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Redditi a picco e niente welfare: giovani avvocati, “schiavi della partita Iva”

In Italia è boom di avvocati: sono ben 247mila, circa il doppio dei colleghi francesi, e continuano a crescere al ritmo di 14mila nuovi ingressi annuali. La professione esercita ancora un forte appeal tra le nuove generazioni, sebbene il mito del “principe del foro” sia ormai oscurato dalla triste verità dei numeri. I dati della Cassa forense parlano chiaro: se per il 2011 il reddito medio della categoria è di 47mila euro l’anno, i professionisti under 29 non raggiungono i 14mila, quelli nella fascia 30-34 anni si fermano a 20mila, mentre i 60-64enni toccano quota 92mila. E questi numeri non tengono in considerazione la fascia più povera della categoria, quei circa 60mila avvocati che nel 2011 risultavano iscritti all’Albo ma non alla Cassa forense perché il loro reddito era inferiore alla soglia minima di 10.300 euro. Non è difficile immaginare che si tratti soprattutto di nuove leve. La forbice reddituale che coinvolge le diverse generazioni di legali italiani è ben superiore a quella - già molto significativa - evidenziata dall'Adepp (Associazione degli enti previdenziali privati) per tutti gli iscritti alle casse private: il reddito medio dei professionisti italiani under 40 risulta inferiore del 48,4% rispetto a quello degli over 40. Avvocati e architetti, sottolinea l'Adepp, le due categorie più colpite da questa tendenza alla polarizzazione.«Il percorso professionale dei giovani che si affacciano alla carriera forense è divenuto negli ultimi anni particolarmente difficile», ammette Paolo Giuggioli, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano. «Le ragioni sono variegate. Senza dubbio è un fenomeno ampio che, per via della crisi che ormai da oltre un quinquennio condiziona pesantemente lo sviluppo del nostro Paese, riguarda non solo questo settore professionale ma tutte le attività economiche. Tuttavia, rispetto ad altre categorie, l’avvocatura sta pagando il prezzo di un lungo periodo nel quale il numero degli iscritti è cresciuto enormemente. Dal 2000 ad oggi sono più che raddoppiati. Solo l’Ordine di Milano conta quasi 17.500 avvocati, mentre allora erano 8.300. Purtroppo non si può registrare un corrispondente innalzamento del reddito complessivamente prodotto». Come dire: i commensali raddoppiano, ma la torta da spartire rimane grosso modo la stessa.Ancora una volta, a rimanere a bocca asciutta sono soprattutto i giovani. Giovanissimi, poi, molti di loro non lo sono più. Se fino a qualche anno fa la piaga del lavoro sottopagato coinvolgeva principalmente i praticanti e i ragazzi in attesa di abilitarsi, oggi l’asticella della miseria si è spostata sempre più su fino a raggiungere anche coloro che hanno 10 o 15 anni di esperienza. Perché l'amara gavetta legale non finisce con l'agognata firma del dominus sul certificato di compiuta pratica. Come racconta Krizia, 26 anni, tra i promotori della ricerca sul praticantato i cui desolanti risultati sono stati ripresi da Articolo 36 qualche settimana fa: «Dopo quella firma inizia un periodo di limbo che, per i più fortunati, dura circa un anno: è il tempo che intercorre tra la fine della pratica e l'esame orale dell'esame di Stato, per chi lo passa subito. Io sto ancora aspettando l’esito dello scritto di dicembre; se tutto va bene, sosterrò l’orale in autunno. In caso contrario, il mio “purgatorio” durerà almeno un altro anno». Come vivono gli aspiranti avvocati in questo periodo in cui non sono più praticanti ma non sono ancora abilitati? «Molti restano nello studio in cui hanno svolto la pratica e percepiscono lo stesso “stipendio” di prima. Nel mio caso, 300 euro al mese. Ma sono fortunata: ho persino ottenuto due settimane di “pausa” pre-esame, ovviamente non retribuite», spiega Krizia. «A me non è stato concesso», racconta ad Articolo 36 Francesco, 26 anni, anche lui tra i promotori della ricerca. «Allora ho deciso di “licenziarmi” e dopo lo scritto di dicembre sono approdato in uno studio piuttosto grande, dove lavoro 10 ore al giorno e non ricevo nessun compenso. Ma sono abbastanza contento perché qui ho l’impressione di imparare il mestiere, mentre prima svolgevo quasi solo lavoro di segreteria».Forse allora sarà l’abilitazione il momento in cui si potrà finalmente “cambiare musica”? «Purtroppo no! Nel mio studio lavorano anche giovani abilitati e la loro situazione non è molto migliore. Guadagnano 800 o mille euro, i loro compensi crescono molto lentamente. A 33 anni portare a casa 1.200 euro, a fronte di 12 ore di impegno al giorno a ritmi piuttosto stressanti, non è una grande vittoria. Anche perché si lavora a partita Iva e da questa somma vanno tolti i contributi alla Cassa forense, le tasse, la polizza professionale, le spese del commercialista, i costi per l’aggiornamento professionale», risponde Francesco. E