Categoria: Approfondimenti

L'informatica è un'opportunità per trovare lavori interessanti e ben pagati, ma i giovani non lo sanno

Attorno all'informatica ruotano i mestieri del futuro e si concentra il maggior numero di opportunità professionali del momento, eppure i giovani italiani – soprattutto le ragazze – sono restii a studiarla. Se però lo avessero saputo prima di iniziare le superiori o l'università, allora avrebbero «considerato con più attenzione questa possibilità». A dichiararlo è una percentuale enorme di giovani, pari a circa un terzo degli intervistati (il 36% delle ragazze e il 29% dei ragazzi) nell'ambito del sondaggio commissionato all'Osservatorio giovani dell'Istituto Toniolo da questa testata e da Spindox, società di consulenza informatica e aderente all'RdS network.Duemila ragazzi tra i 20 e i 34 anni sono stati ascoltati per scoprire “perché i giovani italiani non studiano informatica” benché «ogni anno la richiesta di professioni nel settore Ict cresca mediamente del 26%, con picchi del 90% per nuove professioni come Business analyst e specialisti dei Big data», come si legge in una delle domande della ricerca. Dunque, un terzo del campione esprime una sorta di rimpianto a non aver saputo prima quante opportunità professionali fossero legate alle competenze informatiche: a tornare indietro sarebbero soprattutto le donne tra i 26 e i 34 anni, nella fase in cui si è nella ricerca attiva di un lavoro «e ci si rende conto della mancanza di opportunità», è il commento del demografo e curatore del rapporto Giovani Alessandro Rosina [nella forto in alto], alla presentazione romana dell'indagine, alla Camera dei deputati, coordinata dalla giornalista Rosario Amato. Figure, quelle in campo informatico, per lo più introvabili: «Il mismatch è drammatico e rappresenta un freno alla crescita della nostra azienda» conferma Paolo Costa [nella foto sotto], fondatore e partner di Spindox. «Ed è un problema di tutto il settore». Principale indiziato è la scuola. «La 'distanza' tra giovani e informatica inizia lì» è la conclusione del rapporto: «Agli studenti delle scuole medie e soprattutto delle superiori non viene spiegato abbastanza bene quanto siano preziose e richieste le competenze informatiche dal mercato del lavoro». Anche perché «l'informatica non è solo una materia da studiare, ma un mezzo con cui a scuola si dovrebbe insegnare tutto» è il parere di Anna Ascani [nella foto a destra], viceministra alla Scuola, che nel 2018 aveva sottoscritto il Patto per lo stage impegnandosi a sostenere le battaglie della RdS per migliorare la condizione occupazionale dei giovani. Oggi si dice impegnata «nell'estensione del Piano nazionale scuola digitale per arrivare a quota 8mila scuole». Ma per farlo non c'è più bisogno di ulteriori riforme «che si sono rincorse negli anni restando però ancorati al sistema delle lezioni frontali». Bisogna invece puntare in primis «sulla formazione degli insegnanti, perché è inutile portare strumenti se poi non c'è formazione sul tema». Il personale «deve essere in grado di far capire che le competenze informatiche sono fondamentali». E che oggi, prosegue Ascani, «ci si può dire alfabetizzati solo sapendo leggere, scrivere e programmare». Il punto centrale è partire da subito, dalla primaria, «introducendo già da lì il coding di base». Perché poi quando i ragazzi arrivano all'università, pur scegliendo informatica, «è già troppo tardi» secondo Costa. Per capire di cosa si ha bisogno nell'Information Technology si deve potenziare la formazione di base, non basta l'ora di informatica che è talvolta prevista nelle scuola, troppo poco per far appassionare i ragazzi «e far capire che uno sviluppatore di software è anche un creativo».  A pesare più di tutti sul mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro nel settore informatico sono gli stereotipi di genere, «che disegnano l'informatica come cosa da maschi» illustra la ricerca, da cui si apprende che quattro ragazzi su dieci (38,8%) sono convinti della «superiorità» del proprio genere in campo informatico. A cui si accompagna un quinto di donne che si dichiara d’accordo con l’affermazione che le donne siano meno portate dei maschi a studiare informatica. E il paradosso è che tra i ragazzi non si riscontra, come si potrebbe pensare, una percezione dell'informatica come materia noiosa o troppo difficile: a pensarlo è solo il 34% degli uomini e il 30 delle donne. Anzi esiste anche una certa consapevolezza sull'utilità dell'informatica per trovare maggiori opportunità di lavoro e a migliori condizioni. «Studiare informatica permette di accedere a lavori meglio retribuiti per il 68% degli uomini e il 66% delle donne e consente di trovare lavoro in modo piu rapido per il  67% degli uomini e il 63% delle donne». Ne hanno contezza insomma, ma forse sanno poco di quali lavori si tratti realmente. «Troppo spesso si scelgono i mestieri dei genitori per assenza di conoscenza» rincara la dose Massimo Ungaro [nella foto a destra], deputato di Italia Viva, anche lui sottoscrittore del Patto per lo stage 2018 insieme a Ascani. «Se si facesse programmazione ci metteremmo in pari con tanti paesi europei» fa sapere. «Tra questi per esempio la Francia, che ha rivoluzionato il sistema dei licei introducendo una impostazione più scientifica». La matematica «è lì considerata una materia che mette tutti sullo stesso livello, abbattendo il vantaggio che può avere il figlio di una famiglia abbiente che può magari contare su una biblioteca a casa più fornita». Non a caso «l'Ocse ci mette all'ultimo posto per la mobilità sociale, e anche per la spesa sui giovani». Al governo, assicura, è in corso una inversione di tendenza per migliorare la condizione giovanile, per esempio con l'istituzione di una Agenzia nazionale della ricerca, la riformulazione della legge Controesodo. E poi sono allo studio misure «sui minimi salariali e ancora su un decreto giovani per l'allocazione di risorse per i giovani adulti che decidano di cambiare percorso». È proprio tra i 30-34enni che l'Italia registra il maggiore numero in assoluto in Europa di Neet, «i meno giovani che avremmo dovuto formare per essere ancora vincenti e produrre benessere, ma non ci siamo riusciti» evidenzia Rosina. «Ora sono invece una montagna di inattivi che finora ha contato sulle famiglie di origine, ma poi cosa succederà?» si chiede. «Siamo persi se non si riuscirà a trasformarli in soggetti attivi». Magari puntando proprio sull'informatica. Perché l'obiettivo, sottolinea Eleonora Voltolina, direttrice della Repubblica degli Stagisti, «non è che tutti studino informatica, perché ci sarà sempre bisogno di attori, musicisti o veterinari: ma non tutti hanno una grande passione alla base che li spinge verso una scelta determinata». A tentare l'informatica potrebbe essere allora «una grande porzione di indecisi che troverebbero così una miniera di offerte migliori rispetto alla media». Quella fetta di giovani disposta a tornare sui propri passi rappresenta «una prateria di opportunità per raddrizzare la situazione», investendo molto più di ora in orientamento e formazione. Ilaria Mariotti

200mila giovani all'anno lavorano mentre studiano: scelta meritoria o fallimento del diritto allo studio?

