È giusto che i “figli di” sfruttino il vantaggio competitivo?

Alessandro Rosina

Alessandro Rosina

Scritto il 25 Feb 2012 in Editoriali

Si parla tanto di giovani e di quanto questo paese offra pochi spazi e scarse opportunità alle nuove generazioni. Vero, ma non vale per tutti. stageCi sono giovani che, anzi, si trovano a proprio agio in un contesto culturalmente “familista” e caratterizzato da scarsi strumenti pubblici di protezione e promozione sociale. Si tratta dei “figli di”, ovvero di chi ha avuto l’indiscusso merito di scegliersi la famiglia giusta nella quale nascere.
Come infatti molte ricerche documentano, nel nostro paese il successo del singolo risulta più legato alle risorse economiche e culturali dei genitori che alle proprie effettive capacità. Da tali risorse dipende strettamente, ad esempio, la probabilità di iscriversi all’università, di laurearsi in tempi accettabili, di trovare un lavoro solido e ben remunerato, di raggiungere i vertici della scala sociale.
Chi ha genitori ricchi, influenti e ben introdotti non trova particolari problemi nel nostro Paese. Anzi, le difficoltà e gli ostacoli che trova ad emergere chi appartiene alle classi sociali più basse costituisce per i “nati bene” un rilevante vantaggio competitivo nella conquista delle posizioni di maggior potere e prestigio. Una sorta di corsia privilegiata. Come se nel campionato di calcio alcune squadre, del tutto arbitrariamente, partissero all’inizio con 10 punti di vantaggio e altre con 10 di penalità. Tutti grideremmo allo scandalo, in tal caso, perché la gara sarebbe falsata. Ci piace, invece, pensare che lo scudetto si guadagni solo con i valori che emergono in campo. Eppure questo arbitrio è quello che tolleriamo nella gara sociale.
Questo suggerisce anche perché la classe dirigente italiana si sia così poco adoperata per rendere la società “familista” maggiormente equa e meritocratica: il principale effetto sarebbe infatti quello controproducente di aumentare il rischio di vedere i propri beneamati figli scavalcati dai coetanei delle classi più basse. Un padre potente, che pretende il meglio per il figlio, dispone di maggiori strumenti per garantirgli il successo in un paese dominato da nepotismo, raccomandazione e cooptazione.
Ma proviamo a metterci dalla parte del “figlio di”. È giusto che egli sfrutti il peso dei genitori, il loro aiuto e le loro influenze per emergere e occupare le migliori posizioni, a scapito di altri con stesse o maggiori capacità ma che non possono contare su tali aiuti? Non è solo una questione di equità ma di efficienza, di allocazione ottimale delle risorse che implica che nella posizione giusta vada la persona che può svolgere meglio il ruolo richiesto. È quindi tutto il sistema, in termini di crescita economica e di dinamicità sociale, che ci perde. Certo, nel migliore dei casi il “figlio di” può cavarsela dicendo che sta dimostrando di far dignitosamente bene il lavoro che ha più facilmente di altri ottenuto. Di esserselo quindi, ex post, guadagnato. Ma chi ci dice che in una gara più equa tale posto non lo avrebbe raggiunto qualcuno in grado di far meglio di lui?
Tanto di cappello invece a chi, pur nato da genitori potenti e influenti, ha deciso di intraprendere tutt’altra strada mettendosi completamente in gioco con i propri numeri. Una scelta che denota carattere in un paese dove invece è troppo comune seguire le orme dei padri stando per buona parte del cammino sulle loro spalle. A loro va tutta la nostra stima e l’augurio del miglior successo. La vera innovazione in Italia è proprio quella dei giovani che scelgono la via meno comoda della sfida con se stessi, scalando la montagna anziché farsi portare in cima da papà con l’elicottero.

Alessandro Rosina

 

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