la situazione è destinata a peggiorare per gli avvocati a bassissimo reddito: la riforma forense approvata a dicembre 2012 e in vigore da febbraio ha posto come obbligatoria l'iscrizione alla cassa di categoria per tutti gli avvocati, indipendentemente da quanto guadagnano. Pena: la cancellazione dall'Albo. L'articolo 21 della legge ha affidato alla Cassa Forense il compito di emanare entro un anno un regolamento che determini i contributi dovuti per i circa 60mila avvocati con reddito inferiore ai parametri "minimi". Allo studio della commissione creata ad hoc ci sono diverse ipotesi, da quella di prevedere il versamento posticipato dei contributi a quella di tenere il minimo contributivo sotto i mille euro, fino alla previsione di un regime di esenzione per i primi anni di attività. Certo è che se le misure non saranno "morbide" e realmente proporzionate ai redditi, migliaia di avvocati rischieranno di uscire dall'Albo. La tipologia di avvocato a partita Iva ma di fatto alle "dipendenze" di un dominus, resa famosa qualche anno fa dal libro Studio illegale, è la più diffusa tra i giovani legali italiani. Ottenuta l’abilitazione, ogni neoprofessionista si trova davanti a una scelta: rimanere nello studio di un avvocato più esperto e già avviato, aprirne uno proprio, associarsi con altri colleghi. Ma la concorrenza è agguerrita, i clienti sono sempre meno, i costi di gestione sono notevoli. Dunque per la maggioranza di loro la scelta è obbligata: aprire partita Iva e fornire la propria collaborazione a uno studio, coordinandosi con il dominus, spesso in regime di monocommittenza. Sono liberi professionisti “meno liberi” degli altri: formalmente autonomi, devono rispettare procedure, formalità e policy nel rapporto con clienti, devono concordare con il titolare le ferie, che spesso non sono retribuite. «Questa categoria vive in una vera e propria “terra di nessuno” priva di qualsiasi garanzia: non sono pochi i casi di avvocati 35enni o 40enni licenziati dalla sera alla mattina senza alcun paracadute, Tfr o ammortizzatore sociale», ha denunciato qualche mese fa sulla Repubblica degli Stagisti Dario Greco, presidente dell’Aiga, l’associazione dei giovani avvocati. Ma l’Ordine non li tutela in nessun modo? «L’Ordine è attento alla questione disciplinare in merito agli abusi che possono verificarsi nei confronti di giovani avvocati che prestano la propria attività professionale come collaboratori di studi legali», spiega Giuggioli. «Tuttavia è essenziale la segnalazione di tali circostanze affinché risulti possibile un’efficace iniziativa da parte nostra».Tuttavia nel mondo legale evitare gli abusi è più difficile che altrove perché qui le partite Iva non sono mai considerate “false” e non possono essere trasformate in rapporto di lavoro dipendente. Perché per l'ordinamento italiano l'avvocato non può essere un lavoratore subordinato. «Un'assunzione – ha più volte spiegato l’Oua, Organismo unitario avvocatura italiana – è del tutto incompatibile con l'indipendenza della libera professione legale, proprio a garanzia della clientela». Eppure in Francia, Spagna, Gran Bretagna e Germania, negli studi medio-grandi, l'inquadramento contrattuale degli avvocati è una modalità di esercizio consentita e ben regolamentata. In Italia invece la riforma forense  – la legge 247/2012 approvata a dicembre - ha trascurato del tutto questo aspetto. E la riforma Fornero ha volutamente escluso dalla cosiddetta “stretta sulle false partite Iva” tutte le professioni ordinistiche. Tutto regolare, dunque, se per un giovane avvocato il rapporto con lo studio legale in cui lavora da anni si interrompe dall'oggi al domani, per mancanza di clienti, per parcelle non pagate o, semplicemente, per una gravidanza. «Ho visto parecchie donne mandate via dagli studi dopo il parto semplicemente perché volevano allentare un po' i ritmi di lavoro nei primi mesi», racconta Francesco. «Ne ho visto altre andare in udienza il venerdì, partorire la domenica, tornare in tribunale il mercoledì. Non si fermano mai per paura di perdere il lavoro». È perfettamente legale, perché la natura del lavoro autonomo ha portato il legislatore a non prevedere per la maternità l’astensione obbligatoria. Le libere professioniste possono continuare a lavorare e, contemporaneamente, percepire dalla Cassa forense l’indennità di maternità: l’80% del reddito netto professionale mensile prodotto ai fini Irpef nel secondo anno antecedente il parto, per cinque mesi. Certamente molte donne avvocato considerano positivamente questo trattamento, ma non mancano i segnali d'allarme: stando ai dati forniti dalla Cassa forense, la fascia d’età in cui le gravidanze sono più numerose è quella tra i 35 e i 39 anni. Le donne rimandano la maternità per molto tempo, complici la paura di perdere la propria scrivania e la preoccupazione legata a un reddito insufficiente. Anche perché le statistiche ci