Michel Martone è uno degli ospiti e opinionisti della trasmissione «Il contratto», partita martedì scorso su La7, che vede tre candidati disputarsi di volta in volta un posto di lavoro a tempo indeterminato presso un'azienda. La partenza è tutta in salita: a seguire il debutto dell'ex Iena Sabrina Nobile e della sua squadra - oltre a Martone ci sono in studio l'ex direttore del personale Giordano Fatali, la personal coach Valentina Licata, la filosofa-psicologa Silvana Ceresa - sono stati solo 289mila telespettatori, con uno share davvero basso: 1,17%.
Trentasettenne, Martone è docente di diritto del lavoro presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione e la Luiss di Roma; è stato uno dei più giovani professori nominati ordinari, e da anni è impegnato sul fronte del «risveglio generazionale» e della denuncia delle storture che rendono il mercato del lavoro «duale», impedendo a tanti giovani di trovare la propria realizzazione professionale e l'indipendenza economica.
Professore, la prima puntata della trasmissione ha visto come protagonisti tre over 30, addirittura quella che è risultata vincitrice è prossima alla quarantina. Come interpreta questo fatto? Forse il pubblico non se l'aspettava?
Nelle prossime puntate ci sarà spazio anche per ragazzi più giovani. Non bisogna dimenticare comunque che i processi selettivi sono fatti dalle aziende, il programma tivù parte dal momento in cui l'azienda comunica la rosa finale dei tre candidati. Quindi in questo caso è stata Monster ad aver inserito candidati ultratrentenni nella rosa; in altri casi magari sarà diversamente. Comunque il dramma della precarietà non tocca solamente i ventenni, ma anche i quarantenni: ormai sono passati molti anni da quando è cominciato il problema, e quindi in questo labirinto non sono intrappolati solamente i ragazzi appena laureati ma purtroppo anche persone più grandi.
Un suggerimento che ha dato in trasmissione è quello di fare in fretta a laurearsi. Lei, da docente universitario e da esperto del mercato del lavoro, suggerirebbe ai ragazzi di rinunciare a qualche voto alto pur di concludere gli studi velocemente?
Sì. In generale è molto più importante laurearsi in tempo. Detto ciò, sono assolutamente convinto che per la gran parte delle facoltà italiane uno studente di medie capacità, con voglia di farcela e di studiare, può tranquillamente laurearsi con un bel voto e in tempo. Se si vuole si può. Poi è ovvio che ci sono ragazzi che devono fronteggiare straordinari sacrifici, che si ammalano durante il periodo di studi… In questi casi il ritardo della laurea è dovuto a fattori esterni, e non ci si può fare niente. Però in molti altri casi gli studenti non si impegnano abbastanza per raggiungere l'obiettivo. Alla domanda «È meglio rinunciare a un 30 e accettare un 27 per laurearsi prima?» rispondo di sì: ma aggiungo che ci si può anche laureare presto e con un buon voto. Il «fuori corso» dovrebbe essere l'eccezione, solo per quelli che hanno problemi: non la regola.
Lei ha citato i dati di Almalaurea, secondo i quali l'età media per la laurea specialistica è 27 anni quando invece dovrebbe essere 24.
Questo è molto preoccupante, e purtroppo dimostra che tanti giovani prendono l'università come un parcheggio. Il problema è che talvolta all'università ci si sta talmente bene che non si ha voglia di uscirne. Ma se se ne esce troppo tardi, il mercato del lavoro diventa veramente un labirinto, e la persona non ha più quell'adattabilità che poteva avere prima. A ventitré anni si è molto più flessibili che a trenta, molto più pronti a cambiare lavoro, si hanno meno problemi. Entrare tardi nel mercato del lavoro complica molto le cose.
In trasmissione qualcuno ha detto che le lauree in materie umanistiche, specialmente quelle in filosofia, sono molto richieste sul mercato. È d'accordo?
Sostanzialmente no. Beninteso, se un ragazzo è particolarmente capace e intelligente può fare qualsiasi facoltà, e troverà sempre lavoro. Però certo non è il percorso che suggerirei a uno studente medio, perché oggi la disoccupazione intellettuale dei laureati in Lettere, in Filosofia, in Scienze della comunicazione è altissima. Meglio orientarsi su facoltà che offrono sbocchi lavorativi più sicuri.
Una delle principali critiche "preventive" alla trasmissione è stata che fosse poco opportuno parlare del tema della disoccupazione in una trasmissione come questa.
Io dico che invece è importante parlarne, è importante affrontare il tema. «Il contratto» ha il pregio di parlare della vita vera, della realtà così com'è. Mostra candidati veri, non personaggi che fingono di cercare un lavoro per apparire in tivù. Mostra aziende vere, che selezionano persone a cui far svolgere non solo i mestieri più "glamour", ma anche funzioni semplici come quella del telesales. La scelta precisa è quella di aderire alla realtà. Si potevano cercare scorciatoie, per esempio utilizzando personaggi famosi: in America una trasmissione simile, The Apprentice, è tutta imperniata su Donald Trump. Ma quella è tutta finta: «Il contratto», invece, mostra come stanno realmente le cose. Al pubblico a casa offre consigli che possono risultare preziosi per i tanti giovani che si trovano nella stessa situazione: per questo il programma ha un alto potenziale di servizio, che anzi deve valorizzare.
Nella prima puntata non si è fatto nessun accenno alla retribuzione; la trasmissione si intitola «Il contratto», ma al telespettatore non viene detto cosa c'è scritto in quel contratto, quanto il vincitore guadagnerà.
Anch'io penso che andrebbe detto quali sono le condizioni economiche; probabilmente non dirlo esplicitamente è stata una svista, perchè certo si tratta di un elemento interessante anche per il pubblico. Sono sicuro che i candidati le conoscessero già, del resto chi firmerebbe un contratto senza conoscere lo stipendio? Dalle mie competenze in materia di contratti collettivi posso presumere che la retribuzione per quel lavoro fosse di 1400-1500 euro al mese. Anche questa è una bella differenza rispetto a un reality: qui la posta in gioco è un semplice contratto, con una normale retribuzione. Non c'è quell'idea della «svolta», del vincere una somma astronomica. Uno degli aspetti positivi di questa trasmissione è che mostra che per sopravvivere al mercato del lavoro ci vogliono impegno e fatica quotidiani, al contrario del Grande Fratello che da un giorno all'altro, e senza meriti, ti cambia la vita. Chi vince qui ottiene semplicemente un lavoro che dà una certa sicurezza: il che, per i tre candidati, era già tanto.
Era d'accordo con la scelta finale dell'azienda?
Sì, facevo il tifo per Manuela [nell'immagine a destra]. Anche se devo dire che tutti e tre i candidati avrebbero potuto prepararsi di più per la prova finale. Sono rimasto molto stupito: si sono presentati piuttosto impreparati.
In generale, cosa l'ha colpita di più?
Che i protagonisti della prima puntata - uno laureato in economia, uno in filosofia, una diplomata all'Accademia di belle arti - non fossero alla ricerca del lavoro per il quale avevano studiato, del lavoro dei loro sogni. Erano semplicemente alla ricerca di un contratto a tempo indeterminato che desse una sicurezza. Nella ragazza che ha vinto, Manuela, rivedevo molti dei miei studenti. Lei aveva tanta voglia di fare, e non aveva avuto fin qui fortuna nel mercato del lavoro.
Intervista di Eleonora Voltolina
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