Stesso giorno, mercoledì 19 ottobre, due città diverse, appuntamenti simili. A Bologna va in scena la tappa emiliana del JobMeeting, la fiera del lavoro che ormai da un decennio favorisce il contatto tra giovani e aziende. A Roma invece l'appuntamento è all'università di Tor Vergata, per la quarta edizione del career day della facoltà di Economia.
A Bologna il Jobmeeting dalle 10 alle 17 offre ai partecipanti lo spazio career lab, con incontri e seminari: un appuntamento da non perdere è il dibattito «Il mercato delle lauree deboli: si può mangiare con la filosofia o la semiotica?» organizzato dalla Repubblica degli Stagisti. Un quesito di grande importanza in un Paese con una importante tradizione umanistica ma un mercato del lavoro che sembra diventato allergico a lauree che non siano economia o ingegneria. Dove ogni anno decine di laureati in lettere si vedono scartati a priori ai colloqui, o nel migliore dei casi si sentono suggerire di completare la formazione con un bel master (solitamente costosissimo) che li riscatti e faccia perdonare l'errore di gioventù di essersi laureati in materie poco affini al mercato.
Ma davvero il mercato non ha bisogno di filosofi, musicologi, linguisti? Alle 11:30, nella sala bianca del Padiglione Polivalente della Fiera che ospita il Jobmeeting, ne discuteranno tre esperti: Giovanna Cosenza, docente di semiotica e anche presidente del corso di laurea magistrale in semiotica; Giampaolo Colletti, fondatore di AltraTV e animatore dell'evento web La notte dei ricercatori; e Andrea Curiat, giornalista esperto di mercato del lavoro e collaboratore "storico" della Repubblica degli Stagisti.
Insieme cercheranno la quadratura del cerchio e faranno il punto sulla situazione delle lauree umanistiche in Italia, confrontandola anche con quella degli altri paesi europei, e sugli sbocchi offerti dalle lauree "deboli" in campo accademico e nel settore privato. Intanto, alla domanda che dà il titolo al dibattito hanno già risposto molti giovani, sulla pagina Facebook dedicata all'evento. La maggior parte è pessimista. «La risposta che darei è un "no"» si rammarica Marco: «No, perché filosofia, semiotica, ma anche antropologia, sociologia, lettere moderne sono discipline morte in questo Paese. In molti altre nazioni quando si pianifica un nuovo quartiere servono, per esempio, antropologi. Da noi, a volte, persino gli architetti sono di troppo. La filosofia serve ad uno Stato moderno che si domanda del suo futuro, del modello di civiltà, della conoscenza di sé. In Italia la conoscenza di sé è limitata alla rassegna stampa della mattina. Ed è già tanto». «Per la mia situazione di laureato in Comunicazione, la risposta è "no"» gli fa eco Fabrizio: «Infatti sto per iscrivermi agli esami singoli per l'accesso al TFA della SSIS e, nei ritagli di tempo, penso di prendere una certificazione Cisco CCNA. Tornassi indietro farei scelte più pratiche e meno dettate dalla passione personale. Il mercato impera ed occorre, ahinoi, sottomettersi». Ma c'è anche qualcuno più ottimista: «Per me sì, ci si può guadagnare da vivere occupandosi di quelle materie» dice Leopoldo, ma poi specifica: «a patto che le università non sfornino qualche migliaio di filosofi e esperti di semiotica l'anno. Ne basterebbero una decina di alto livello». Insomma, il problema insomma è numerico: «Di filosofi e psicologi e sociologi, antropologi, letterati e storici ne abbiamo in quantità industriale, e ogni anno gli atenei ne sfornano altre tonnellate. Come sia possibile occuparli tutti nei loro settori di studio, mi risulterebbe difficile capirlo, anche in un paese funzionante, figuriamoci in Italia». Rosella invece è ottimista in maniera sintetica e senza condizioni: «Certo che si può, mai debolezza fu più apparente».
Parallelamente a Roma, al career day di Torvergata, si parlerà di occupazione giovanile nella tavola rotonda «Trovare lavoro, inventarsene uno». La ricercatrice Paola Pianura commenterà i più rilevanti dati Istat sull'occupazione giovanile; poi Eleonora Voltolina, direttore della Repubblica degli Stagisti, farà il punto della situazione sul tema stage anche alla luce dei recenti cambiamenti normativi, e chiamerà a partecipare al dibattito due giovani ex studenti, entrambi classe 1985, con due belle avventure imprenditoriali da raccontare.