consegnano l’immagine di un’avvocatura in rosa sempre più numerosa ma decisamente più povera: nella fascia d’età 35-39 anni un uomo guadagna in media 35mila euro, mentre la sua collega donna 21mila, con un divario del 40%. I dati dunque evidenziano che l'avvocatura italiana è sempre più ricca di giovani e di donne, ma non sembra né culturalmente pronta né attrezzata – a partire dagli strumenti di welfare – per accoglierli e dare loro opportunità di crescita. «La professione forense si sta progressivamente ringiovanendo e femminilizzando, una trasformazione che non possiamo ignorare», conferma il presidente della Cassa forense Alberto Bagnoli. Che, a margine dell'VIII Congresso giuridico-forense per l'aggiornamento professionale, ha annunciato i suoi propositi per rendere l'avvocatura un mondo meno ostile alle nuove generazioni: «Dobbiamo creare nuovi interventi di natura assistenziale, investire nella formazione dei giovani professionisti e agevolare il loro ingresso nel mondo del lavoro. Si tratta di interventi che vanno nell'ottica di costruire un welfare avanzato che non sia solo previdenza ma anche assistenza». In concreto? La Cassa forense ha messo a disposizione 50 milioni di euro da investire nel 2013 in misure assistenziali, in particolare per le fasce più deboli della categoria: interventi di microcredito a favore dei giovani iscritti, bonus bebè, ulteriori forme assicurative, benefit per intraprendere la professione in modo autonomo. Nella stessa direzione va anche l’Ordine di Milano, come spiega ad Articolo 36 il presidente Giuggioli: «Abbiamo ritenuto importante attivare convenzioni con istituti bancari e confidi per mettere a disposizione dei nostri iscritti vari strumenti finanziari a condizioni agevolate, eventualmente sorretti da garanzie collettive, diretti a facilitare l’avvio di nuovi studi professionali o a consentire anticipazioni su parcelle relative a prestazioni professionali nell’ambito del patrocinio a spese dello Stato, che scontano i tempi lunghissimi con cui la Pubblica Amministrazione salda i propri debiti». Tutti interventi lodevoli, ma destinati a incentivare e supportare i giovani che vogliano intraprendere la professione in modo realmente libero e autonomo, in un mercato peraltro sempre più saturo. Restano tagliati fuori, ancora una volta, i cosiddetti “schiavi della partita Iva”, sul cui lavoro sottopagato si basa il volume d’affari milionario di moltissimi studi, piccoli e grandi, in tutta Italia.Anna Guida

Macché 15-24enni, la vera disoccupazione giovanile è quella dei trentenni

Le dichiarazioni dei politici sulla disoccupazione giovanile sono ormai quotidiane. C'è preoccupazione, c'è allarme, bisogna agire, la situazione non è più accettabile... Tante parole.  Ma il problema é davvero grave: troppo grave per farlo mangiare dalla retorica e dalla imprecisione. «Il 38% di disoccupazione giovanile è inaccettabile» ha detto il  premier Letta, «Ci concentreremo sul piano giovani» gli ha fatto eco il ministro del Lavoro Giovannini.Tutto giusto, ma il problema non è quello. Non è la disoccupazione giovanile. O meglio, non é quella che tecnicamente viene definita, a livello statistico e secondo standard europei, «disoccupazione giovanile»: cioè l'insieme dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni che hanno finito (o smesso) di studiare e che cercano attivamente lavoro. Il fulcro della questione, signori della politica e del sindacato e colleghi dei media, sta altrove. Sì, il numero é impressionante, dire «c'è il 40% di giovani disoccupati» fa sempre un certo effetto, va bene per le prime pagine dei giornali. Ma non è assolutamente quello il problema dell'Italia.Semplicemente per una questione di numeri e di proporzioni. Su 6 milioni di italiani in quella fascia di età, quelli che cercano lavoro e non lo trovano sono numericamente pochi: all'incirca mezzo milione. Perché, come ha spiegato anche Assolombarda, in quella fascia di età «la grande maggioranza è impegnata nello studio» e dunque «la popolazione attiva», l'unica che va conteggiata nelle statistiche sulla disoccupazione,  «è di soli 1 milione e 660mila individui, contro i quasi 4 milioni e mezzo di ‘inattivi’ da un punto di vista lavorativo». Dunque «l'emergenza disoccupazione giovanile» si concretizza in mezzo milione di quindicenni - ventiquattrenni che cercano lavoro e non lo trovano. Tanti, da un certo punto di vista. Ma per come è strutturata la società italiana, non è poi così insopportabile che un giovane tra i 15 e i 24 anni non abbia ancora un lavoro che gli permette di mantenersi, e viva a carico - parziale o totale - dei genitori. Non è un dramma.In altri Paesi lo è: le famiglie sono abituate a "lasciar andare" i figli molto presto per la loro strada, a sostenerli fintanto che studiano ma poi a smettere immediatamente di pagare le loro spese una volta diplomati o laureati. In quei Paesi, va detto, vigono sistemi di welfare molto più attenti ai giovani del nostro, e dunque il giovane ha a sua disposizione una serie di aiuti e incentivi dallo Stato che lo supportano nel momento di transizione dalla vita "da piccolo" nell'ecosistema familiare alla vita "da grande", fino alla conquista della piena autonomia.Ma non divaghiamo. Il punto è la fascia di età che ci interessa. Che non è quella stabilita a livello europeo per misurare la disoccupazione giovanile. 