Homo faber fortunae suae dicevano gli antichi, ma l'uomo è davvero artefice del proprio destino? Quando si parla di opportunità - di istruzione, lavoro, futuro - non tutti hanno in mano le stesse carte. La linea di partenza è mutevole: qualcuno eredita delle zavorre, altri invece viaggiano sospettosamente spediti. Al centro del problema c'è la famiglia di origine e la ricchezza economica, culturale e sociale che da questa si eredita: una vera e propria discriminante in Italia, che traccia il profilo di un Paese immobile, dove l'esistente si perpetua ed è difficile crescere e conquistare posizioni migliori.
Questa la tesi sostenuta nel libro «Immobilità diffusa» (Il Mulino, collana Studi e Ricerche), sottotitolo «Perché la mobilità intergenerazionale è così bassa in Italia». Perché «la situazione famigliare - titolo di studio, occupazione e ricchezza dei genitori - predetermina in molti casi il destino dei figli». A partire dalla scuola per arrivare al lavoro. In barba all'articolo 3 della Costituzione e alla sua auspicata «rimozione di ostacoli di carattere economico e sociale che [...] impediscono il pieno sviluppo della persona».
Le trecento pagine del volume, molto tecniche, sono il risultato di una ricerca commissionata dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali che ha coinvolto una ventina di sociologi ed economisti coordinati da Daniele Checchi, docente di Economia dell'istruzione e Economia del lavoro all'università Statale di Milano (a fianco nella foto).
I primi capitoli sono un focus sul sistema di istruzione. Pur ammettendo un aumento di mobilità scolastica, l'analisi descrive una scuola sostanzialmente classista, in cui i figli di genitori più ricchi e/o acculturati sono avvantaggiati rispetto agli altri: scelgono «indirizzi secondari "migliori"» (i licei piuttosto che gli istituti tecnici), hanno maggiori probabilità di ottenere titoli alti, migliore rendimento, minori percentuali di abbandono. E si scopre che nel successo scolastico a fare la differenza sono più i fattori socio-economici - lavoro svolto ed agiatezza dei genitori - che quelli culturali, come il loro titolo di studio.
Lo stesso vale in fatto di lavoro. I "figli di papà" trovano più facilmente il primo impiego, grazie alle conoscenze della famiglia (un "legame forte") e possono contare su una solida rete di protezione in caso di insuccesso, mentre gli altri si rivolgono ad amici e conoscenti ("legami deboli"), con risultati più scarsi e zero ammortizzatori. Parlando di imprenditoria poi, si scopre che l'azienda è sempre più un affare di famiglia che in famiglia si cerca di tenere, e le barriere all'ingresso per gli estranei sono alte. Con poche eccezioni, come gli ingegneri e gli architetti.
Che fare per invertire la rotta? Si arriva così all'ultima parte del volume, in cui gli autori indicano le soluzioni: politiche sociali e riforme. Cioè: sostegno alla formazione sin dalla scuola primaria; istituzione di un biennio unificato nella scuola secondaria per rimandare il momento cruciale della scelta di indirizzo; creazione di un'«anagrafe degli studenti» che tenga traccia delle carriere studentesche e, con l'incrocio di dati, garantisca interventi finanziari anche in assenza di una domanda diretta. Più borse di studio e prestiti universitari, sul modello della graduate tax: non una tassa per lo studente, ma un prestito da restituire una volta laureati. E ancora: accesso a prezzi contenuti nel mercato delle case in affitto, sviluppo dei canali informali di ricerca del lavoro, sostegno alla disoccupazione.
Del resto non si tratta solo di giustizia sociale: in gioco c'è anche la crescita economica del Paese. Come scrive nella prefazione Raffaele Tangorra, direttore generale per l'inclusione e i diritti sociali al ministero, «una società che si prende cura dei suoi "cittadini in crescita" fin dalla più tenera età, supportandoli negli anni della formazione e aiutandoli a superare le barriere [...] che derivano dalla condizione familiare, è socialmente più giusta e anche economicamente più efficiente».
Annalisa Di Palo
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