“Lavoro e giovani: ce l'abbiamo un'idea?”. Bella domanda, quella gettata sul tavolo dall'associazione Rena – Rete per l'eccellenza nazionale, fondata tre anni fa da un manipolo di giovani professionisti per promuovere meritocrazia e ricambio generazionale [nella foto a fianco, il presidente Alessandro Fusacchia - che era stato tra l'altro intervistato dalla Repubblica degli Stagisti l'anno scorso come ex stagista del Wto]. Peccato che le risposte siano tante e talvolta contraddittorie, almeno a giudicare dagli interventi del dibattito “(Pre)occupiamoci: creare lavoro pensando al domani”.
L'ambizione di Rena è avviare un dialogo privo di preconcetti ideologici, che coinvolga tanto i giovani quanto le istituzioni e gli imprenditori, per capire come tramutare il precariato nocivo in flessibilità virtuosa. Un processo articolato in tre fasi: prima un sondaggio via internet per raccogliere le proposte del pubblico, tuttora in corso; quindi un dibattito pubblico, avvenuto a Milano qualche giorno fa, e subito a seguire due giorni di riunioni e tavole rotonde a porte chiuse per elaborare piani e proposte concrete. Diciamolo subito: gli esiti del convegno non sono particolarmente incoraggianti. Certo, le idee non mancano, ma sono ancora una volta proposte individuali, non organiche né tantomeno condivise da tutte le parti chiamate in causa.
Così Filippo Taddei, 34 anni, economista del Collegio Carlo Alberto di Torino, alle spalle un PhD in Economics conseguito alla Columbia University, commenta: «La struttura del mercato del lavoro deve mettere l'Italia in condizioni di crescere. La mia preoccupazione è che pur guardando a Berlino ci si ritrovi a Tokyo: ovvero con un Paese anziano, che non cresce più, nonostante le esportazioni». La ricetta di Taddei è in tre punti: «Primo, lasciar operare il mercato. Secondo, nel momento in cui chiediamo ai lavoratori maggiore flessibilità, dobbiamo anche offrire loro maggiori tutele contro i rischi che gli facciamo correre. Occorrono quindi delle misure di sostegno per i periodi di disoccupazione e di passaggio da un contratto a un altro. Per trovare le risorse necessarie, si può pensare a una riforma del sistema fiscale che aumenti le tasse sugli immobili, oggi decisamente troppo basse rispetto alla media degli altri Paesi europei».
Di simile avviso Andrea Di Benedetto, 39enne presidente nazionale dei Giovani imprenditori della Cna, che commenta ironico: «Nella mia famiglia l'imprenditore è stata mia zia, che ha comprato appartamenti per affittarli. Quando ho deciso di avviare un'impresa, i miei mi hanno chiesto perché piuttosto non acquistassi un bell'immobile in centro città. Ecco, la mia ambizione è essere un imprenditore migliore di mia zia. Ma per incentivare l'imprenditoria e al tempo stesso favorire la stabilità dei lavoratori è necessario ridurre il peso della tassazione sul lavoro». Di Benedetto sembra essere riuscito nel suo intento: nel 2000 ha fondato la società 3LogicMK, attiva nel settore delle IT, di cui è attualmente CEO.
Monica Lucarelli, presidente dei Giovani imprenditori di Confindustria Roma, propone interventi anche sul fronte della formazione: «Ci sono molti italiani che frequentano l'università senza reali motivazioni, laureandosi magari a 29 anni per poi andare a ingrossare le fila dei disoccupati. Ecco, togliamo questa parte di disoccupazione inserendo il numero chiuso alle università. Impieghiamo i test Invalsi nelle scuole e negli Atenei per favorire una formazione d'eccellenza». Lucarelli, 39 anni e due figli, è ingegnere e lavora nell'azienda di famiglia, la Ised Elettronica.
Sembra dunque che gli esperti coinvolti nel dibattito concordino almeno su un punto: la necessità di ridurre il costo del lavoro per le aziende, così da incentivare la stabilizzazione, attraverso incentivi o lo spostamento del carico fiscale dal lavoro alle rendite. La stessa Rena ha elaborato una serie di proposte riassumibili in quattro parole chiave: apertura, responsabilità, trasparenza ed equilibrio.
Apertura, intesa come rimozione delle barriere all'ingresso al mercato del lavoro. La flessibilità, rilevano i responsabili dell'Associazione, è a carico quasi esclusivo delle generazioni più giovani. Per porre rimedio a questa situazione, Rena ritiene auspicabile orientare meglio i giovani verso percorsi formativi più orientati alle necessità del lavoro e incoraggiare la meritocrazia anche in un contesto di mobilità lavorativa. Responsabilità va intesa da parte del legislatore, per incentivare la riqualificazione e formazione dei lavoratori; da parte delle imprese, per favorire questo processo; da parte degli individui, perchè si impegnino a migliorare costantemente le proprie conoscenze e competenze. Trasparenza, nella pubblicazione da parte delle imprese dei criteri di selezione dei propri dipendenti, per ridurre le asimmetrie informative. Equilibrio, tramite un nuovo sistema di welfare che rimuova la dualità tra lavoratori "garantiti" e non "garantiti", estendendo a tutte le tipologie di contratto le garanzie che dovrebbero essere patrimonio della collettività: malattia, maternità, ferie, ammortizzatori sociali.
La parte politica del dibattito si è invece divisa sulla proposta del senatore Pietro Ichino per combattere il precariato estendendo a tutti i lavoratori il contratto a tempo indeterminato, rendendolo però molto più flessibile e meno “inamovibile”, rilanciata in occasione del recente dibattito sul precariato nella scuola pubblica. «Sono d'accordo con la proposta di "contratto unico" di Ichino» afferma Alessia Mosca, 36enne deputata Pd e componente della Commissione lavoro della Camera. «Prima di tutto, però, bisogna ridurre i costi del lavoro per chi assume gli under 30, integrare la flessibilità con un maggiore welfare. Dove recuperare le risorse? Tagliando i costi della politica, a partire dai vitalizi dei deputati e senatori». Di parere opposto Simone Baldelli, romano, classe 1972, deputato Pdl e anch'egli componente della Commissione lavoro: «La proposta di Ichino è seducente sulla carta. Ma irrigidire la flessibilità è sbagliato. Costringendo le imprese ad assumere soltanto a tempo indeterminato, si rischia soltanto di incentivare il mercato nero del lavoro. E poi anche chi è assunto in un'azienda è precario, se l'azienda stessa può fallire. Bisogna piuttosto ridare dignità a tutte le professioni, evitando l'iperscolarizzazione ad ogni costo». Il dibattito è aperto.
Andrea Curiat
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