15-24 é una fascia di età che non rappresenta nulla, in Italia. É buona solo per produrre le statistiche ufficiali nel rispetto dei parametri Eurostat, adatte alle comparazioni con altri Paesi UE, omogenee. 15-24 é una forbice significativa per Paesi in cui i ragazzi fanno un anno di superiori e due anni di università meno di noi italiani. Paesi in cui un 17enne spesso ha finito di studiare alle superiori, un 20enne all'università, e vuole entrare nel mercato del lavoro. Da noi ciò accade raramente.La vera emergenza in Italia sono i 25-34enni. Quella é la vera, drammatica, insopportabile «disoccupazione giovanile». Non per le statistiche, ma per chiunque viva e osservi il mercato del lavoro italiano. Il disastro sono i milioni di 25-34enni disoccupati (cioè che hanno perso il lavoro e ne stanno cercando un altro), inoccupati (che non ne hanno mai avuto uno) o addirittura neet (che sono rassegnati e non lo cercano).Su questa fascia di età vanno concentrati tutti gli sforzi. Sono i 25-34enni il futuro prossimo dell'Italia. Io li chiamo "giovani anzianotti", perchè non sono più giovanissimi ma nella cultura italiana vengono considerati e sopratutto trattati - sia da famiglie iperprotettive sia da datori di lavoro irresponsabili - come tali: sono loro che vanno aiutati a trovare un lavoro, agevolando le aziende ad assumerli. Sono loro che non hanno più l'età per vivere con i genitori e mantenersi grazie alla mancetta dei nonni. Sono loro che devono essere valorizzati, dopo tutto quello che hanno studiato: e pagati con stipendi decenti, in modo da poter uscire di casa, farsi un proprio nucleo, magari mettere su famiglia. Perché per fare figli non si può aspettare, come fanno le donne italiane, di essere vicine alla quarantina: lungi dall'essere un problema "privato", quello delle primipare attempate è invece un dramma che ha effetti sulla demografia e in ultima analisi sull'intera società italiana, sempre più povera di bambini e dunque sempre meno attrezzata per sostenere, tra trenta-quarant'anni, il peso del welfare per le pensioni. È dunque sulla fascia di età 25-34, composta secondo gli ultimi dati Istat da oltre 7 milioni di persone, che la politica e il sindacato devono impegnarsi se vogliono davvero fermare il declino italiano. Perché solo 4 milioni e mezzo di questi 7 milioni hanno un impiego: questa fascia ha infatti un tasso di disoccupazione del 14,9% (dato 2012), altissimo considerando che i 25-34enni dovrebbero essere quelli più attivi e dinamici nel mercato del lavoro. In numeri "brutali" vuol dire che in questa classe anagrafica ci sono all'incirca un milione e 100mila disoccupati. Viceversa, ovviamente, il tasso occupazione è molto basso, un po' inferiore al 64%. E c'è un numero mostruoso di inattivi: 1 milione e 800mila.Il timore invece é che il governo abbia in mente altro. Una operazione cosmetica, fatta più per l'Europa che per l'Italia. Un'azione concentrata sulla fascia sbagliata - quei 15-24enni in cerca di impiego che in Italia sono pochi e sostanzialmente meno disperati dei fratelli maggiori - per raggiungere l'obiettivo, come ha dichiarato Enrico Letta qualche giorno fa, di «un piano nazionale sull'occupazione con l'obiettivo di far scendere la disoccupazione giovanile nei prossimi anni, possibilmente sotto il 30%», per dare «speranza per il futuro». Peccato che quello sia l'obiettivo sbagliato: la «speranza per il futuro» va data prima ai giovani adulti, e poi ai giovanissimi. Pensare gli interventi prossimi venturi di incentivo alle assunzioni in ottica 15-24 è utile solo nell'ottica di fare bella figura, tra 12 o 18 mesi, portando a Bruxelles il risultato di aver abbassato una disoccupazione giovanile che in Italia coinvolge a malapena mezzo milione di giovanissimi. Dimenticando i veri giovani "anzianotti" drammaticamente senza lavoro: i 25-34enni.Eleonora Voltolina

Chi nasce in Italia sia italiano da subito: ma sono ancora tanti gli ostacoli alla legge