A catturare l'attenzione mediatica sono i Neet, ovvero i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano né lavorano, e che in Italia – rispetto al resto dell'Ue – raggiungono purtroppo il picco (le ultime rilevazioni parlano di una quota pari a circa il 23 per cento, oltre due milioni di ragazzi, il doppio della media europea). Eppure esiste un rovescio della medaglia, rappresentato da una folta comunità di chi non solo è iscritto a un corso di studi, ma che nel frattempo lavora anche, dandosi quindi un bel da fare: i cosiddetti studenti lavoratori.Secondo dati dell'Istat elaborati per la Repubblica degli Stagisti, la fetta di 15-29enni che nel 2018 era impegnata in ambedue le attività riguarda 206mila soggetti, con una leggera maggioranza di femmine (sono 109mila, pari al 53%). Un numero che negli anni ha subito forti oscillazioni. Se guardiamo per esempio a dieci anni fa, il totale era di 250mila studenti lavoratori, poi sceso progressivamente – forse per gli effetti della crisi economica – fino a toccare il suo minimo, a quota 166mila, nel 2015. Da quell'anno la cifra risulta di nuovo in salita. Il riscontro arriva anche da Almalaurea, che nell'ultimo rapporto pubblicato afferma come «nell'ultimo decennio si è assistito a una flessione della quota di laureati con esperienze di lavoro durante gli studi, passati dal 74 al 65 per cento, per colpa della crisi ma anche del progressivo ridursi della popolazione iscritta all'università». Numeri che dicono molto, ma che hanno inevitabilmente anche un limite. Perché larga parte degli studenti lavoratori, specie se universitari, svolgono 'lavoretti' spesso non contrattualizzati e quindi invisibili. «Non si sceglie certo il lavoro della vita in questi casi» taglia corto con la Repubblica degli Stagisti Camilla Guarino [nella foto], 26enne studentessa di Sociologia e coordinatrice nazionale di Link, associazione studentesca che promuove i diritti degli studenti. Si finisce «nella ristorazione o tra i riders» esemplifica. Ma c'è anche chi dà ripetizioni, fa la babysitter o consegna volantini, per lo più in nero: ed è difficile che questi casi finiscano nelle statistiche ufficiali, andando invece a popolare un sottobosco di lavoretti. Anche qui però bisogna distinguere. Perché tra i motivi dietro la scelta di dividersi in una doppia attività possono nascondersi le ragioni più disparate. Più di frequente è proprio l'urgenza di mantenersi gli studi senza dover pesare sui familiari e quindi la spinta è prettamente economica; talvolta avviene solo per coprire le spese personali senza delegare alla famiglia e conquistare così un pezzetto di indipendenza. Sempre secondo Almalaurea infatti, il 59 per cento dei laureati del 2018 ha compiuto una qualche esperienza di lavoro nel corso degli studi universitari, mentre solo il 6 per cento si è laureato lavorando stabilmente.Non mancano neppure i casi di chi nella condizione di studente lavoratore ci si ritrova perché nel mezzo del percorso universitario incrocia un'opportunità lavorativa e decide di portare comunque a termini gli studi. Oppure di chi, da lavoratore, magari per salire di grado in azienda, decide di iscriversi all'università. E per questi sono di solito previsti dei permessi speciali, fino a un totale di 150 ore da spalmare su tre anni, che consentono di assentarsi per sostenere degli esami e studiare (a sancirlo è l’art. 10 della legge 300/1974). Una scelta in ogni caso «meritoria», come la definisce il Rapporto Giovani dell'Istituto Toniolo che nel 2014 realizzò un focus sul tema, «quella di cercare durante gli studi di mantenersi del tutto o parzialmente da soli, tanto più in un Paese come il nostro che presenta i più alti tassi di dipendenza economica dei giovani dai genitori nel mondo sviluppato». E non è neppure la provenienza da una classe meno abbiente l'aspetto decisivo: «La volontà di farlo è dettata non sempre e solo da necessità» prosegue il rapporto, «ma è determinata anche dal desiderio di autonomia e da un senso di responsabilità». Tanto che «tra coloro che studiano, la quota di chi svolge una qualche attività lavorativa supera di poco il 16 per cento tra chi proviene da famiglie con classe sociale più bassa». Cambia poco per chi ha origini più borghesi: a lavorare e studiare contemporaneamente è il 15 per cento. La questione si lega poi in modo diretto anche al tema del diritto allo studio . «Non tutti gli studenti che hanno diritto a una borsa di studio, ovvero quelli con Isee sotto i 23mila euro, riescono a ottenerla» ricorda Camilla Guarino, e anzi «al momento sono almeno un paio le Regioni che non coprono tutte le borse: Sicilia e Lombardia». Alcuni passi sono stati fatti «perché al Fondo nazionale per il diritto allo studio, su cui sono stanziati 250 milioni, sono stati aggiunti 31 milioni in questa legge di Stabilità». Le borse di studio non cambiano la vita, ma  forniscono un po' di ossigeno. L'ammontare «va dai 900 ai 5mila euro annuali a seconda delle Regioni». E c'è anche il problema degli alloggi universitari: «Sono 21mila in Italia gli studenti che ne avrebbero diritto ma che non lo ricevono per mancanza di fondi o strutture», con il risultato «di aumentare ulteriormente il costo degli affitti sul mercato privato». Anche gli atenei danno una mano a chi si sobbarca la doppia fatica di lavorare e studiare. «I sistemi cambiano a seconda delle università» fa notare Guarino. La norma è però di solito «il percorso part time, che adotta ad esempio La Sapienza di Roma, e che consente di restare in corso sostenendo la metà degli esami annuali e quindi raggiungendo la metà dei crediti previsti». Per chi va fuori corso le tasse di solito salgono, mentre rimane nella no tax area chi possiede un Isee al di sotto dei 13mila euro. In sostanza «si paga la metà delle tasse annuali ma il percorso si allunga» fa notare Guarino. Di per sé si tratta di un servizio «positivo» a giudizio di Link, «perché consente di scegliere quale percorso adottare». Il problema di fondo resta però che l'essere studenti lavoratori dovrebbe essere una scelta e non una costrizione. «Alla radice c'è il diritto allo studio, che non funziona se si è obbligati a lavorare per poter studiare». Da noi, a differenza che in altri Paesi, «mancano servizi e welfare». Una soluzione potrebbe essere «un reddito di formazione pensato per chi studia: prevedere una misura simile allargando la possibilità di studiare sarebbe una ricchezza per il Paese». Ilaria Mariotti 

In Sardegna la legge sugli stage non migliora, i sindacati: “Uccide le altre politiche per il lavoro”

A metà novembre la Regione Sardegna ha approvato una deliberazione che ha modificato le “Linee guida in materia di tirocini formativi e di orientamento” del 2017. Ma di fatto si è trattato di un mero adeguamento formale. Il testo, infatti, integra e amplia la definizione del soggetto in stato di disoccupazione, così come da nuova previsione della legge 26/2019 sul reddito di cittadinanza; sostituisce il riferimento al “Repertorio regionale delle figure professionali” con quello attuale denominato “Repertorio regionale dei profili di qualificazione”; nonché il riferimento al “Settore politiche e servizi per il lavoro”, ora eliminato per via della riorganizzazione dell’Assessorato al lavoro, con il “competente Servizio dell’Assessorato del Lavoro, Formazione Professionale, Cooperazione e Sicurezza Sociale”.  Nessuna traccia, invece, delle modifiche richieste lo scorso 31 ottobre in una nota delle segreterie sindacali regionali di Cgil, Cisl e Uil. «Avevamo chiesto una revisione sostanziale delle linee guida regionali» spiega Michele Carrus, segretario regionale Cgil, tra i firmatari della nota «e una riconsiderazione critica dello strumento del tirocinio per restituirlo alla sua vera funzione e migliorare le modalità di attuazione dei percorsi».Ma c’è stato un feedback dalla Regione? «Finora abbiamo avuto una risposta interlocutoria indiretta» risponde il sindacalista «in occasione della Conferenza regionale per il lavoro, quando l’assessore al lavoro ha affermato di aver ricevuto il nostro documento, con il quale si misurerà e di cui cercherà di tener conto nei prossimi bandi».La Repubblica degli Stagisti ha chiesto un'intervista all'assessore regionale al lavoro, Alessandra Zedda, per capirne le intenzioni, ma da fine novembre a oggi non ci è stata concessa udienza. Ma perché il testo non è visto di buon occhio dalle sigle sindacali? Perché queste ultime non accettano che il tirocinio sia considerato dalla Regione lo strumento principe di politica attiva per il lavoro. «A sostegno del Programma TVB [tirocini, voucher, bonus, ndr] sono stati stanziati ben 13,35 milioni di euro, mentre ad esempio l’apprendistato gode di soli 1,5 milioni», lamenta Carrus. «Riteniamo che lo strumento del tirocinio produca non solo un danno insopportabile per chi deve accontentarsi di esso per avere un’attività» aggiunge il segretario «ma anche effetti distorsivi sul mercato del lavoro, rendendo meno efficaci altri strumenti ai quali fa evidente attività concorrenziale. Un datore di lavoro, infatti, con soli 150 euro [gli altri 300 li mette la Regione, ndr] prende un tirocinante e lascia a casa un lavoratore stagionale». Tra le richieste contenute nella nota spicca quella di rivedere i limiti di intensità della presenza del tirocinante, che nella formula base non dovrebbe superare la metà del tempo di lavoro contrattualmente definito per il corrispondente profilo professionale, nonché di ridefinire il valore dell’indennizzo base. «A mio avviso sarebbe congruo un rimborso di almeno 600 euro per 25 ore di lavoro» sostiene il sindacalista «compensato, in caso di aumento delle ore, in maniera almeno proporzionale, e totalmente a carico dell’azienda».L'ultimo avviso regionale per 800 tirocini extracurriculari di inserimento e/o reinserimento al lavoro sembra seguire questo suggerimento, dato che prevede una indennità di 600 euro al mese (e non 400 come da minimo fissato dalle linee guida), totalmente a carico delle Regione, per la durata di sei mesi. Peccato che i destinatari della misura siano “stagisti anziani”, vale a dire over 35 anni. Forse per questo il rimborso spese previsto è più alto di quello che solitamente prendono, in Sardegna, gli stagisti “giovani”?Tornando alle proposte, i sindacati chiedono «di prevedere e regolare meglio le funzioni di tutoring, sia nelle agenzie promotrici sia nelle aziende ospitanti, e la redazione/approvazione del piano di tirocinio individuale (PTI), con verifica finale degli obiettivi e relativa certificazione». E propongono l’istituzione di un organismo regionale di monitoraggio e verifica, anche in itinere, che coinvolga, insieme alle organizzazioni sindacali, anche gli organi pubblici di vigilanza e le istituzioni scolastiche e universitarie, con funzione di prevenzione/dissuasione di possibili usi scorretti dello strumento. Parallelamente dovrebbero essere previste forme e misure sanzionatorie efficaci, come l’invito a regolarizzare la situazione entro un tempo stretto definito, la riduzione delle sovvenzioni eventualmente godute, la restituzione parziale o totale degli aiuti regionali/pubblici concessi negli ultimi due anni all’azienda e la sua esclusione da future assegnazioni per un certo periodo, in rapporto alla gravità o alla dolosità della condotta irregolare riscontrata. Allo stesso tempo, i sindacati sardi vedrebbero di buon occhio forme di premialità, quali contributi crescenti, a quelle imprese che effettuano inserimenti post tirocinio.Va ricordato che in Sardegna, più che altrove, il tirocinio viene sfruttato troppo spesso in luogo del contratto di lavoro stagionale. Qui la richiesta dei sindacati è che venga categoricamente esclusa la possibilità di attivare tirocini per mansioni semplici e/o di bassa qualifica professionale. Tra il 2016 e il 2017 i tirocini extracurriculari in Sardegna erano cresciuti del 37 per cento, passando da 5.272 a 8.425. Nel 2018 sono lievemente diminuiti (8.343), ma l’utilizzo resta massiccio. «Il 45 per cento dei tirocini si sono trasformati in rapporto lavoro» precisa Carrus, ma di queste assunzioni «il 40 per cento prevede una retribuzione inferiore ai 700 euro, quindi per basse e bassissime qualifiche. Inoltre se due terzi dei tirocinanti erano donne, solo un terzo sono le donne assunte dopo il tirocinio, una sconfitta per le politiche per l’occupazione femminile». Più volte La Repubblica degli Stagisti ha parlato delle distorsioni nell’utilizzo dei tirocini in Sardegna, che hanno portato anche alla nascita dell’iniziativa “Telefono Rosso” contro i tirocini truffa. Tuttavia a livello istituzionale poco ancora si è mosso nella lotta a tali distorsioni e nel miglioramento delle condizioni dei tirocinanti.Rossella Nocca

