima da cui partire»: proprio questo è uno dei passaggi su cui più si è dibattuto all'assemblea. Innanzitutto, come determinare il compenso minimo? Paola Ricciardi, architetto dell'associazione Iva sei partita [nella foto, durante il suo intervento], propone «non meno di 5 euro l'ora. Oppure per una commessa da un milione di euro, va garantito almeno il 20%, e non lo 0.5% quindi 500 euro». Anche per Julian Colabello [nella foto in basso] dell'associazione Sesto Piano, quello dell'equo compenso è un principio sacrosanto. E lancia un allarme: «la riforma forense, che entrerà in vigore tra due anni, prevede una selezione basata sul censo laddove richiede il passaggio per una scuola obbligatoria di specializzazione post laurea. Pertanto un reddito di formazione è basilare: come non considerare che il praticante va sostenuto?» si chiede. E poi: passi pure l'ipotesi di alcuni per cui il praticante avvocante venga pagato a incentivi (cioè se trova lavoro per lo studio prende una percentuale), ma anche per la ricerca dei clienti «deve avere uno spazio dentro lo studio: l'attività autonoma deve esserci» ed essere prevista attraverso una garanzia contrattuale.
Alessandro Pillitu, avvocato della stessa associazione di Colabello, espone invece il punto di vista degli studi legali più piccoli, quelli che ogni giorno «si arrabattano per la sopravvivenza». «Da noi c'è una crisi strutturale degli incassi, crisi di liquidità e prospettive di guadagno. Questo è il problema attuale» spiega. «Oggi abbiamo un sistema dove se non girano soldi crolla tutto. Faccio un altro esempio, gli studi di architettura: qui se le commesse non si attivano si rischia la chiusura. E lo stesso avviene negli studi legali come il mio». Mancanza di soldi quindi, per cui «chi si barcamena con fatturati di 30-35mila euro all'anno riuscendo a mettersi in tasca sì e no 10mila euro all'anno, al netto di tutte le spese (affitto di una stanza a Roma in media 10mila euro, cassa forense 300 euro al mese, utenze e via dicendo) non può dare – poniamo - 400 euro al mese al praticante, cioè 4.800 euro all'anno». Un costo che diventa sproporzionato, quasi un ottavo del fatturato totale.
E poi c'è il problema del fisco, che se scopre la presenza di un 'dipendente' come potrebbe essere il praticante messo a contratto, chiede l'Irap, la stessa «che poi va a coprire i buchi della sanità nazionale» aggiunge ancora. Una tassa peraltro ritenuta odiosa dai datori di lavoro, scoraggiati spesso per questo motivo ad assumere nuovo personale, e che rende molto più vantaggiosa invece la partita Iva (che esenta dall'obolo).
Come si aiutano giovani praticanti allora? Per Pillitu, facendo due battaglie: quella per «l'abolizione dell'esame della professione «perché è completamente inutile, e non dà la misura della preparazione». E poi con la difesa d'ufficio (diritto riconosciuto a chi non ha un legale di fiducia e che può quindi farselo attribuire dallo Stato ma pagandolo poi di tasca sua) e la retribuzione del gratuito patrocinio (per chi non può permettersi un avvocato perché ha un reddito inferiore ai 10 mila euro annui: qui a pagare è il ministero della Giustizia), istituti riconosciuti dalla Costituzione a garanzia del diritto di difesa. «Lo Stato oggi ci mette in media ben sette anni a pagare», denuncia Pillitu.
Qui entra in gioco il terzo punto del decalogo: i tempi di pagamento, che devono essere «certi». «Altrimenti, dopo i tre mesi, si pagano gli interessi» rilancia Paola Ricciardi, ribadendo l'importanza di queste tutele: «Noi facciamo parte di un mondo professionale percepito finora come "forte" dall'opinione pubblica: la gente crede che non abbiamo bisogno di tutele perché coi nostri mestieri si guadagna talmente tanto che possiamo anche permetterci di non lavorare 3 giorni al mese se abbiamo la febbre. Ma oggi non è più così». E sottolinea l'essenzialità di un contratto scritto con «contenuti minimi da rispettare», il punto numero quattro del decalogo, per cui per le «partita Iva deve essere sempre obbligatoria una lettera di incarico scritta, firmata da entrambe le parti.
Nella lista compare anche la richiesta di diritti che dovrebbero essere impliciti per ogni lavoratore e di cui «il titolare dello studio professionale deve farsi carico»: e una buona notizia è che, assicurano dalla Cgil, ci sono segnali di apertura della controparte. Qualora la trattativa sindacale andasse a buon fine, per la prima volta gli autonomi potrebbero godere di assicurazione contro gli infortuni o per responsabilità civile. E poi di tutela per malattia e maternità, perché «in questo caso non può venir meno la conservazione del rapporto di praticantato, di collaborazione o di prestazione a partita Iva» statuiscono nel decalogo. E ancora, al nove di assistenza sanitaria, come la Cadiprof, cassa integrativa per professionisti, «che deve valere per tutti». E infine, potrebbero essere svincolati dal pagamento degli oneri previsti per l'attivazione della pratica professionale, coperti dallo studio.
Roberto D'Andrea delle politiche giovanili di Nidil chiede infine l'aggiunta di un undicesimo punto: il potenziamento del coworking, ovvero di luoghi dove professionisti freelance lavorano insieme, affittando una stanza o una scrivania. Le grandi città come Roma, «sono piene di spazi pubblici abbandonati», denuncia, facendo presente che investire in questo settore può fare la differenza. «Sono posti che servono a connettere le persone, e a dare una mano a chi vuole iniziare ma non ce la fa perché i costi per uno studio sono proibitivi».
Con questa iniziativa il sindacato mette le basi per la costruzione di un contratto che renda sostenibile il lavoro dei precari negli studi professionali. Anche questa è una delle questioni concrete da cui ripartire per mettere in pratica quel cambiamento di cui in politica, di questi tempi, non si fa altro che parlare.
Ilaria Mariotti
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