Il dibattito si è riacceso di recente dopo le dichiarazioni della neo ministra per l'Integrazione Cécile Kyenge, la «ministra nera», come si è autodefinita di fronte ai media, generalmente avidi di ritratti nitidi. 49 anni, medico di origini congolesi, italiana - anzi emiliana, come ama ricordare - perché moglie di un italiano, all'indomani della sua elezione tra le fila del governo Letta la deputata Pd ha annunciato l'intenzione di stilare subito un ddl che riconosca in Italia lo ius soli, il diritto per i figli di immigrati ad avere la cittadinanza del Paese in cui nascono, indipendentemente da quella dei propri genitori. Le polemiche non si sono fatte attendere, scuotendo il già precario equilibrio politico su cui si basa l'allenza di governo. Ultimo in ordine cronologico il duello a distanza su RaiTre, nella trasmissione Che tempo che fa di ieri sera, tra il vicepremier Angelino Alfano che ha argomentato (alquanto arditamente, a dir la verità) che in Italia lo ius soli esisterebbe già, «perchè chi è nato qui, al compimento della maggiore età può già fare richiesta per la cittadinanza», e lo scrittore Roberto Saviano, che poco dopo si è schierato apertamente a favore di un'immediata legge che dichiari automaticamente italiani tutti coloro che nascono sul territorio italiano.I rappresentanti delle cosiddette "seconde generazioni" sono più di 850mila ogni anno, su una popolazione complessiva di 60 milioni di persone. Nascono in ospedali italiani, crescono con cibo italiano, frequentano scuole italiane, parlano e pensano (anche) in italiano. Lavorano, o lavoreranno, contribuendo all'economia del Paese; fanno figli a loro volta. I bambini che nascono oggi da genitori immigrati se tutto va bene riceveranno la cittadinanza italiana, e i diritti annessi, dopo il 2031, dopo cioè aver superato i 18 anni e una sfibrante trafila burocratica. Il presidente Napolitano, a dispetto della sua consueta sobrietà espressiva, tempo fa la definì una «follia». Seconde generazioni, seconda serie - cittadini di "serie B": questo sembra essere il paradigma. A smontarlo ci ha provato - e probabilmente ora a maggior ragione ci proverà - più d'uno. Tra questi c'è Anna Granata, 31enne psicologa e dottoressa di ricerca in Pedagogia interculturale alla Cattolica, autrice di Sono qui da una vita, sottotitolo «Dialogo con le seconde generazioni» (Carocci, 166 pagine, 16 euro). Un libro, nato proprio della sua ricerca di dottorato, che dà la parola va direttamente a loro: ai figli di immigrati rappresentati da un campione di giovani di origine straniera tra i 18 e i 27 anni che vivono a Milano. Per poter affermare - di fronte al mondo della scuola, del lavoro, di fronte alle loro famiglie e comunità, all'intera società  -  il diritto ad una doppia appartenenza, ad essere ciascuno due "interi", e non due "metà": italiani e stranieri allo stesso tempo, senza dover necessariamente sacrificare un pezzo della propria identità a favore di un altro.«Mi sento come una noce di cocco, nera fuori e bianca dentro» scrive una ragazza di origini etiopi sul forum della Rete G2 - punto di riferimento web per le seconde generazioni: nera per etnicità ma bianca, italiana, per cultura. Senza contrapposizioni. Le fa eco Abdallah Kabakebbji, tra i fondatori dell'associazione Giovani musulmani d'Italia: «per cortesia non chiedetemi se mi sento più occidentale o più musulmano: sarebbe come chiedere se vuoi più bene al papà o alla mamma!». Mentre Akram racconta divertito di quando suo padre, sudanese, rispose per le rime ad una "sciura" un po' pettegola, in perfetto dialetto milanese («gelo nella sala, ma poi disgelo» ricorda). Rassmea invece, nata da genitori arabi, racconta dell'imbarazzo nel presentarsi in classe all'indomani dell'11 settembre, con il peso di chi sente di  dovere delle spiegazioni che non ha. Perché Rassmea, "araba" cresciuta in Italia, del fondamentalismo islamico allora non ne sapeva tanto di più dei suoi compagni di classe (poi ha recuperato).  Molti di questi ragazzi e ragazze, italiani di fatto, hanno iniziato solo da poco il cammino per ottenere la cittadinanza italiana, impigliati nelle maglie arrugginite della legge 91/1992, che disciplina la materia e che adesso la ministra Kyenge sta cercando di riformare, seppur conscia della difficoltà di trovare i numeri. «L'Italia ha uno statuto giuridico fortemente basato sui legami di sangue» nota l'autrice della ricerca Anna Granata. «È sufficiente avere un nonno italiano, pur senza conoscere la lingua e la situazione del nostro paese, per  essere chiamati a partecipare alla scelta di chi deve governare». In diritto si chiama ius sanguinis, diritto di sangue, trasmesso per eredità; dalla parte opposta c'è appunto lo ius soli: un principio quasi sconosciuto in Europa, e di casa solo in Usa, Canada, Brasile. Ottenere la cittadinanza ovviamente non è solo un fatto simbolico, il che da solo basterebbe. Il caso di Sima, raccontato qualche tempo fa dalla Repubblica degli Stagisti, è esemplare: 24enne di origini indiane, in Italia da quando aveva un anno e italiana a tutti gli effetti, da quando si è laureata vive con l'incubo di essere espulsa dal suo Paese, scaduto ormai il visto provvisorio per motivi di studio. Ma, al di là dei casi estremi, vedersi riconosciuto formalmente il diritto di cittadinanza determina anche la possibilità di partecipare ad un concorso pubblico, o di votare: «non