Donne italiane ai margini dell'occupazione: pochi servizi per l'infanzia e troppo lavoro domestico

Le donne italiane annaspano nel tentativo, a volte impossibile, di conciliare lavoro e vita familiare. Lascia poco spazio all'ottimismo la fotografia della condizione femminile nel nostro Paese scattata dalla rivista accademica Economia italiana nel numero monografico 'Gender gaps in Italy and the role of public policy' presentata un paio di settimane fa a Roma nella sede di Bankitalia. A farne le spese è l'occupazione, scarsa, della popolazione femminile: «Nel 2018 il tasso di occupazione europeo era pari al 73,8 per cento per gli uomini contro il 63,3 per cento delle donne» si legge nella sezione curata da Francesca Barigozzi, ricercatrice di Scienze economiche dell'università di Bologna. Ma in Italia il tasso di impiego delle donne è fermo al 49,5 per cento, non raggiungendo neppure la metà del totale, «contro il 67,6 per cento degli uomini e con uno scarto di ben diciotto punti». Per Barigozzi la controprova dell'esclusione delle donne dal mercato del lavoro è data dal numero di chi ha sì un lavoro part time, ma non per scelta bensì «involontario». Vi rientra «il 60,8 per cento delle donne occupate, quasi tre volte il 22 per cento della media europea». Allo stato di emarginazione delle donne contribuisce un certo tipo di mentalità tutta nostrana, che delega loro tutte le incombenze riguardanti casa e famiglia. Anche qui i dati sono inequivocabili perché è proprio 'l'altra metà del cielo' a curare, quasi per intero, la casa, «dedicandogli un lavoro extra quantificabile in circa 30 ore settimanali, contro le sole otto degli uomini». E sono sempre le donne, in linea di massima, a convogliare più tempo anche sull'accudimento dei figli. Con un dislivello tra uomini e donne che decresce – per fortuna ma è una magra consolazione – con l'aumentare del grado di istruzione. A permanere è invece il gender gap «sui ruoli in famiglia e sulle opportunità che si presentano nel mercato del lavoro» conclude lo studio. Centrale è poi il tema dei figli, proprio perché la fase di fertilità delle donne coincide grossomodo con il momento di potenziale affaccio sul mercato del lavoro e l'inizio della crescita professionale. Come evidenzia Francesca Carta, ricercatrice della Banca d'Italia [nella foto a destra], da rilevare è l'esistenza di un fenomeno conosciuto come 'child penalty', vale a dire una penalizzazione dal punto di vista professionale che per le donne deriva dalla maternità. E che arriva su un doppio fronte: il primo è successivo all'arrivo di un figlio, «e gli effetti si misurano in termini di riduzione di ore lavorate, salario e tasso di occupazione in generale come conseguenza dell'impegno domestico scaturito dalla presenza di un figlio». Ma la 'penalità' è addirittura precedente alla decisione di mettere su famiglia, «perché le donne sono spinte a preferire tipologie di carriere che consentano di conciliare più facilmente la vita lavorativa con quella familiare». A peggiorare il quadro è la mancanza di servizi o la loro inefficace erogazione. «Nel nostro Paese nonostante la spesa pubblica sia elevata e non abbia niente da invidiare ai Paesi nordici più avanzati» sottolinea Carta, «la sua destinazione è per lo più indirizzata su pensioni e programmi per l'età avanzata». C'è poco per le famiglie, «solo il 7 per cento». Di qui la scarsa copertura di asili nido, e «quei bonus monetari frammentari, talvolta iniqui», in definitiva poco risolutivi. Ora la legge di Stabilità ha previsto uno stanziamento ulteriore a favore dei nidi che garantirà, a partire da gennaio, un rimborso delle rette fino a 3mila euro annui per Isee inferiori ai 25mila euro: purtroppo non la completa gratuità per tutti i nuclei familiari, come ventilato in un primo momento: un piccolo passo, ma non ancora sufficiente. Tra le donne disoccupate, rileva ancora lo studio di Carta, «ben il 15 per cento dichiara di non aver neppure cercato occupazione per mancanza di servizi per l'infanzia, o per la loro costosità o inadeguatezza».  Una soluzione per riequilibrare la condizione delle donne, secondo l'analisi, è quella di allungare il congedo parentale maschile, «ancora troppo corto rispetto a Paesi come la Spagna per esempio, dove arriva a quattro settimane», e che «consentirebbe agli uomini di cambiare abitudini». Passare «da cinque a dieci giorni» si scrive, «potrebbe contribuire a sradicare gli stereotipi di genere e per le donne a liberare tempo da dedicare al lavoro». C'è anche una concreta proposta politica sul tema al momento ed è quella lanciata dalla parlamentare Lia Quartapelle del Pd, insieme a altri politici di diversi partiti, e cioè Erasmo Palazzotto e Rossella Muroni di Leu, Paolo Lattanzio del M5S e Alessandro Fusacchia del Gruppo Misto. L'idea è estendere il congedo dei padri fino a tre mesi, coinvolgendo anche i dipendenti pubblici (oggi vale solo per i lavoratori delle aziende private). I cinque promettono di battersi sia in Parlamento che fuori, a partire da gennaio, affinché questa proposta si tramuti in legge. C'è poi un doppio paradosso a corollario della questione femminile italiana. Innanzi tutto, pur essendo le meno occupate, sono le più istruite («le laureate sono il 60 per cento del totale», afferma Ignazio Visco, governatore della Banca d'Italia [nella foto sotto] intervenuto in apertura del convegno). E poi, oltre a non potersi affermare come lavoratrici, le donne italiane faticano anche a diventare madri, con un tasso di fecondità pari a 1,29 figli per donna, così basso solo in Spagna e Malta. Per Visco la possibile spiegazione è «nell’asimmetria nella ripartizione dei compiti di cura, e nel conseguente peso del lavoro domestico». Perché è evidente che, come sottolineato da Paola Profeta, professoressa di Scienza delle Finanze all'università Bocconi ed editor della rivista, «dove gli uomini collaborano di più ci sono maggiori probabilità di avere un secondo figlio», un fatto essenziale per la questione demografica, altro tassello nero della nostra economia. Va cambiata la visione culturale, è il parere di Laura Cioli, ad del gruppo editoriale Gedi, secondo cui «occorre stipulare un patto familiare affinché tutto sia ripartito nella coppia non per generi ma per compatibilità con le tipologie di lavoro a seconda dei diversi momenti della vita». E soprattutto deve essere la politica a farsi carico della questione, è il grido di allarme lanciato da Profeta nell'editoriale della rivista, perché finora «le azioni concrete sono state poche e le risorse limitate». Alcune aziende stanno facendo da apripista: la società di consulenza Mercer, una delle aziende virtuose dell'RdS network, come spiega l'ad Marco Valerio Morelli «ha un meccanismo di bilanciamento interno per cui deve essere garantita una spartizione di ruoli al 50 per cento tra donne e uomini, altrimenti si risponde del perché non avvenga». Il merito e il talento delle donne vanno insomma finalmente riconosciuti, «il che pone anche un problema di chi valuta il merito stesso, che è quasi sempre costituito da una platea tutta al maschile» argomenta Fabiano Schivardi, professore di Economia alla Luiss: e per questo, a suo dire, «la migliore soluzione resta quella delle garanzia delle quote rosa». La partita da giocare per il futuro dell'economia italiana sta tutto nella partecipazione delle donne. Lo ha ricordato Visco nel suo intervento: «Per l’Italia la crescita potenziale prevista per i prossimi anni dipende fortemente dalle ipotesi circa la partecipazione femminile, che ne risulta un motore fondamentale». E le donne inattive sono attualmente in Italia oltre 8 milioni. Basta pensare che «secondo recenti stime la rimozione delle barriere all’accesso all’istruzione e al mercato del lavoro per le donne» ha suggerito Visco, «spiegherebbe oltre un terzo della crescita del reddito pro capite registrata tra il 1960 e il 2010 negli Stati Uniti».Ilaria Mariotti  