Il primo, Andrea Giansante [nella foto a destra], è a capo di Rumjungle, una marca di abbigliamento sportivo. L'ha fondata nel 2007 insieme a suo fratello Mattia - di un anno più vecchio - in seno alla Yell, società di cui anche il loro padre faceva parte. «All'inizio eravamo “appoggiati” alla sede di Yell, assunti come dipendenti». Ma quando il management ha proposto una acquisizione i due fratelli hanno rifiutato: «Volevamo che la nostra “creatura” continuasse nella direzione che avevamo pensato per lei». Nella primavera del 2009 hanno dunque deciso di staccarsi e dare avvio a una gestione al 100% autonoma della loro realtà imprenditoriale. Senza il paracadute è stato utto più difficile, ma Elia e suo fratello sono riusciti a ottenere un finanziamento per l’imprenditoria giovanile, 100mila euro erogati dalla Banca delle Marche e garantiti dalla Imprefidi Lazio con una fideiussione bancaria (pari al 75% dell’importo). «Con questi soldi ci siamo dotati delle attrezzature base per allestire la nuova sede operativa: mobilio, muletti e traspallet per il magazzino, computer». A gennaio 2010 sono stato finalmente pronti a partire con la nuova gestione: i tre fratelli fondatori (ad Elia e Mattia si è nel frattempo aggiunta la giovanissima Martina, 21 anni) e un dipendente per l'ufficio grafico. Oggi, a meno di due anni di distanza, sono in otto: «Abbiamo assunto un responsabile fatturazione e vendite, uno per l’ufficio ordini, un altro in sala grafica, ed un mio ex collega dell’università come part time mentre termina gli studi della specialistica». Il fatturato glielo permette: dagli 850mila euro del 2009 i giovani Giansante sono passati a 1 milione 450mila euro nel 2010, e prevedono di chiudere il 2011 a due milioni di euro: «Forse potremmo toccare i due milioni e 200mila se il maltempo ci assiste: freddo e pioggia potrebbero permetterci di vendere qualche giubbino in più!».
Un'altra storia a lieto fine è quella di Francesco Maria D'Apuzzo [a sinistra], proveniente da una famiglia di imprenditori campani. Il padre però opera nel settore automobilistico; Francesco invece ha scelto di tentare la via dell'autonomia, tuffandosi nel ramo alimentare e riprendendo un marchio storico della famiglia, con un passato glorioso a cavallo tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Ha dunque riacquisito il marchio nel 2007 e due anni dopo, appena terminati gli studi, con 5mila euro di investimento si dedicato anima e corpo al rilancio della «Pasta Francesco D'Apuzzo». «Ho fatto un accordo con un cugino a Gragnano, vicino a Napoli, che si sarebbe occupato della produzione mentre io del marketing e della distribuzione. Poi ho fatto uno studio sulla concorrenza e trovato un packaging accattivante e che lasciasse intendere artigianalità e tradizione». Francesco comincia personalmente a girare per enoteche, ristoranti, gastronomie specializzate a Roma per trovare i primi acquirenti. Oggi la sua piccola azienda personale conta cinque agenti di vendita, centinaia di clienti nel mondo, piccoli furgoni e alcuni giovani che aiutano Francesco a fare consegne e magazzino. Il 2010 per lui si è chiuso con 100mila euro di fatturato: «Siamo in forte crescita, e nel 2012 siamo sicuri di raddoppiare il fatturato, soprattutto all'estero!».
Insomma, il lavoro al tempo della crisi può ancora aprire inaspettate finestre di speranza.
Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:
- Il deputato Aldo Di Biagio spiega la sua interrogazione: «Bisogna difendere chi ha lauree "deboli" dalla discriminazione nelle selezioni»
E anche:
- Il ministro Giorgia Meloni: «Per investire sui giovani è necessario un cambio di mentalità»
- I laureati italiani fotografati da Almalaurea: sempre più disoccupati e meno retribuiti
- Censis: in Italia i laureati lavorano meno dei diplomati. E i giovani non credono più nel «pezzo di carta»
Community