potremo diventare gli Obama italiani» scrive un giovane sul forum G2 «ma nemmeno insegnanti, avvocati, magistrati, ingegneri, architetti, poliziotti e qualsiasi altra attività che preveda l'accesso alla professione attraverso concorso pubblico». Un insensato spreco di energie. «La società è posta di fronte a un bivio» scrive l'autrice «scegliere di tutelare il proprio passato o immaginare un percorso insieme a chi compone effettivamente, oggi, la società e può contribuire a garantirne un futuro». Secondo le stime nel 2015 un bambino su tre avrà almeno uno dei due genitori stranieri e che il 17% degli alunni delle scuole primarie sarà figlio di immigrati. Sono cifre, tra tante altre, che di fronte al bivio "auto preservazione" o "interculturalità" lasciano pochi dubbi su quale sia bene intraprendere per il bene dell'Italia di oggi e di domani. Annalisa Di Palo

L'Italia ha il 5% del patrimonio Unesco mondiale: eppure gli archeologi fanno la fame

I luoghi archeologici italiani – tra siti, monumenti e musei – sono più di 2.500. Il flusso di visitatori generato ogni anno è di oltre 15 milioni di persone. Su 911 siti tutelati dall’Unesco in tutto il mondo, ben 44 – il 5 per cento – sono italiani. Nessun altro paese ne ha così tanti: lo dice l'Indagine sullo stato di manutenzione dei siti archeologici svolta due anni fa da Cristina Zuccheretti e Valeria Chiarotti per la Corte dei conti.Eppure in Italia gli archeologi attivi sono solo 5mila. Faticano a trovare lavoro, quando lo trovano di solito si tratta di un inquadramento precario e sottopagato. Sempre più spesso abbandonano la professione per esasperazione o per bisogno di un reddito più sicuro, o per tutte e due le motivazioni.Sabato pomeriggio un drappello di archeologi ha fatto un flash mob a Castel Sant’Angelo, dove hanno sede il Museo Nazionale di Castel Sant'Angelo e la Soprintendenza speciale per il patrimonio storico artistico ed etnoantropologico e per il Polo museale della città di Roma. Obiettivo: lanciare un messaggio al neo-sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni, che nei giorni scorsi ha rilasciato dichiarazioni poco rassicuranti sulle prospettive occupazionali del comparto: «In questo contesto è assolutamente impossibile che lo stato abbia risorse sufficienti per ampliare l’offerta culturale senza ricorrere anche al sostegno dei volontari».La questione è spinosa. Le persone che prestano gratuitamente il proprio servizio come atto di volontariato sono preziose per tantissime attività, specialmente quelle culturali e di assistenza sociale che possono contare su fondi statali molto scarsi. Ma il problema salta subito all’occhio: confondere professionisti e volontari è pericolosissimo. Infatti durante il flash mob, promosso dalla Confederazione italiana archeologi, i partecipanti tenevano in mano un cartoncino colorato con su scritto il proprio nome e la frase «Volontario a chi?». «In Italia sono attivi ventotto corsi di laurea specialistica in Archeologia, quindici scuole di specializzazione post lauream e diverse scuole di dottorato» spiega alla Repubblica degli Stagisti Salvo Barrano, presidente dell'Associazione nazionale archeologi: «Fino al 2005 si laureavano più o meno 3mila studenti all'anno. Ora la situazione è sicuramente diversa: secondo i nostri calcoli dovremmo essere scesi a 1500-2mila, ma non esistono indagini recenti». Del resto le prospettive occupazionali sono sconfortanti: «Negli ultimi anni molti archeologi hanno abbandonato la professione», sostiene Barrano, «a causa delle cattive condizioni di lavoro e della crisi economica, che ha avuto forti ripercussioni sul settore dell'edilizia, cui la professione è in parte legata». Il Mibac ha recentemente dato un segno positivo assumendo 30 archeologi - e con questo portando a 350 l'organico interno dei funzionari archeologi - ma il problema è strutturale. Gli archeologi servirebbero certamente all'interno degli uffici tecnici degli enti territoriali, dei musei locali e civici: «Ma tutte queste strutture spesso non sono in grado di assicurare lavoro con continuità» nota Barrano. Secondo i dati del II° censimento nazionale condotto dall'Ana, infatti, gli archeologi assunti nella pubblica amministrazione sono soltanto il 6%; quelli assunti nel settore privato con contratti di tipo subordinato privato l'8%. Per la maggior parte gli archeologi lavorano con tipologie contrattuali autonome, paraautonome o parasubordinate (74%). Più in dettaglio, oltre un quarto lavora a partita Iva, uno su cinque con contratto a progetto, poco più di uno su sei con contratti di collaborazione occasionale mentre il 9% del campione intervistato è titolare di una società. Rimane un 5% che non lavora. Dati deprimenti anche per quanto riguarda le retribuzioni. Il 72% degli archeologi italiani guadagna meno di 20mila euro lordi all'anno, e di questi solo il 10% riesce a guadagnare tra i 15mila e 20mila, mentre  il resto sta sotto i 15mila. 20mila euro lordi vuol dire grossomodo mille euro netti in tasca al mese. 15mila vuol dire 750 al mese. Il reddito di un archeologo. In Italia. Che ha il 5% del patrimonio mondiale Unesco. 