Tirocini negli uffici giudiziari, cento borse di studio bloccate da mesi: il ministero ammette l’errore ma non paga

Quando la giustizia viene calpestata dal ministero che avrebbe invece il compito di tutelarla, qualcosa non torna. Un centinaio di stagisti, tutti laureati in legge, ha presentato ricorso al proprio Tar di competenza per la mancata erogazione di borse di studio relative al tirocinio formativo ex art. 73. Il caso è emblematico: nelle corti d'appello di Campobasso, Salerno e Potenza, si contano oltre cento violazioni. La responsabilità dell'errore è riconosciuta dal Ministero della giustizia stesso, eppure le borse non vengono erogate. È di pochi giorni fa l'interrogazione del senatore Nicola Calandrini, di Fratelli d'Italia, che chiede al ministro della Giustizia e a quello dell'Economia e finanza di intervenire per porre rimedio al mancato rimborso: «I mesi del 2018 non sono ancora stati pagati e i tirocinanti sono pertanto costretti ad anticipare le spese per tutto l'anno e lavorare sostanzialmente a titolo gratuito, pur sommando tale impegno a quello già di per sé gravoso della preparazione ai concorsi pubblici».L'ex art. 73 (anche detto ex. 50) è un tirocinio di affiancamento ai magistrati, della durata di 18 mesi, che permette a persone laureate in legge che sognano una carriera in Magistratura di fare un'esperienza utile e pratica: dà la possibilità di seguire un magistrato in ogni attività, dalla gestione della documentazione, fino alla scrittura delle sentenze. Per accedere serve una media del 27 e un voto di laurea superiore a 105; per ricevere l'indennità invece occorre dimostrare di avere un Isee inferiore ai 40mila euro – dunque solo una cerchia piuttosto ristretta ottiene il diritto a percepire il rimborso, che ammonta a 400 euro al mese.L'ultima sentenza utile a comprendere la vicenda viene dal Tar del Lazio ed è datata 3 ottobre 2019. Il Tar ha dato totalmente ragione ai ricorrenti, obbligando il Guardasigilli al versamento delle borse e al pagamento delle spese legali. Come si legge nella sentenza infatti, il Tar «condanna il Ministero al pagamento, in favore dei ricorrenti, delle spese del giudizio, che si liquidano in euro 1.500,00».La svista del ministero non è cosa da poco: c’è perfino la netta ammissione di aver sbagliato, in una circolare del 24 aprile 2018, che recita «la procedura di assegnazione delle borse di studio indetta nel 2018, si è svolta con grandi difficoltà operative, ha generato diversi contenziosi giudiziari e ha causato una grandissima complicazione nella complessa attività di gestione della procedura. Tutte le anomalie che sono emerse sono state la conseguenza di errori valutativi di validazione o di trasmissione delle domande da parte degli uffici giudiziari, errori denunciati anche a distanza di tempo dopo la definitiva approvazione della graduatoria. Per evitare conseguenze e responsabilità ulteriori, con un enorme impegno conservativo e in via del tutto eccezionale, questa Amministrazione ha preceduto, grazie allo stanziamento sopravvenuto di risorse aggiuntive, al recupero postumo delle posizioni di tutti gli aventi diritto».Fin qui tutto bene, ma i fondi di quest'anno vengono bloccati nella circolare stessa: «Per esigenza di massima tutela di tutti i soggetti coinvolti, va qui segnalato che la soluzione di salvataggio indicata è stata adottata l'anno scorso in via assolutamente eccezionale e contingente. Sarà di conseguenza difficile poter replicare in futuro, in caso di nuove situazioni di errore provenienti dagli Uffici, analoghe soluzioni conservative adottate in sede centrale».In pratica già dall'anno scorso si mettevano in guardia gli stagisti che, in caso di errore, non si sarebbe garantita l'erogazione della borsa. Viene da pensare a questo punto che l'errore sia voluto. «Ho contattato il ministero più volte con PEC, con diffide e con chiamate» spiega Jessica Proni, avvocata dei ricorrenti «ma senza ottenere alcuna risposta».Anche la Repubblica degli Stagisti per oltre un mese ha tentato di contattare l'ufficio direzione magistrati, proprio all'interno del dipartimento che si occupa dei tirocini formativi, ma senza successo. La responsabile in materia di tirocini formativi, Annamaria Planitario, è risultata sempre occupata; la sua segretaria ha consigliato di rivolgersi direttamente alla direzione, con una mail, ma anche all'email inviata non è purtroppo mai arrivata una risposta. Senza dubbio il ministero della giustizia soffre di una cronica penuria di personale, e i tirocini verrebbero incontro a questa mancanza di risorse; ma non c'è stata alcuna possibilità di capire il numerica dei tirocinanti ex 73 passati per gli uffici giudiziari in tutti questi anni: sul sito del ministero non c'è modo di arrivare a questi dati, e nemmeno l'ufficio stampa del ministero, contattato telefonicamente, è stato in grado di trovare questi numeri.  «Il loro modo di agire è assolutamente poco collaborativo» commenta l'avvocata Proni: «ma non ci scoraggiamo, e continueremo a seguire la stessa linea».Dello stesso parere è uno dei ricorrenti, appena trentenne, che ha scelto di mantenere l’anonimato per paura di subire conseguenze: «Siamo stati esclusi senza alcun apparente ragione. Molti di noi contavano su quei soldi per pagarsi la retta del corso di preparazione al concorso per magistrati». L'iter per accedere al concorso è molto complesso, ma ai più meritevoli viene data la possibilità di fare questo tirocinio che permette di accedere al concorso, dopo aver effettuato il corso. L’assurdità sta proprio nel paradosso del riconoscimento dell'errore e del rifiuto di versare le borse. «Mi sento preso in giro» si sfoga il giovane neoavvocato, che ha cominciato il tirocinio in questione nel settembre 2016 e che ha appena superato l'esame per l'accesso alla professione forense «soprattutto perché il vizio viene direttamente dagli uffici del Ministero: hanno riconosciuto l'errore materiale, ma ci lasciano senza borse di studio pur avendone noi maturato il diritto».Una proposta di rottura viene lanciata da una delle portavoci dei tirocinanti che non ricevono indennità, Serena Gentili, romana, neanche trentenne: «A questo punto diamolo a tutti il rimborso: del resto i tirocini nelle aziende vengono pagati!  Ho l’impressione che i giudici pensino che per noi sia sufficiente l’esperienza in sé, come se non considerassero il nostro apporto come lavoro reale». Gentili a partire dal luglio del 2017 ha lavorato diciotto mesi in corte d'appello a Roma e tre mesi al Tribunale di Roma, scrivendo sentenze e provvedimenti a tutti gli effetti – ma non ha visto un centesimo, perché non aveva un Isee sufficientemente basso da permetterle di accedere al compenso: «Il lavoro andrebbe sempre pagato. E noi siamo e siamo stati risorse preziose per il Ministero e per i nostri magistrati affidatari», conclude Gentili.Serena Silvestri invece è una delle tirocinanti a cui hanno riconosciuto il diritto alla borsa di studio, una minoranza che ancora sta aspettando il rimborso vero e proprio: «Ho iniziato il tirocinio nel maggio del 2018. Mi è costato molto sacrifici perché mi sono trasferita a Pisa per farlo: ovviamente 400 euro non coprono tutto, ma aiuterebbe». Silvestri usa il condizionale, perché da allora non ha ricevuto un euro di rimborso.Alcune Corti hanno recepito l'indicazione della sentenza di ottobre e si stanno già muovendo per erogare il dovuto agli ex tirocinanti, richiedendo loro di fornire gli estremi dell'Iban per procedere coi bonifici bancari; altre invece non hanno ancora chiesto gli iban e altre ancora hanno eccepito vizi di forma o ritardi ministeriali.
 La soluzione migliore sarebbe quella di trovare subito i fondi ed erogarli – non si tratta certamente di cifre inavvicinabili: 400 euro al mese per diciotto mesi fa 7.200 euro per ogni tirocinante, dunque per saldare il debito nei confronti dei cento che non hanno ricevuto ciò che spettava loro basterebbero poco più di 700mila euro in tutto, su un bilancio annuale che per il 2019 ammonta a oltre 8 miliardi e mezzo di euro – ma si continua a prendere tempo, senza prendere una posizione chiara, mettendo questi ragazzi nella posizione più scomoda possibile, con la consapevolezza teorica di aver ragione su tutta la linea e senza la certezza di ottenerla nella pratica. C'è da sperare che non sia una metafora del settore professionale in cui si apprestano ad entrare – quello della giustizia.Paolo Cocuroccia

