Eleonora Voltolina
Scritto il 26 Dic 2019 in Interviste
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Qualche giorno fa sul Foglio Barbara D’Amico ha svelato, in un articolo intitolato molto esplicitamente “Censura al Cnel”, che quest'anno due capitoli del Rapporto annuale del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, in particolare quelli dedicato al salario minimo e alle pensioni, sono stati eliminati prima della pubblicazione finale. L'economista Andrea Garnero, trentatré anni, piemontese trapiantato da anni a Parigi, era autore insieme a Claudio Lucifora – uno dei 68 consiglieri in carica del Cnel, e curatore del Rapporto annuale – del capitolo sul salario minimo.
Garnero si occupa proprio di contrattazione e salari al Dipartimento Occupazione e affari sociali all’Ocse; nel 2014 la Repubblica degli Stagisti gli aveva fatto una lunga intervista dal titolo “Salario minimo, non è la bacchetta magica ma evita gli stipendi da fame”. Dal suo ufficio parigino racconta ora cosa è successo, e perché parlare di salario minimo fa così tanta paura.
Cosa è successo col Cnel?
In primavera ero stato contattato per scrivere un capitolo sul salario minimo per il loro Rapporto annuale. Ci ho lavorato e ne è uscito un testo di una trentina di pagine che analizzava il funzionamento del salario minimo negli altri Paesi Ocse, le proposte fatte in Italia al Parlamento, le posizioni delle parti sociali, e i nodi da discutere – dal valore, a chi lo stabilisce, a come lo si stabilisce, a come si interagisce con la contrattazione collettiva. Una roba piuttosto standard e non troppo originale, argomenti più o meno noti: semplicemente un punto sullo stato del dibattito.
E poi è scoppiato il caos.
Sì. L’abbiamo sottoposto a inizio novembre alla Commissione Informazione del Cnel, e sono cominciate a nascere le prime questioni. Occuparsi del tema, sostanzialmente, veniva visto come una “benedizione” del Cnel al tema. E uno dei nodi da considerare è che in Italia ci sono livelli di sviluppo economico diversi: non certo l’affermazione del secolo, però è bastato per far tornare in mente le gabbie salariali, e far saltare subito in aria sopratutto i sindacati. Da qui la richiesta di modificare il capitolo, depurandolo da qualunque riferimento a questi temi e alle questioni aperte.
Voi avete deciso di non modificarlo.
Eh, no! Lo facciamo come ricercatori, esperti di un tema, e lo facciamo gratis: perlomeno fateci dire quello che vogliamo. Sennò pagate qualcuno e gli fate dire quello che volete voi... O ve lo scrivete da soli. Certo, potrebbero anche non pubblicare perché la qualità non era adeguata…
Però non è questo il caso.
No, non mi sembra questo il caso, né per il mio capitolo né per quello di Marco Leonardi che è professore di un certo spessore: non credo abbia scritto un capitolo inadeguato. Capisco che il Cnel sia un posto in cui bisogna trovare delle intese, ed è giusto così ed è anche per quello che peraltro – opinione impopolare – io penso che il Cnel serva, perché all’Italia servono dei posti in cui provare a fare dei passi avanti. E’ un peccato che questa volta si sia deciso di non avere nessun dialogo. Capisco sia un tema delicato per le parti sociali, ma... prima o poi arriverà un Di Maio o un Renzi che farà un decreto fregandosene altamente dei sindacati – e a quel punto io vorrei poi vedere se faranno uno sciopero generale contro il salario minimo, ecco. La mia opinione è che sarebbe opportuno cercare di andare nei dettagli il prima possibile, cercare la soluzione migliore. Il salario minimo esiste nel novanta per cento dei Paesi al mondo, quindi non può essere una roba così terribile. Convive con la negoziazione collettiva in Paesi come la Germania, l’Olanda, il Belgio, la Spagna, il Portogallo, la Francia, quindi francamente: ci sarà un modo per farlo convivere, ecco. Che non significa che i sindacati non abbiamo ragioni ad avere dei timori e a sollevare alcune perplessità, fanno bene – sia perché è il loro lavoro, sia perché in alcuni casi hanno ragione. Ma da lì a troncare non mi sembra proprio l’atteggiamento più strategico.
Bloccare il dibattito ancor prima che nasca.