2.500 siti archeologici. La culla della cultura, dell'arte, dell'archeologia. 750 euro al mese. «Esiste però un piccolo segmento dei professionisti, un 6%, che sono quelli più affermati, che riesce a stare sopra i 25mila euro lordi all'anno» aggiunge Barrano. E meno male.In questa situazione, le dichiarazioni della Borletti Buitoni sono pesate come macigni. Perché il rischio che i volontari vengano utilizzati dalle realtà museali e archeologiche per sostituire normali dipendenti è dietro l'angolo. E bisogna agire con grandissima attenzione perché i volontari non siano percepiti come "ladri di lavoro" non solo per gli archeologi ma anche per gli storici dell'arte, restauratori e tutti i professionisti di questo ramo. «Il contributo dei volontari per iniziative straordinarie, come l'apertura dei musei e dei siti in occasioni particolari, è un fatto positivo e i volontari vanno ringraziati per la loro generosità: mettono al servizio degli altri tempo e passione» ammette Barrano. A patto però che ai volontari vengano affidate «mansioni comuni, che non presuppongono alte qualificazioni. Quello che temiamo è che le parole del sottosegretario Borletti Buitoni inaugurino la pratica di ricorrere ai volontari in via ordinaria, per sopperire alle carenze di personale. Insomma che i volontari diventino le toppe per nascondere i buchi nella macchina dello Stato». Non certo una prospettiva fantascientifica, nel Paese che ha il 5% del patrimonio Unesco eccetera eccetera ma anche ministri che soavemente dichiarano che «con la cultura non si mangia». Non è il caso della Borletti, certo. Ma ora al ministero la signora della Milano bene, già presidente del Fai, riveste un ruolo chiave, e le sue parole non vengono prese alla leggera dal presidente dell'Ana: «Sarebbe ancor più grave se lo Stato decidesse di estendere questa pratica alle mansioni più qualificate legate ai beni culturali, come il restauro di un bene o lo scavo di un sito. In questo modo si rischia di esporre il nostro patrimonio al dilettantismo e all'improvvisazione di chi non ha competenze e qualificazione, mortificando al contempo la professionalità di migliaia di giovani che hanno investito in una formazione specifica». Insomma, gira e rigira il problema è lì: «Non si può correre il rischio di mettere in concorrenza il volontario con il professionista. Quindi chiediamo al sottosegretario o al ministro di chiarire la posizione in merito al rapporto tra volontariato e professionismo».E dal punto di vista degli archeologi, come dovrebbe essere regolato il rapporto tra lavoratori qualificati, contrattualizzati e stipendiati, e i volontari negli enti museali? «Nei paesi civili i volontari sono una risorsa irrinunciabile per dare un valore aggiunto alle iniziative ma nessuno può pensare di sostituire i professionisti con i volontari, in particolar modo per le attività che necessitano di qualificazione. Altrimenti sarebbe una becera forma di concorrenza sleale tra prestazione gratuita non qualificata e prestazione retribuita qualificata» spiega Barrano: «In parole povere, chi si farebbe fare un'otturazione a un dente da un volontario della domenica? Il patrimonio culturale del nostro paese è una cosa seria, è la nostra storia, è la nostra più grande ricchezza, come sancisce la nostra Costituzione. Chi è chiamato a prendersene cura» - qui Barrano si  riferisce alla tutela, al restauro, alla diagnostica, alla ricerca e allo scavo - «deve essere dotato di adeguata professionalità. Sarebbe davvero irresponsabile da parte dei policy makers approfittare dell'assenza - scandalosa - di riconoscimento giuridico di questi professionisti per "risparmiare" sulla pelle del nostro patrimonio culturale e dei professionisti che se ne prendono cura».Insomma. Gli archeologi attivi in Italia sono solo 5mila. Abitano in un Paese che ha una fetta enorme del patrimonio tutelato dall'Unesco, dove sorgono ben 2.500 siti archeologici, con una media di oltre 100 a Regione. Eppure non trovano lavoro. Quando lo trovano, nella maggior parte dei casi guadagnano pochi spiccioli - meno di mille euro al mese. E alle alte sfere del ministero dei Beni culturali, ministero tragicamente senza portafogli, si pensa al volontariato come panacea per riuscire a tenere aperti musei e monumenti senza avere bisogno di assumere e pagare chi ha studiato e acquisito professionalità specifiche. Nel frattempo basta fare un viaggio all'estero per sentirsi piccini picciò. A parte quel che riescono a fare in Francia in termini di fatturato turistico per lo Stato e di indotto su ciascun loro bene culturale. Perfino negli Stati Uniti, dove - siti pellerossa a parte - la cosa più vecchia che hanno risale al Seicento (mille-e-seicento), su qualsiasi luogo di minimo interesse storico-culturale vi è un'attività di cura, promozione e attrazione turistica che noi ci sogniamo. I nostri 5mila archeologi, preferiamo mortificarli a 750 euro al mese e prospettare musei e siti pieni di volontari.Eleonora Voltolina