Le ripetizioni sono un business da 950 milioni: «Ma il nero azzoppa tutto il settore»

C'è un intero settore a essere azzoppato dal “nero”: quello delle ripetizioni private, un giro di affari che vale ben 950 milioni di euro. Di questi, «il novanta per cento sono in nero», appunto: lo dicono chiaramente gli ultimi dati Codacons in materia. Mauro Moretto, alla guida insieme al collega Andrea Bertola del sito Ripetizioni.it, conferma alla Repubblica degli Stagisti: «Centri ripetizioni e piattaforme online potrebbero creare posti di lavoro e valorizzare la qualità e la trasparenza». Invece subiscono la concorrenza sleale del sommerso perché questo tipo di prestazioni si svolge per lo più a domicilio, «e sono sia il docente che lo studente a preferire il nero». Moretto non ha però, purtroppo, numeri attendibili: «Ripetizioni.it è no profit, ed è nato sotto l'insegna della share economy, ante litteram: noi non facciamo alcune intermediazione, e non entriamo in alcun modo negli accordi economici tra studenti e tutor». Da qualche anno a pagare un contributo per acquistare visibilità sul sito «sono solo i docenti che vogliono evidenziare le proprie referenze», che rappresentano «una piccola percentuale rispetto ai 10mila utenti reali che registriamo». Su di loro «si basa il fatturato insieme alla promozione di alcuni centri specializzati nelle ripetizioni» perché «non si tratta di una vera e propria impresa, anzi i nostri introiti sono destinati a iniziative a sostegno dell'istruzione dei bambini». Il polso della situazione lo dà però il fatto che «in questi vent'anni abbiamo visto nascere a fianco di  Ripetizioni.it numerose piattaforme, anche internazionali, frutto di ingenti investimenti che di certo si giustificano solo con business plan molti ambiziosi» ragiona, «e che a loro volta non possono che riferirsi ad un mercato ritenuto ricco».  Sarebbe la metà degli studenti delle scuole superiori nel corso dell’anno a ricorrere alle ripetizioni, «con una media di due ore e mezzo di lezione a settimana» rileva ancora il Codacons. Un fenomeno che si osserva anche tra studenti delle medie e universitari. Con costi orari elevatissimi: mediamente, secondo l'istituto, 27 euro. Il Codacons ha anche calcolato i costi totali che hanno gravato sulle famiglie nel 2018 (e per quest'anno non ci sono state variazioni significative, fa sapere l'ufficio stampa). Per un intero anno scolastico si arriva a spendere circa 650 euro. Anzi, secondo i calcoli di Federconsumatori, «con una media di tre ore a settimana per cinque mesi l’anno la spesa a studente oscillerebbe perfino tra i 900 e i 1800 euro».A determinare il peso sul portafogli è il tipo di materia e la città. Greco è la disciplina più costosa, con una media di 30 euro a lezione. A Milano per esempio «per una lezione con un professore universitario di greco o latino si possono sborsare fino a 50 euro» secondo i dati Codacons. A Roma la tariffa oraria media è più contenuta, circa 25 euro, mentre al Sud si scende per esempio a 20 euro per Cagliari e 12 per Napoli.Cifre che evidenziano un mercato in buona salute, e che giustificano il proliferare di piattaforme, siti e gruppi Facebook dedicati alle lezioni private. Anche se, chiarisce Moretto, «funziona senz'altro di più il passaparola». Ed è così che diventa molto semplice evadere il fisco per un servizio che sfugge a qualsiasi controllo e potrebbe invece, se strutturato, dare una spinta all'economia. D'altronde «non esiste neppure una legge che regoli il mercato delle ripetizioni, e questo perché si tratta di un insegnamento che non dà luogo ad un titolo di studio riconosciuto dallo Stato» sottolinea il consulente del lavoro Enzo De Fusco alla Repubblica degli Stagisti.La soluzione per combattere il nero ci sarebbe: basterebbe «permettere alle famiglie di scaricare dalle tasse quanto spendono in lezioni private per i loro figli» prosegue Moretto. Così «in tanti vorrebbero la ricevuta». Anche i docenti poi avrebbero la loro opportunità di mettersi in regola: «Per chi fa ripetizioni saltuarie è sufficiente rilasciare una ricevuta per prestazione occasionale» spiega De Fusco.«Coloro che svolgono continuativamente questa attività possono invece aprire la partita Iva applicando il regime speciale agevolato fino a 65mila euro di ricavi». Per i docenti con cattedra esiste poi una norma a parte: «È entrata in vigore il 1° gennaio 2019 ed è riservata agli insegnanti di scuole di ogni ordine e grado» fa sapere De Fusco, inclusi quindi i docenti di scuole pubbliche – sempre e quando non via sia un esplicito divieto in tal senso da parte della scuola o università presso cui si insegna. «Questa norma prevede che sui compensi percepiti dai docenti per le lezioni private si applichi un’aliquota Irpef forfetaria del 15 per cento al posto anche delle addizionali comunali e regionali». Avrebbe senso allora inserire una nuova norma – auspica Moretto – «che fissi in una quota inferiore al 10 per cento la percentuale di spesa detraibile per le famiglie per le ripetizioni». Altrimenti «se i docenti pagassero il 15 per cento di flat tax, lo Stato ci rimetterebbe!».Il punto è però l'assenza totale di controlli e sanzioni. «Il lavoratore privato può svolgere un secondo lavoro a condizione che non sia in contrasto con l’attività del proprio datore di lavoro» commenta Giuseppe Buscema, consulente del lavoro, operando dunque in totale libertà e senza che nessuno possa obiettare alcunché se non attraverso un controllo fiscale. Le persone che danno ripetizione si dividono infatti grossomodo in due grandi tipologie. Vi sono gli studenti – spesso universitari, ma a volte anche semplicemente liceali – che sono particolarmente bravi in qualche materia e si offrono di fare ripetizione, spesso a prezzi bassi, a ragazzi un po' più giovani per poter tirare su qualche soldo: basti pensare allo studente di Ingegneria che per arrotondare si offre di dare ripetizioni di matematica a studenti di scuola media o delle superiori.E poi c'è un'altra tipologia: quella dei professori di scuola media o superiore o di università che danno ripetizioni per arrotondare, e che spesso sono formalmente dipendenti pubblici in quanto insegnano in scuole o università pubbliche. «Ai lavoratori pubblici è vietato di regola lo svolgimento di un secondo lavoro» chiarisce Buscema, a meno che «il rapporto di lavoro pubblico per cui hanno un contratto non sia part time con orario non superiore alla metà di quella a tempo pieno». Per i docenti con un part time le ripetizioni saranno quindi un'attività da portare avanti in parallelo con il lavoro principale, versando tasse e contributi attraverso l'apertura di una partita Iva agevolata. Ma anche qui difficilmente – per non dire mai – potrà  verificarsi che l'incontro tra insegnante di ripetizioni e ragazzo venga intercettato, potendo continuare a svolgersi in piena libertà (e in nero). C'è infine un dettaglio importante: il libero mercato non pone limiti nel privato, «ma nel caso di dipendente pubblico è necessaria anche un'autorizzazione amministrativa, che deve essere acquisita dal discente» fa notare De Fusco. Attenzione quindi, «perché se a svolgere la docenza è un dipendente pubblico non in regola anche gli studenti o le loro famiglie potrebbero potenzialmente incorrere in una sanzione». Che è pari al doppio degli emolumenti corrisposti a tenore del decreto legislativo 165/2001.  Ilaria Mariotti

