Laureati italiani, più veloci e qualificati di prima: ma le speranze di lavoro sono poche

Chiara Del Priore

Chiara Del Priore

Scritto il 21 Giu 2013 in Notizie

Quante volte si sentono frasi come «i giovani escono tardi dall’università» oppure «in Italia ci sono troppi  laureati»? Il quindicesimo Profilo dei laureati pubblicato di recente da Almalaurea, consorzio interuniversitario che raggruppa circa il 70% degli atenei italiani, dimostra che la verità è un’altra.
Il quadro che emerge è per certi aspetti positivo: innanzitutto i neodottori del 2012 hanno ottenuto il titolo mediamente intorno ai 26,7 anni (valore complessivo che tiene conto di tutte e quattro le tipologie di laurea analizzate: triennale, magistrale, a ciclo unico, di vecchio ordinamento), rispetto ai 27,8 dei laureati del 2004, che rientravano ancora nel vecchio ordinamento universitario. Un dato che rivela come la volontà di finire gli studi «in corso» e cercare di inserirsi il prima possibile nel mondo del lavoro si stia rafforzando. Anche se siamo ancora un po' lontani dai 24-25 anni che rappresentano l'età in cui generalmente si conclude un corso di laurea di cinque anni «in corso».
L’indagine si riferisce a circa 227mila studenti  che hanno conseguito un titolo accademico nel 2012
in una delle 63 università del consorzio: in particolare, 127.279 laureati triennali, 65.452 magistrali e 22.171 laureati presso corsi a ciclo unico. I restanti sono laureati che rientrano ancora nel vecchio ordinamento. Il 55% del totale del campione analizzato ha conseguito titoli che fanno riferimento all’area delle scienze umane e sociali e la rimanenente parte a quella tecnico-scientifica. 60 su 100 sono donne.
Gli studenti vivono con determinazione gli anni universitari e sono per la maggior parte soddisfatti dei propri studi, tanto che il 68% del totale dei laureati 2012 si iscriverebbe di nuovo al corso di laurea frequentato. Un gruppo di giovani che, oltre a impiegare meno tempo a laurearsi rispetto ai «colleghi» di qualche anno fa, non disdegna neppure esperienze formative a latere, finalizzate all’ampliamento delle proprie conoscenze. Tra queste, l’apprendimento della lingua inglese e l’acquisizione di conoscenze informatiche: nel 2012 la quota di laureati con una conoscenza «almeno buona» dell’inglese e dell’informatica di base è aumentata del 12,5% rispetto al 2004.
La Repubblica degli Stagisti ha chiesto ad Andrea Marcucci, presidente della Commissione Istruzione e Cultura al Senato, di commentare questi dati. Secondo il senatore PD «la diminuzione dell'età alla laurea è evidentemente dovuta al passaggio dai 4/5 anni previsti nel vecchio ordinamento agli attuali tre del ciclo universitario minimo necessario a ottenere il titolo. In questo senso la riforma non ha soddisfatto interamente il suo scopo, vale a dire la netta riduzione dei tempi necessari per la laurea. L'estrema frammentazione interna ai corsi di laurea, con insegnamenti che prevedevano 2 o 3 crediti formativi, non ha certamente facilitato la vita agli studenti. D'altro canto nel nostro Paese non sono ancora abbastanza diffusi tutti quegli organismi finalizzati al sostegno degli studenti: le residenze, le borse di studio per i meritevoli che hanno visto negli ultimi anni un'ulteriore contrazione a causa dei tagli, i prestiti d'onore. Si tratta di strumenti che consentono ai giovani di dedicare tutto il loro tempo allo studio e che stimolano a finire nei tempi prescritti, pena l'esclusione dai quei benefici».
Un incremento delle agevolazioni, soprattutto di tipo economico, sarebbe sicuramente un incentivo a procedere più rapidamente nel proprio percorso universitario. Ma la preparazione e la maggiore rapidità nel raggiungimento della laurea troverebbero un riscontro positivo nel mercato del lavoro? A quanto pare a oggi la fatica non è adeguatamente ricompensata.
Dal 2008 si è accentuata la tendenza, già presente negli anni precedenti, alla diminuzione della quota di occupati nelle professioni ad alta specializzazione, che richiedono quindi titoli di studio superiori al diploma, in controtendenza rispetto a quanto accaduto nel resto d’Europa. Questo significa che, nel nostro Paese, i laureati fanno più fatica a inserirsi nel mercato. Un dato di fatto legato a una serie di fattori, tra cui l’aumento generale della disoccupazione in Italia e lo scarso ricambio generazionale. Non è un caso che molti «cervelli» di casa nostra vadano ad arricchire i mercati lavorativi di altri paesi: non troppo tempo fa l’Istat ha chiaramente individuato questo fenomeno.
Secondo il presidente della Commissione Istruzione a Palazzo Madama «mancano, in Italia, adeguati incentivi all'assunzione alla prima esperienza e spesso, il costo del lavoro e la ristrettezza del mercato, inducono i neo laureati ad accettare lavori in nero o con contratti inadeguati. Si potrebbe parlare dell'insufficienza delle politiche nazionali per la ricerca e, più in generale, per lo sviluppo di settori in ambito pubblico o privato legati all'eccellenza, alle nuove tecnologie, alla cultura e alla creatività. Senza dimenticare lo scollamento che, malgrado le riforme, continua ad esistere tra formazione universitaria e mondo del lavoro».
Se nel mercato italiano c’è poco spazio per i laureati, questa condizione è aggravata dal fatto che il numero di coloro che possiedono un titolo accademico non è comunque aumentato, a differenza di quanto si possa pensare. Ad aver subìto un incremento è il numero dei titoli universitari, passato dai 172mila del 2001 ai 299mila del 2011, a causa dello «spacchettamento» delle lauree, legato all’introduzione del nuovo ordinamento, per cui un laureato si trova spesso ad avere più di un titolo, come nel caso di triennale e specialistica. Gli immatricolati sono addirittura diminuiti del 17%, passando da 338mila del 2001 a 279mila di 10 anni dopo. Se si pensa, poi, che parte di chi si iscrive non termina gli studi universitari, la situazione appare abbastanza chiara. Tanto da spingere l'Italia a rivedere al ribasso le stime della Commissione Europea, relative al numero di laureati della fascia d’età 30/34 anni: se l’Ue indica una percentuale del 40% di questa fascia, da raggiungere entro il 2020, in Italia presumibilmente non si riuscirà a superare il 26-27%.
Dai risultati dell’indagine Almalaurea, nel nostro Paese ci sono, quindi, meno laureati rispetto al resto d’Europa e, per di più, con poche possibilità di inserimento nel mercato occupazionale. Il nuovo governo ha già toccato più volte il tema lavoro, segnalando alcuni strumenti come il rafforzamento del contratto di apprendistato, l’allentamento dei vincoli posti dalla riforma Fornero per i contratti a termine e l’adozione di incentivi per l’assunzione dei giovani a tempo indeterminato. Ancora presto per stabilire se nei prossimi mesi qualcosa inizierà a muoversi.

Chiara Del Priore

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