Esatto, perché tanto il dibattito va avanti. Ci sono delle proposte di legge depositate in Parlamento, la stessa ministra Catalfo alla presentazione del Rapporto ha detto che il salario minimo è una delle priorità per il 2020, e ogni volta che Di Maio è un po’ in difficoltà dice “adesso facciamo il salario minimo”: può succedere che un giorno si sveglino e facciano un decreto. Un decreto è molto semplice, un paio di linee, costo limitato per lo Stato, quindi non è improbabile. Però ci sono tutta una serie di dettagli che vanno definiti, e che si possono definire solo se si apre una discussione. Il salario minimo risponde a dei problemi oggettivi – non è un caso, forse, che la giornalista che ha dato la notizia sia la stessa che ha pubblicato il thread sulle collaborazioni al Corriere [Barbara D'Amico ha smesso di scrivere per il Corriere della Sera perché hanno tagliato le remunerazioni dei collaboratori esterni]
Treu ha dichiarato che “sul tema del salario minimo tutte le parti si sono trovate in disaccordo”. Com’è possibile scontentare tutti-tutti?
C'è disaccordo proprio sull’idea stessa. Sia da parte dei datori di lavoro sia da parte dei sindacati, che storicamente in Italia si sono opposti. Loro temono che il salario minimo diventi anche un salario massimo: cioè che si fissi un salario minimo a sei euro, sette euro, e poi tutte le imprese escano dal contratto collettivo nazionale e paghino quei sei euro a tutti.
Ed è verosimile un quadro del genere?
C'è un lista di Paesi civili nei quali convivono salario minimo e contrattazione collettiva! In Germania nel 2015 è stato inserito il salario minimo [a otto euro e mezzo, ndr] e non abbiamo visto una fuga dalla contrattazione collettiva, anzi. Semmai è stato l’indebolimento della contrattazione collettiva che ha portato all’introduzione del salario minimo. Se la contrattazione collettiva copre la maggioranza dei lavoratori, è efficace, non ha buchi, non c’è bisogno del salario minimo. Quando cominciano a crearsi problemi, la domanda comincia a crescere: il salario minimo può portare alcune risposte. Nel nostro capitolo discutevamo proprio questo: come far convivere i due strumenti, avere sia un salario minimo sia la contrattazione collettiva, con una serie di combinazioni in parte tecniche – per evitare appunto che succeda quello che temono i sindacati.
Nel 2014 insieme ad altri ricercatori avevi raccolto dati che dimostravano che il 13% dei lavoratori dipendenti italiani era pagato meno del “minimo contrattuale”. E' ancora così? E 13% è una percentuale sufficientemente rilevante da giustificare l’adozione di una misura del genere?
Non abbiamo aggiornato queste cifre. Nel frattempo la quota di contratti pirata è continuata a crescere – se non sbaglio si è sorpassato il numero di novecento contratti totali, mentre eravamo sui trecento otto anni fa, e la moltiplicazione di contratti pirata a naso non ha ridotto la quota di sottopagati, anzi. Il problema rimane, si moltiplica e si radica nel sistema economico.
Se si facesse una legge sul salario minimo, questi contratti pirata diventerebbero fuorilegge?
Se c’è una legge sul salario minimo, nessuno può essere pagato meno di quel salario minimo. I contratti dovrebbero adeguarsi. Questo è uno dei vantaggi del salario minimo: permetterebbe a un numero significativo di persone di sapere quali sono i minimi retributivi. Io sfido chiunque – anche tra gli specialisti – a sapere qual è il contratto collettivo che li copre e il minimo salariale è previsto da quel contratto: non lo sa nessuno! Il vantaggio del salario minimo è dare chiarezza.
Però comunque non coprirebbe i lavoratori non dipendenti.
E' vero, le partite Iva sarebbero escluse. Però ci sarebbe una misura nazionale di qual è il salario che il Paese considera decente, e ciascuno si potrebbe fare due calcoli. Se io per un articolo ci metto tre ore a far ricerca e altre tre ore a scriverlo, e il Corriere me lo paga 15 euro, è una cosa decente o no? Io non sono coperta e non posso andare dal giudice, però magari potrei anche dire “guarda che qui, tra il tempo che ci ho passato, la telefonata che ho fatto, siamo fuori: almeno non ci voglio rimettere”. Non cambia nulla dal punto di vista legale, ma aiuta le persone ad avere un margine di comprensione in più.
Sulla necessità di tener conto della sperequazioni tra Nord e Sud, nel 2014 tu dichiaravi che non sarebbe stato scandaloso pensare a un salario minimo differenziato territorialmente in Italia.