Diritto allo studio, la legge di Bilancio promette 31 milioni in più: oggi solo uno studente su dieci riceve un supporto

Il diritto allo studio è un diritto garantito dalla Costituzione, che all’art. 34 individua nella borsa di studio lo strumento principale per il sostegno economico agli studenti  “meritevoli e privi di mezzi”. Questo diritto, tuttavia, è messo oggi continuamente in discussione. L’Italia si colloca secondo il Rapporto annuale Almalaurea – insieme a Belgio, Francia, Spagna e Irlanda –  tra i paesi europei in cui è molto elevata la quota di studenti che pagano le tasse universitarie e contemporaneamente è molto ridotta la quota di chi riceve una borsa di studio (Eurydice Commissione europea, 2018). I dati più recenti dell’Osservatorio Regionale del Piemonte per l’università e per il diritto allo studio universitario, riferiti all’anno accademico 2016/17, evidenziano che in Italia solo il 10,9 per cento degli iscritti risulta idoneo a usufruire della borsa di studio. Vale a dire più o meno 185mila studenti sul totale di 1 milione e 696mila iscritti alle università italiane.La scarsa erogazione di borse di studio rende gli studenti dipendenti dal supporto economico familiare e limita di fatto l’accesso all’educazione terziaria, in particolar modo alle categorie più svantaggiate. Ma le borse di studio rappresentano solo una parte del problema. Come sottolinea il documento “Università del futuro”, proposta di modello universitario sottoscritta dall’associazione nazionale studentesca Link, «investiamo lo 0,1 per cento del nostro Pil in diritto allo studio universitario e siamo l’unico paese ad avere la vergognosa figura dell’idoneo non beneficiario, lo studente che pur avendo pienamente diritto a una borsa o un alloggio non ne usufruisce per carenza di fondi». Gli “idonei non beneficiari” per l'anno accademico 2018/2019 sono stati 7.500. Negli ultimi anni innegabilmente la situazione è migliorata – nel 2013/2014 erano ben 46mila! – tuttavia non è ancora accettabile che chi è idoneo a un servizio al pari di qualcun altro non possa usufruirne.In particolare, esistono due tipologie di idonei non beneficiari: quelli che usufruiscono della borsa di studio e non dell'alloggio, per l'indisponibilità di strutture, e quelli che per assenza di fondi non ricevono né la borsa di studio né l'alloggio. I primi ricevono una borsa più alta se sono fuorisede e hanno firmato un contratto di affitto, più bassa se sono pendolari. Quanto alla parte non usufruita, se non erogata al momento “giusto” viene persa per sempre – lo studente idoneo non beneficiario non può nemmeno sperare, quindi, di ricevere la somma dovuta anni dopo a mò di risarcimento.Secondo l’indagine Almalaurea, in questo caso limitata ai laureati nel 2018, in Italia i servizi utilizzati (almeno una volta) sono stati: il prestito libri (38,7 per cento), la  ristorazione (36,6 per cento), le borse di studio (23,4 per cento) e l’alloggio (4,8 per cento). La ripartizione è differenziata geograficamente, ad esempio a beneficiare maggiormente delle borse di studio sono i laureati del Mezzogiorno (30 per cento). I laureati con borsa si dimostrano leggermente più intenzionati a proseguire gli studi, intraprendendo nuovi percorsi formativi di vario genere, rispetto ai non borsisti (67,1 contro 63,6 per cento). «Sono tante le regioni che non garantiscono la copertura totale delle borse. Tra le situazioni più drammatiche quelle della Sicilia e della Lombardia» riferisce alla Repubblica degli Stagisti Camilla Guarino, 26 anni, coordinatrice di Link e studentessa all'ultimo anno di Sociologia alla Sapienza «nonché del Piemonte, dove con il cambio di giunta [dal giugno del 2019 è diventato governatore della Regione Alberto Cirio di Forza Italia, subentrando a Sergio Chiamparino del Partito democratico, ndr] sono stati tagliati dieci milioni al diritto allo studio».L’alloggio rappresenta ad oggi il servizio meno erogato, oltre che la voce di spesa più ingente per una famiglia. «Nell’ultimo anno accademico, dei quasi 36mila aventi diritto, 21mila – ovvero il 57 per cento! – risultano idonei non beneficiari di alloggio» afferma Guarino «con picchi in città universitarie come Roma, Milano, Torino, Bologna, Palermo, Bari». La questione degli alloggi è particolarmente complessa, in quanto alla carenza di finanziamenti si aggiunge l’insufficienza degli alloggi disponibili per il diritto allo studio e nei collegi universitari. I posti a disposizione sono solo 48mila.In tutto questo, secondo l’analisi dell’Ufficio studi di Immobiliare.it, tutte le principali città universitarie italiane, a eccezione di Bari, quest’anno hanno registrato un rincaro. Il costo medio più alto per un alloggio è a Milano: 573 euro per una singola e 372 per una doppia. Seguono Roma (448 e 311), Bologna (447 e 268) e Firenze (433 e 260). A Bologna, in particolare, si è registrato un aumento record del costo medio di una stanza singola, pari al 12 per cento. «Ad oggi né lo Stato né le regioni hanno saputo fornire l’ombra di una soluzione» aggiunge la coordinatrice Link: «Servirebbero, tanto per cominciare, una normativa seria per recuperare gli edifici pubblici inutilizzati e l’erogazione del contributo affitto per gli idonei non beneficiari, che esiste già in alcune regioni ma con tempistiche troppo complicate perché serva davvero». Ma quanto costano oggi gli studi a uno studente universitario? Secondo i dati Almalaurea, la tassazione media annua si attesta sui 1.345 euro per le lauree di primo livello e sui 1.520 euro per quelle di secondo livello. L’ultimo rapporto di Federconsumatori sui costi degli atenei italiani evidenzia che, a confronto con gli anni precedenti, le tasse sono diminuite fra il 3,7 e il 6,9 per cento a seconda delle fasce di reddito. Nella I fascia (Isee fino a 6mila euro) il costo medio annuo è di 302,48 euro. Aumentati solo gli importi massimi: la media per la quinta fascia di reddito è di 2523,45 euro. A influenzare le statistiche è stata tuttavia anche la rimodulazione della tassa regionale per il diritto allo studio. La Regione Campania, per esempio, ha deciso di determinarla sulla base del reddito, mentre in precedenza ammontava a 140 euro per tutti gli studenti. Vale la pena ricordare che la legge di Bilancio del 2016 ha modificato la contribuzione universitaria, prevedendo consistenti agevolazioni per gli studenti a basso reddito e per gli studenti meritevoli. Gli iscritti al primo anno dei corsi di laurea triennali e magistrali con reddito Isee inferiore a 13mila euro sono tenuti solo al pagamento della tassa regionale e dell’imposta di bollo – a cui si aggiungono eventuali altri importi per l’assicurazione, se previsti dall’ateneo – quindi non devono corrispondere i contributi universitari, quindi le tasse. Esenzione parziale, invece, per i redditi fra i 13mila e i 30mila. Gli atenei del Meridione risultano più cari rispetto a quelli del Nord Italia. Ad esempio al Sud gli importi medi per la prima fascia superano del 22,83 per cento quelli delle università settentrionali e addirittura del 49,73 per cento se si prende in considerazione la terza fascia di reddito (Isee fino a 20mila euro). La tendenza si inverte solo per gli importi massimi, superiori al Nord. L’ateneo più caro risulta La Sapienza di Roma, seguito dall’Università di Bari e dalla Federico II di Napoli. Insomma, al momento la mancata copertura totale dei servizi per il diritto allo studio rappresenta un forte ostacolo a un accesso all’università che sia davvero “per tutti”. Un piccolo passo avanti si è fatto nei giorni scorsi. «Dopo un autunno di mobilitazione degli studenti e delle studentesse, nella Legge di Bilancio 2020 sono stati stanziati 31 milioni in più rispetto allo scorso anno sul fondo nazionale per il diritto allo studio» spiega la coordinatrice Link «ma questa è solo una prima vittoria. Servono ulteriori finanziamenti per dare risposte ai 21mila studenti idonei senza alloggio, inoltre le Regioni devono fare la loro parte e stanziare i finanziamenti necessari per la copertura totale». Altrimenti saremmo punto e da capo. Ma davvero ci vuole così tanto a capire che per il diritto allo studio vanno finanziati fondi sufficienti a coprire almeno l'ammontare delle borse di studio per gli aventi diritto?Rossella Nocca

