In Italia? Difficile aver voglia di tornarci, dopo aver lavorato all'estero

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 14 Apr 2013 in Storie

C'è tempo fino al 19 aprile per candidarsi ai 40 tirocini offerti dalla Nato, che prevedono un'esperienza di sei mesi nelle sedi dell'organizzazione e 800 euro al mese di rimborso spese. Piero Soave, veronese, ha raccontato alla Repubblica degli Stagisti la sua esperienza di stage alla Nato.

«Io non mi sento Italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono» diceva Gaber, una frase che credo la maggior parte degli italiani all'estero si trovi a pensare più volte al giorno. Ho 29 anni e da quasi 3 sono uno dei tanti (tantissimi) italiani a Bruxelles, dove lavoro in una società di consulenza nella comunicazione. Sono arrivato qui tramite un percorso non necessariamente classico o prevedibile, ma che mi ha insegnato che ogni esperienza conta, e che il lavoro richiede merito, fortuna e passione.
Dopo aver fatto il liceo nella mia città, Verona, mi sono iscritto alla triennale in Scienze Politiche a Bologna - in parte perché interessato, in parte per andarmene da Verona, e in parte per mancanza di idee migliori. Al momento di scegliere la specialistica, ancora poco deciso sul da farsi, sono passato alla laurea in Scienze internazionali e diplomatiche di Forlì. Durante i due anni ho passato sei mesi in Erasmus a Parigi, all'Institut d'Ètudes politiques (SciencesPo), dove sono arrivato sapendo a malapena il francese. Non era la mia prima esperienza all'estero ma senz'altro è stata una delle più formative a livello personale: e lì ho avuto la prima intuizione di uno dei problemi dell'università italiana, ovvero la mancanza di contatto con il mondo del lavoro. 
Dopo la laurea, Forlì mi ha portato la prima opportunità professionale. Durante gli studi avevo partecipato al Nato Model organizzato a Washington Dc, un gioco di simulazione della Nato sulle decisioni da prendere nelle situazioni di crisi, e nel 2008 la facoltà aveva appena firmato una convenzione per stage con il Comando Nato per la Trasformazione (Allied Command Transformation Act). Sono stato uno dei primi a fare domanda, e sono stato preso. Nell'attesa di ricevere il
security clearance - il nulla osta di sicurezza - necessario per iniziare, ho passato un mese al Cairo studiando arabo, e nell'agosto 2009 sono partito per Norfolk, Virginia. Grazie a un ottimo sistema di accoglienza l'inserimento è stato semplice - una volta superati gli inevitabili fastidi iniziali: documenti, trovare casa, una macchina usata... Essendo pagato intorno ai 700 euro al mese, è stato un investimento da parte dei miei genitori, mamma insegnante di scuola elementare e papà rappresentante commerciale - uno dei tanti per cui sono riconoscente. In un ambiente che è prevalentemente militare - di cui però non ho sentito il peso - mi sono occupato di ricerca e analisi in vari ambiti, dalla cooperazione civile-militare alla comunicazione strategica. I sei mesi iniziali sono stati prorogati, per cui ho trascorso un totale di 9 mesi a Norfolk. Ci sarebbe stata l'opportunità di rimanere con contratti esterni, ma ho deciso di tornare nel Vecchio Continente. A quel punto avevo capito che, sebbene mi interessasse la politica internazionale, lavorare in ricerca o nella burocrazia delle organizzazioni internazionali non faceva per me.
Nel frattempo però la comunicazione strategica mi aveva appassionato e ho quindi deciso di andare a Bruxelles per occuparmi di comunicazione politica (i cosiddetti Public Affairs). Ho colto al volo l'opportunità di una Summer school sulle istituzioni europee offerta dalla Regione Veneto a Bruxelles, e ho trovato uno stage di tre mesi, ahimé senza indennità, all'Ufficio regionale di informazione dell'Onu. Questi tre mesi, sebbene interessanti, hanno confermato la mia decisione. Dopo il lavoro passavo il tempo sui siti delle agenzie di comunicazione, inviavo decine e decine di cv, e ho fatto qualche colloquio.
Nel gennaio 2011, dopo aver per coerenza rifiutato uno stage alla Commissione Europea, ne ho iniziato uno presso la Harwood Levitt Consulting, dove il tirocinio è velocemente diventato un contratto a tempo indeterminato per il quale ricevevo uno stipendio intorno ai 24mila euro netti annui. I nostri clienti sono multinazionali di tutti i settori - farmaceutico, dispositivi medici, beni di consumo, bevande, energia... - ma anche fondazioni e organizzazioni no profit.
Li aiutiamo a preparare la loro strategia di comunicazione su questioni di politica pubblica che possono influenzare la loro attività commerciale - e di conseguenza la vita di tutti i cittadini europei.
Il vantaggio della consulenza è che espone a tematiche, settori, aziende e modi di pensare completamente diversi - impagabile nei primi anni di carriera. Inoltre lavorare per una piccola agenzia mi ha permesso di essere coinvolto sin dall'inizio in ogni aspetto dell'attività dell'ufficio, dalla gestione di progetti e clienti alla direzione strategica, dallo sviluppo commerciale alla gestione di budget e personale.
La mia traiettoria mi ha forse allontanato dagli studi universitari, ma mi ha insegnato molto. Se tornassi indietro, farei un master all'estero e diversificherei il mio profilo con studi più commerciali; ma ho anche imparato che i corsi di studio contano fino a un certo punto. Mi rendo conto ora che non è necessario avere a 18 anni un piano preciso di quello che si farà nei 20 anni successivi. Le esperienze che si fanno lungo la strada insegnano tutte qualcosa, aiutano a scoprire le proprie passioni, e con la necessaria dose di fortuna portano sempre da qualche parte - anche se non sempre per la via più breve. Guardando avanti, penso che specializzarsi non sia sempre la scelta migliore, e i profili più richiesti nel medio termine sono quelli più ricchi ed eterogenei - il che a ben vedere non dovrebbe sorprendere.
Quando penso all'Italia, non mi vedo rientrare a breve. Non è solo la mancanza di lavoro dignitosamente retribuito, ma forse più ancora una forma mentale che sento
paradossalmente ormai "straniera": la rigidità sociale, lo sfruttamento della precarietà - che è una cosa diversa dalla mobilità o flessibilità -, l'amore per le gerarchie che spesso maschera la consapevolezza di non meritarsi la propria posizione, il clientelismo...Vedo molti miei amici lavorare, fortunatamente, ma a condizioni e in ambienti ben inferiori alle loro capacità e legittime aspirazioni.
Non mi sento più completamente, solamente, italiano e credo sia un bene. Se dovessi dare un consiglio a chi si appresta a lasciare l'università, direi: imparate seriamente le lingue e fate più esperienze che potete, senza paura di sbagliare.

Testo raccolto da Ilaria Mariotti


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