Al momento il mio pensiero è che nessun paese della taglia dell’Italia, quindi nessun Paese europeo, ha un salario minimo regionale. I salari minimi regionali esistono solo in Paesi grandi e federali: Stati Uniti, Canada, Giappone, Cina, India, Brasile. Appena uno comincia a fare mille salari minimi si ricade di nuovo nella complessità e si perde l’obiettivo della semplificazione. Il calcolo del costo della vita peraltro è più complicato di quanto uno possa pensare, e cambia anche molto all’interno delle Regioni: una cosa è vivere a Milano in via Montenapoleone, un’altra cosa è vivere in una valle sperduta del varesotto; una cosa è vivere in via Libertà a Palermo, un’altra è vivere in un paesino della provincia di Caltanissetta. Quindi non è semplicissimo e quindi io tendenzialmente escluderei questa opzione. Però bisogna prendere comunque in considerazione che Lampedusa non è Bolzano.
E quindi… come si risolve?
Il salario minimo dovrebbe essere tarato, almeno inizialmente, sulla situazione del sud Italia. Al resto dovrebbe rispondere la contrattazione collettiva nazionale e sopratutto quella territoriale e d’impresa, per permettere ai territori e alle imprese dove ci sono più margini di dare salari più elevati. Ora, col sistema attuale, siamo in un paradosso: abbiamo al tempo stesso salari troppo alti e troppo bassi. Perché sono troppo alti rispetto alle condizioni economiche del sud e all’interesse delle imprese a investire al sud, ma sono comunque troppo bassi per una vita dignitosa a Milano o in altre zone d’Italia. Un ingegnere in Italia è pagato molto meno che altrove. Scalfarotto quando era sottosegretario...
Mea culpa, il caso l’avevo fatto uscire io: ero stata io a “smascherare” questa brochure infelice del ministero dello Sviluppo economico.
Che diceva anche una cosa vera, per carità. Non me ne vanterei, ma comunque è vero, è così. La mia idea è un salario minimo nazionale che sia il minimo erogabile assoluto – cercando non solo con “i soldati” ma con campagne di informazione, tool informatici, coi famosi big data, di farlo rispettare.
In soldoni, qual è il salario minimo che tu avresti in mente per questa cosa? Nel 2014 dicevi sette euro all’ora: la pensi ancora così?
La risposta ufficiale, che però è anche la risposta vera – non è la risposta “del politico” – è che questo dovrebbe essere il punto di arrivo. Il problema della discussione italiana è che siamo partiti dalla cifra, anziché partire dall’analisi.
Allora apprezzerai che io l’abbia tenuta come ultima domanda.
Sì. Però: perché sette, perché nove? Perché sette virgola uno? Innanzitutto bisogna conoscere quali sono i minimi salariali dei contratti collettivi oggi: nove euro è molto più alto dei minimi presenti oggi, e quindi diventerebbe fuori mercato. Poi bisogna decidere cosa contiene questo minimo: è solo il minimo del minimo o contiene anche il tfr, la quattordicesima, le ferie? Tutte cose che non sono state discusse finora. Dunque c’è il rischio di un decreto che arriva e dice “salario minimo: nove euro” – che può essere altissimo se è il minimo dei minimi, può essere basso se include tutto.
Chi lo decide negli altri Paesi?
In Inghilterra il Labour Party ha vinto le elezioni nel maggio del 1997 facendo una campagna proprio incentrata sul salario minimo. Blair ha introdotto una commissione, che esiste ancora, che si chiama Low Pay Commission, la commissione dei bassi salari, con tre datori di lavoro, tre rappresentanti dei lavoratori, due esperti e un presidente. Un anno e mezzo di lavoro per arrivare alla cifra: il salario minimo è entrato in vigore nel 1999, ha funzionato. Lo hanno inserito a un livello relativamente basso [8,21 sterline all'ora per lavoratori over 25 anni e cifre più basse a seconda dell'età, ndr] e poi lo hanno aumentato nel corso degli anni. Lo hanno accompagnato con studi, analisi quantitative e qualitative, con ampie discussioni coi datori di lavoro che ovviamente erano grandemente contrari e coi sindacati, e ora fa parte del panorama inglese e nessuno lo mette più in discussione; anzi due governi conservatori, Cameron prima e ora Johnson, l’hanno aumentato significativamente.
Riflessione interessante – anche perché non si può dire che in Inghilterra non ci sia una tradizione forte sindacale. C’è sempre l’obiezione, infatti, che il salario minimo funziona bene là dove la tradizione sindacale è quasi inesistente.
Anche Francia, Belgio, Spagna, Portogallo: son tutti Paesi molto simili all’Italia in quanto a ruolo e potere che hanno i sindacati, per numero di iscritti oppure per l’influenza che hanno. Ognuno ha le sue tradizioni, non c’è nessun modello che si può copincollare; ed è giusto che i sindacati esprimano preoccupazione anche perché il dibattito finora è molto superficiale. Però ecco se la posizione è no e no e no, secondo me non andiamo molto avanti.
intervista di Eleonora Voltolina
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