Jobber, in un nuovo libro Matteo Fini torna a raccontare il mondo del lavoro da “Fantozzi moderno”

Non si considera uno scrittore, più un «cantastorie» e il suo non è tanto un libro, quanto piuttosto un «bigino». Già dalle prime risposte si comprende come Jobber, uscito lo scorso giugno per la casa Educationflow, e il suo autore Matteo Fini si stiano già ritagliando un posto a sé nel mondo dell’editoria, in particolare quella che parla di lavoro.Fini ha quarantuno anni, e alle spalle esperienze nel mondo dell’università e delle aziende. Oggi si occupa di formazione e risorse umane e gestisce una realtà chiamata Flowbox, che fa formazione e consulenza per professionisti.Jobber più che un libro è, come lo definisce lo stesso autore, un non-libro, che nasce «perché sono matto. È il mio terzo libro pop, dopo «Università e puttane» [casa editrice Priuli e Verlucca] e «Non è un paese per bamboccioni» [Cairo Publishing], escludendo  i libri accademici,  ma non mi considero uno scrittore: sono più un cantastorie. Io racconto quello che vedo e vivo. È sempre stato così per tutti i miei libri. Elaboro a modo mio e regalo al lettore delle storie e degli spunti, poi ognuno ci vede quello che vuole. Infatti anche Jobber nasce da quello che ho visto e vissuto in tanti anni nel mondo del lavoro e delle aziende, rielaborato in modo che faccia sorridere, pensare, incavolare.... in un commento uno ha scritto che è un “Fantozzi moderno” e per me che sono cresciuto nel mito di Villaggio è solo un onore, quasi blasfemo!», racconta.E infatti, leggendo le prime pagine del libro risulta subito chiaro al lettore quale delle due strade verrà battuta tra riflessione e rabbia: Jobber è assimilabile a un aforismario, con pagine di riflessioni che, a ben vedere, avrebbero potuto essere sintetizzate in almeno la metà dello spazio.Da qui si comprende perché Fini lo definisce un non-libro: «Jobber è un libro di spunti. Però ogni spunto aveva bisogno di un suo spazio e di una sua dignità. Mi piaceva l’idea del bigino, del manabile, quasi del rosario... volevo che fosse bello. Bello da leggere ma anche da tenere sul comodino. Per questo ha il formato di un libro vero, ha una copertina con un’illustrazione originale del grande Daniele Mantellato e ha una storia. È come un libro di poesie. Inizialmente pensavo di venderlo a tre euro, proprio perché sono poche pagine e poche parole». In effetti, solo centotrenta pagine: «Però poi ho pensato che ogni forma d’arte ha una sua dignità che non ha nulla a che vedere con la lunghezza o la durata. E allora ho deciso di dargli un costo da libro vero. Non è che November Rain dei Guns ‘n’ Roses costa più di Imagine dei Beatles perché dura nove minuti anziché tre. Sono entrambe fuori a 0,99 su Spotify poi ognuno gode come vuole. Jobber è come andare al cinema. Spendi nove euro, leggi, poi se non ti piace è come aver visto un brutto film. Capita. Ma per ora per fortuna non è capitato tanto!».Sfogliando le pagine si susseguono massime che potrebbero essere prese dalla vita lavorativa di ciascuno di noi. Si può intravedere il collega o il proprio capo nei personaggi di cui si (s)parla in modo sempre ironico, spesso addirittura sarcastico, ad esempio, l'abitudine di restare fino a tardi in ufficio o di riempire discorsi e presentazioni di inglesismi. L’impressione è quella di una presa di distanza da due mondi, l’università e le aziende, di cui l’autore ha fatto e continua a fare parte. «Io scrivo quello che vedo. E se vivi il mondo accademico o quello aziendale non puoi evitare di parlare di certi costumi e certe usanze davvero intollerabili. Io racconto, poi ognuno si fa la propria idea».Ma come si fa a trovare una strada e a innescare processi positivi? «Investendo sulle persone. Sullo studio, la competenza. Valorizzando le storie personali e uscendo dalle logiche incellofanate, impolverate e impomatate e tremendamente lente tipiche della piccola media impresa italiana che tutto omologa e livella verso il basso».Per i più scettici qualche spiraglio, alla fine, c’è: «Le eccezioni esistono, come in tutte le cose. Ma quando ho scritto Jobber ero sicuro che tutti rivedessero se stessi e che soprattutto rivedessero il proprio collega o il proprio capo, specie come protagonista negativo. Ma del resto il bello è che, parafrasando Eminem, “There’s a Jobber in all of us”».Chiara Del Priore

Test Ocse Pisa, se i giovani italiani sono davvero ignoranti dovremmo chiederci: perché?

Se capisci questo articolo, allora probabilmente non ti riguarda. È questa una prima paradossale conclusione che deriva dall’analisi dei nuovi test Pisa dell’Ocse, riferiti al 2018, sul grado di alfabetizzazione letteraria, scientifica e matematica dei giovani italiani. Una conclusione appunto paradossale, tristemente ironica – ma anche tutto sommato fasulla. Perché forse non sarai tu il giovane con problemi di alfabetizzazione; ma è innegabile che la diffusione di queste mancanze, specialmente tra le persone più giovani, crea quella che gli economisti chiamano un’esternalità negativa per tutta la società. Insomma, le conseguenze di questo problema non sono solo personali ma si ripercuotono su tutti. E sì, anche su di te, che stai ancora leggendo questo articolo – e che già stavi davvero pensando che il problema non ti riguardasse...Ma cosa sono i test Pisa? Si tratta di una serie di questionari standardizzati (“Pisa” è l’acronimo di sta per “Programme for International Student Assessment”), rivolta ogni tre anni agli studenti di quindici anni dei paesi Ocse – l'Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico – e che dovrebbe stabilire il grado di conoscenze e di abilità acquisite nel corso degli studi. Il test, non esente da limitazione e che pure è stato in passato criticato per la sua impostazione e omogeneità, è però ormai somministrato sin dal 2000, e si focalizza sui risultati ottenuti dagli studenti rispetto alla comprensione di testi, alla matematica e infine ai temi scientifici. In Italia, la ricerca ha riguardato quasi 12mila studenti – poco più del 2% del totale – e 550 scuole (i partecipanti all'indagine a livello mondiale sono stati oltre 500mila in 79 Paesi).I risultati sono piuttosto impressionanti. L’Italia si classifica ben sotto la media dei paesi Ocse in lettura e scienze, mentre è solo appena sotto la media per matematica. Peraltro i risultati per lettura e scienza segnano un peggioramento rispetto al 2012. Analisi più settoriali permettono di evidenziare alcune differenze piuttosto interessanti rispetto al genere e al territorio di residenza. In generale, in Italia e negli altri paesi, le femmine ottengono risultati migliori dei maschi in lettura e peggiori in matematica, mentre ottengono risultati simili, specialmente in Italia, in scienze. Tuttavia, il peggioramento nella capacità di comprensione dei testi, in Italia, è dovuto proprio al calo di questa competenza tra le femmine. Queste differenze non cancellano molti stereotipi di genere rispetto alle professioni. Tra gli studenti migliori al test, il un quarto dei maschi prevede di lavorare in campo scientifico mentre un quarto delle femmine prevede di lavorare in professioni sanitarie; solo il 12% delle femmine crede che lavorerà in campo scientifico. Dal punto di vista geografico, solamente un numero molto limitato di regioni e province costituisce un campione sufficientemente ampio da permettere un’analisi specifica. Da ciò, emerge come i giovani nelle province autonome di Trento e Bolzano abbiano conseguito risultati paragonabili a quelli dei migliori paesi della classifica, i giovani toscani risultati simili alla media nazionale e invece quelli sardi risultati peggiori.Vale la pena di sottolineare come le mancanze evidenziate da questi test Pisa non siano le uniche che caratterizzano i giovani italiani nello specifico e la popolazione italiana più in generale. Per esempio, scarsa è anche la conoscenza dei temi economici e politici. L’educazione civica non entra ormai da tempo – o lo fa solo formalmente - nei curricula delle scuole superiori. E in test simili la performance del nostro paese per quanto riguarda l’educazione finanziaria è ancora al di sotto della media. Ma non è un problema solo di giovani: performance anche peggiori sono infatti documentate rispetto all’intera popolazione.Di chi è la responsabilità? Degli studenti, certo. Del resto, lo sappiamo tutti: i giovani sono pigri, non rispettano più i valori. E nemmeno gli anziani. O... no? Troppo comodo scaricare come al solito le responsabilità di un fallimento sulle persone più deboli, e incolpare quelle che invece sono le vittime. Proviamo piuttosto a guardare quanto il paese ha deciso di investire sul capitale umano dei suoi giovani. In fondo non ci vorrebbero neppure troppe risorse, in termini assoluti. L’Italia è un paese anziano, la quota di giovani è inferiore rispetto a quella di altri paese. Proprio per questo, potrebbero essere maggiormente valorizzati. E invece i dati raccontano una storia ben diversa: innanzitutto, secondo la ricerca Pisa, i presidi italiani denunciano maggior carenza di staff e di materiale rispetto alla media degli altri paesi.  Un’ulteriore ricerca dell’Ocse indica che il corpo docente in Italia è il più anziano tra i paesi dell’Ocse; addirittura, nei prossimi dieci anni l’Italia dovrà prepararsi a sostituire circa il cinquanta per cento dei propri docenti. Gli stipendi di partenza sono inferiori alla media, così pure come quelli massimi raggiungibili a fine carriera. In Italia si spendono 66,1 miliardi di euro per l’istruzione (Eurostat, 2017), l’8% della spesa pubblica totale: poco meno della spesa per gli interessi passivi sull’enorme debito pubblico e meno di un terzo di quella pagata per le pensioni. Si tratta di una percentuale inferiore al 4% del PIL, quando la media europea è di oltre il 4,5%. Comunque la si misuri, la spesa per istruzione è in calo ormai da oltre dieci anni.Seppure coi loro limiti, i risultati del test Pisa sollevano quindi giuste preoccupazioni. Stupisce in effetti chi si stupisce: se da decenni ormai il paese ha smesso di investire nella scuola, nella valorizzazione degli insegnanti, nell'aggiornamento dei curricula, nella sicurezza degli edifici, nella lotta agli ancora troppo numerosi abbandoni scolastici, è inutile poi dichiararsi sorpresi da questi risultati. Le conseguenze di questo disastro sono sia individuali che sociali. Dal punto di vista individuale, giovani di oggi (e adulti di domani) senza adeguate conoscenze avranno maggiori difficoltà a trovare un lavoro e ad effettuare scelte strategiche per la propria vita. Dal punto di vista sociale, invece, l’incapacità di comprendere la complessità dei fenomeni si accompagna necessariamente con l’accontentarsi di spiegazioni semplici e semplicistiche. In ultima analisi, un vero e proprio rischio: non solo per i rapporti economici e di lavoro ma anche per la qualità della nostra democrazia.  

