Elsa Fornero ha parlato di stage. Lo ha fatto domenica sera in tv, nella trasmissione «Che tempo che fa», cominciando proprio da questo argomento per rispondere alla domanda sulla riforma del lavoro prossima ventura. «Ci sono molti ragazzi che non trovano altro che stage» ha detto il ministro del Lavoro: «Stage è lavoro a costo zero. Zero remunerazione per una persona. Noi diciamo che lo stage può essere formativo, cioè è giusto anche che l'università non sia ossificata. Quando studi puoi fare lo stage. Quando non studi lo stage non è più consentito. Volete qualcuno? Lo pagate. Magari con un contratto flessibile. Quindi io avrei intenzione di eliminare gli stage post formazione».
Questa, nel complesso, è una buona notizia. Vuol dire che il governo conosce e ammette il problema: il primo passo per affrontarlo e risolverlo. L'idea di limitare rigorosamente gli stage al momento della formazione, facendoli coincidere con il percorso di studi e non permettendo che vengano effettuati dopo, è peraltro molto condivisibile. Nel migliore dei mondi possibili sarebbe la soluzione ottimale. Il problema però è il transitorio. Come gestire quelle centinaia di migliaia di giovani che si sono diplomate o laureate negli ultimi mesi (alcune ormai da anni), e che però non hanno ancora trovato un lavoro stabile? È noto che tante aziende pongono obbligatoriamente lo stage come primo step di ingresso per i profili junior: niente stage oggi, niente posto (forse) domani. Senza l'opportunità dello stage, i neodiplomati e neolaureati perderebbero la possibilità di potersi mettere in luce e farsi assumere.
Per contrastare questo andazzo e sanare la situazione bisognerebbe agire in maniera forte sul sistema delle imprese, convincendole - in un certo senso obbligandole - ad utilizzare i contratti veri già esistenti (apprendistato, inserimento) e un domani, quando saranno pronti, quelli attualmente in fieri (contratto unico dominante). Ma eliminando gli stage post-laurea senza agire per incentivare le imprese a fare contratti si cadrebbe dalla padella nella brace: l'unico risultato sarebbe avvantaggiare gli studenti universitari, che a quel punto diverrebbero ambitissimi. A scapito dei loro colleghi appena appena più vecchi, e già «fuori mercato».
Per tutti gli stage, in ogni caso, sarebbe opportuno e urgente apportare alcune modifiche alla normativa vigente. Innanzitutto sarebbe importantissimo imporre un rimborso spese minimo a favore dei tirocinanti, così come accade in Francia, dove tutti gli stage di durata superiore ai due mesi devono essere ricompensati con almeno 430 euro al mese. La Regione Toscana si è mossa recentemente in questo senso, anche se l'obbligo di emolumento riguarda solamente gli stage non curriculari - cioè quelli che Fornero vorrebbe eliminare. Un'altra azione efficace sarebbe ridurre poi la durata massima, che in alcuni casi (per esempio per gli studenti universitari) è davvero elevata: fino a 12 mesi. E ancora: creare una sorta di «anagrafe» degli stage, un database online che possa garantire trasparenza e controllabilità di ciascun percorso di stage e che permetta a tutti i soggetti promotori (università e centri per l'impiego in primis) di condividere le informazioni sui soggetti ospitanti, sulla qualità formativa offerta, sulle condizioni economiche proposte, sull'esito degli stage. Intensificare i controlli, in special modo per scongiurare la pratica molto diffusa degli stage per mansioni di basso profilo. E introdurre sanzioni a fronte della violazione della normativa: ad oggi la legge è sine sanctione - il che la rende poco più di un suggerimento. Un'innovazione molto interessante sarebbe infine quella di legare il numero massimo di stagisti ospitabili annualmente al numero di contratti di apprendistato attivi in una certa impresa: il che significherebbe chiudere la possibilità di fare stage per quelle imprese (oggi la stragrande maggioranza) che non usano il contratto di apprendistato.
Due sono quindi i punti chiave per attuare un'abolizione degli stage post-formazione che sia equilibrata e non danneggi nessuno. Il primo: prevedere un periodo di latenza, per esempio 12 o 24 mesi dall'entrata in vigore della legge, per permettere a chi ora sta per finire il suo percorso di istruzione di poter fare stage. Il secondo: stringere le maglie degli stage durante la formazione, secondo i criteri elencati poco sopra, in modo da renderli meno convenienti. E in questo modo disinnescando il circolo vizioso che da un decennio li rende concorrenti sleali dell'apprendistato e di tutte le altre forme contrattuali destinate ai profili junior.
Eleonora Voltolina
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