Riforma del lavoro, ma l'associazione in partecipazione non doveva essere abolita?

Ilaria Costantini

Ilaria Costantini

Scritto il 28 Apr 2012 in Approfondimenti

Catene di intimo, profumerie, agenzie di viaggi, erboristerie, rivendite di divani, accessori, abbigliamento, centri estetici e librerie. È qui, secondo i dati raccolti dalla campagna Dissociati! della Cgil, che si concentrano oggi gran parte degli associati in partecipazione. Un miniesercito che nel 2010 ha raggiunto quota 52.500 lavoratori, di cui circa un quarto under 30, in maggioranza donne, concentrati per lo più tra Lombardia, Emilia Romagna e Toscana. Tecnicamente si tratta di lavoratori autonomi, inquadrati da un contratto che li assimila a "soci" delle imprese commerciali presso le quali svolgono in realtà mansioni di semplici dipendenti, in cambio di una (solitamente poco conveniente) partecipazione agli utili aziendali.
Una flessibilità così cattiva da aver indotto il ministro Fornero ad ipotizzare una sostanziale scomparsa dell'istituto: preservato «solo in caso di associazioni tra familiari entro il 1° grado o coniugi», si leggeva nelle linee guida della riforma del lavoro approvate dal Consiglio dei ministri il 23 marzo scorso. Peccato che questo lodevole intento sia stato fortemente diluito: il disegno di legge attualmente all'esame della commissione Lavoro del Senato stabilisce infatti solo un massimo di 3 associati per ciascuna impresa, fatta eccezione per i coniugi, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado (art.10).
«Ma con tre associati, più poniamo l'associante e un paio di familiari, si riesce a gestire tranquillamente un negozio con più vetrine» fa notare Roberto D'Andrea, 32 anni, della segreteria nazionale Nidil. Insieme alla Filcams, attiva nel settore del commercio, la sigla che rappresenta le nuove identità lavorative della Cgil ha avviato lo scorso novembre una campagna volta proprio a contrastare l'impiego di questi contratti, diffusi soprattutto nel commercio. «Sono già arrivate un centinaio di denunce, per lo più anonime, soprattutto da commesse e commessi impiegati in grandi catene» quantifica il sindacalista. Con la formula del franchising l'azienda "madre", proprietaria del marchio commerciale, ha in effetti il vantaggio di non essere responsabile dei contratti di lavoro stipulati dai rivenditori affiliati.  
Lo scandalo dei grandi marchi era giunto però all'orecchio del ministro del Lavoro. «Gli elementi raccolti con la campagna sono serviti  a porre con chiarezza il problema al tavolo della riforma» ricorda D'Andrea. Che cosa sia accaduto dopo 23 marzo non è dato sapere, anche se non è un mistero che Rete Imprese avesse dato
«un giudizio negativo su questo aspetto della riforma». Certo è che sul punto il governo ha innestato una significativa marcia indietro.
Perché il contratto in questione è in molti casi un contratto capestro per il lavoratore e in assoluto uno dei più convenienti per i commercianti. Basta dare un'occhiata alle retribuzioni degli associati, che in media non arrivano 9mila euro in un anno. A livello previdenziale sulle loro spalle è inoltre caricato il 45% dei contributi da versare alla gestione separata dell'Inps, quando ad esempio il contratto a progetto prevede una ripartizione di 2/3 a carico del datore di lavoro e solo di 1/3 per il parasubordinato. A differenza delle false partite Iva - tra le quali possono esserci anche professionisti che svolgono mansioni tali da giustificare il ricorso al lavoro autonomo - gli associati sono poi impiegati per lo più in mansioni esecutive e ripetitive, tipiche cioè del lavoro dipendente. «Né il sindacato, né l'ispettorato si è mai trovato dinanzi ad un vero associato» spiega ancora il sindacalista: «in Italia esistono già infiniti modi per fare impresa e il ricorso a questo contratto è di fatto una modalità per non assumere le persone, come suggerisce tra l'altro una giurisprudenza ormai consolidata anche di Cassazione». 

Ma la controindicazione principale dell'associazione in partecipazione consiste nel rischio d'impresa che scarica sul lavoratore: perché se l'azienda va male o se, grazie all'aiuto di un commercialista abile, gli utili si abbassano, l'associato può anche vedersi negare lo stipendio, o peggio essere chiamato a ripianare eventuali perdite. «A Napoli, dopo un furto nel negozio, ad una nostra iscritta è stato chiesto di contribuire a ripagare il danno. Ad un'altra iscritta di Bologna che aveva deciso di fare causa all'azienda, è stato presentato un conto di 11mila euro».
L'unica novità  introdotta dalla riforma a tutela di questi lavoratori riguarda la certezza della sanzione per il datore che utilizza impropriamente il contratto «senza che vi sia stata un’effettiva partecipazione dell’associato agli utili dell’impresa o dell’affare, ovvero senza consegna del rendiconto». Se il testo non subirà ulteriori modifiche, d'ora in poi il falso associato dovrebbe essere inquadrato con un contratto a tempo indeterminato; mentre ora la parte datoriale ha la possibilità di assumerlo con tipologie contrattuali ben più convenineti, se in grado di dimostrare la natura non subordinata del rapporto di lavoro. «Puntiamo a tornare alla bozza originale del ddl» conclude D'Andrea. «Per giovedì 10 maggio è stata intanto indetta una manifestazione nazionale contro il precariato, per il quale questa riforma fa davvero poco».
Nel frattempo la campagna contro i falsi associati va avanti. Un'intesa tra la Nidil e direzione provinciale del lavoro di Napoli consentirà agli ispettori di effettuare controlli mirati sul territorio sulla base delle denunce giunte al sindacato. Un modello che potrebbe essere presto replicato in altre città. Quanto ai grandi marchi del franchising, non appena il quadro normativo sarà definito, la Cgil chiederà alle case madri di impegnarsi a stipulare contratti commerciali solo con quelle imprese che utilizzano "veri" lavoratori dipendenti: inquadrandoli come tali.


Ilaria Costantini


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