Pensionati tartassati? La verità è che sono i giovani i più penalizzati

Chi comincia a lavorare oggi dovrà farlo fino a settantuno anni. È questa una delle conclusioni dell’ “Oecd Pensions at a glance 2019”, l’attesissimo – perlomeno per gli addetti ai lavori – rapporto dell’Ocse sulle pensioni. L’Italia si caratterizza come uno dei paesi dove più bassa è attualmente l’età di pensionamento effettiva ma anche quello in cui, al contrario, i giovani risultano maggiormente penalizzati. Come è possibile quindi che nel nostro paese le ultime riforme in questo campo siano andate esattamente nella direzione opposta, vale a dire quella di congelare l’adeguamento automatico dell’aspettativa di vita e di anticipare il pensionamento con “Quota 100”?Non solo: se si guarda a come è distribuita la povertà all’interno della popolazione (dati Istat 2018), si scopre che le famiglie con figli minori sono quelle per cui l’incidenza di povertà assoluta è massima (11,3%, su una media nazionale del 7%); questa poi via via decresce al 10% per la classe 18-34enni e all’8% per la classe 35-64enni; fino ad arrivare al suo minimo (4,5%) tra coloro che hanno più di 65 anni. Dunque in media quelli che più spesso sono i poveri sono i giovani adulti con figli minorenni; quelli che meno spesso sono poveri sono i pensionati. Tuttavia, il leit motiv di politici, di molti sindacalisti e anche di parecchi giornalisti è che le pensioni in Italia sono troppo basse.Come si spiega questo paradosso? Per capirci davvero qualcosa bisogna scoprire come funzionano le pensioni in Italia,  anche leggendo direttamente le fonti statistiche. I documenti sintetici più utili sono forniti dall’“Osservatorio sulle prestazioni pensionistiche e beneficiari” dell’Inps, dal focus “Condizioni di vita dei pensionati” dell’Istat e dal più impegnativo “Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario” della Ragioneria Generale dello Stato (RGS).Una prima importante osservazione è che il totale della spesa pensionistica, quasi 290 miliardi nel 2017, riguarda sia le pensioni previdenziali o cosiddette IVS (Invalidità, Vecchiaia – e anzianità – e Superstiti) sia le pensioni assistenziali. Le prime costituiscono quasi l’80% del totale (il 90% circa in termini di spesa); il diritto a riceverle nasce dall’avere contribuito per un numero sufficiente di anni al sistema pensionistico ed è collegato alla realizzazione di un determinato evento – o rischio, se si guarda al sistema pensionistico come a un meccanismo assicurativo – vale a dire: l’essere troppo vecchi per lavorare, l’avere conseguito un infortunio sul lavoro, l’essere deceduto e aver lasciato un coniuge (o dei figli) “superstite”. Le pensioni assistenziali, al contrario, hanno un carattere squisitamente redistributivo e vengono percepite da tutti coloro che, al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, non hanno un reddito considerato sufficiente. Si tratta di ex lavoratori che non hanno contribuito per un numero sufficiente di anni al sistema previdenziale (quindici o venti, a seconda della generazione di appartenenza) o di persone che invece mai hanno lavorato, per scelta o per impossibilità (invalidità civile). Rappresentano poco meno del 20% delle pensioni e circa il 10% della spesa pensionistica. Completano le prestazioni erogate dall’Inps le cosiddette pensioni indennitarie (circa il 3% delle prestazioni) e quelle di guerra (circa il 1%): ma si tratta di categorie residuali, che per semplicità si possono tralasciare.Tra le due categorie principali, sono solo le pensioni IVS a essere finanziate dai contributi previdenziali e che quindi dovrebbero essere propriamente considerate pensioni, mentre le altre si caratterizzano maggiormente come intervento assistenziale tout court. Questa distinzione è estremamente importante, perché, quando si considera il livello delle prestazioni pensionistiche, è evidente che previdenza e assistenza non possono essere considerate come identiche. Per esempio, l’Inps certifica che al 1° gennaio 2019 ben il 70% delle prestazioni erogate è inferiore ai mille euro. Questo dato è sufficiente a concludere che il 70% dei pensionati si barcamena e a stento vive con meno di mille euro al mese, dopo aver lavorato una vita? La risposta è no. Innanzitutto perché questo 70% contiene anche tutte le pensioni che abbiamo definito assistenziali: sono per definizione trattamenti minimi e che vengono percepiti proprio da chi non ha mai lavorato o ha lavorato molto poco. Ma non basta: perché un conto sono le pensioni erogate e un conto sono i pensionati: un pensionato può avere (legittimamente, sia chiaro) diritto a più pensioni. Per esempio, una vedova può percepire sia la propria pensione da ex lavoratrice sia quella di reversibilità del marito. Per avere una migliore comprensione dello stato di benessere dei pensionati bisognerebbe quindi osservare la distribuzione del reddito pensionistico, vale a dire della somma delle pensioni percepite da ogni pensionato – con l’aggiunta anche di eventuali redditi da lavoro. Così facendo scopriamo che, per esempio, i pensionati che hanno un reddito pensionistico inferiore ai mille euro sono in realtà il 40% e che altrettanti sono quelli che hanno un reddito compreso tra i mille e i 2mila euro. E sì, questo vuole dire che il 20% dei pensionati percepisce un reddito pensionistico superiore ai 2mila euro mensili. Nel 2017, il reddito medio netto annuale di un pensionato era pari a circa 14.600 euro (pari a 17.900 euro lordi). Facciamoci pure due conti in tasca: chi è il povero, adesso? Ogni politico che abbia a cuore il benessere della popolazione non può ignorare questo enorme squilibrio generazionale: da un lato, i pensionati hanno un reddito tipicamente ben più generoso rispetto ai contributi versati; dall’altro, i giovani avranno una pensione che al contrario sarà totalmente commisurata ai contributi versati. Una generazione già povera oggi sarà a maggior ragione una generazione più povera domani: quanto bisogna essere ciechi, disinformati o in cattiva fede per ignorare tutto questo? Paolo Balduzzi