Aspiranti avvocati: sfruttati dagli studi legali, beffati dalla riforma forense

La Costituzione sancisce il diritto di ogni lavoratore a una retribuzione «sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa». Eppure milioni di giovani laureati in Italia lavorano gratis, o per stipendi miseri, e per sopravvivere devono appoggiarsi alle famiglie fino a un'età in cui dovrebbero e vorrebbero essere pienamente adulti e autonomi. Dalla piaga dello sfruttamento non scampa nessuno, come ha raccontato Eleonora Voltolina nel libro Se potessi avere mille euro al mese: dall'architetto costretto ad aprire la partita Iva pur avendo un solo committente al medico che prima di entrare in specializzazione lavora per anni gratuitamente. Oggi la Repubblica degli Stagisti inizia un viaggio nel pianeta delle professioni sottopagate. Prima tappa: i praticanti avvocati. Per la maggior parte di loro un’ora di lavoro vale poco più di un caffè: 1,15 euro. Il dato è solo una dei tanti che si possono estrarre dalle Tabelle sulla situazione pratica forense 2013, frutto di una ricerca “dal basso” svolta da un gruppo di praticanti di Genova sulla base delle risposte di 1.235 colleghi in tutta Italia. Si tratta di un sondaggio effettuato su un campione ridotto e quindi da valutare con cautela, ma la situazione descritta rende bene la drammaticità della condizione in cui vivono gli aspiranti avvocati italiani. Il dato più vistoso riguarda la retribuzione mensile, che è totalmente assente per il 57% degli intervistati e inferiore ai 150 euro nel 5% dei casi. Un quarto del campione, poi, percepisce tra i 150 e i 500 euro. Solo meno di uno su dieci va oltre i 500 euro. Ma non è solo il compenso a lasciare l’amaro in bocca: quasi la metà di chi ha partecipato alla ricerca ritiene “scarse” le prospettive di carriera nella struttura in cui ha cominciato a lavorare, e uno su cinque le considera addirittura nulle.Dato un quadro così desolante, cosa ha spinto i 32.421 giovani iscritti alla sessione 2011/2012 degli esami di Stato a intraprendere questa strada? Semplice: non hanno altra scelta. Lo svolgimento della pratica forense è obbligatoria per accedere all'esame e poter diventare avvocati. A quasi 80 anni dal regio decreto del 1933, la norma che regolamenta la materia è stata modificata pochi mesi fa con la legge 247/2012. Dopo un iter di due anni, la “Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense” è stata approvata in via definitiva dal Senato il 21 dicembre, proprio agli sgoccioli della scorsa legislatura. Numerose le novità sul fronte dell'accesso alla professione: innanzitutto, la durata della pratica è ridotta da 24 a 18 mesi, come espressamente previsto dal decreto liberalizzazioni (convertito nella legge 27/2012). Inoltre ai praticanti è consentito svolgere, oltre al tirocinio, anche un’attività di lavoro subordinato, ovviamente in assenza di conflitti di interessi o di orari rispetto al praticantato. Ma le buone notizie finiscono qui: la legge 247/2012 ha infatti accuratamente evitato di recepire l'art. 9 del decreto liberalizzazioni, che al comma 4 afferma: «Al tirocinante è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei mesi di tirocinio».Ecco invece cosa stabilisce la nuova riforma forense in uno dei suoi passaggi più controversi, il comma 11 dell’articolo 41: «Negli studi legali privati, al praticante avvocato è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio presso il quale svolge il tirocinio». Ma la determinazione delle spese è quanto di più aleatorio possa esistere: cosa comprende? Le spese di benzina? L'abbonamento ai mezzi pubblici? Il pranzo? E perché mai lo stesso sacrosanto principio non vale invece per che svolge la pratica negli enti pubblici? Se dal rimborso spese si passa alla voce compenso, la riforma forense ha addirittura il sapore della beffa per i giovani aspiranti avvocati: «Ad eccezione che negli enti pubblici e presso l'Avvocatura dello Stato, decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un'indennità o un compenso per l'attività svolta per conto dello studio, commisurati all'effettivo apporto professionale dato nell'esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell'utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato. Gli enti pubblici e l'Avvocatura dello Stato riconoscono al praticante avvocato un rimborso per l'attività svolta, ove previsto dai rispettivi ordinamenti e comunque nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente». Addirittura sembrerebbe che per i primi sei mesi la nuova legge vieti di pagare i praticanti. Questa interpretazione è stata confermata dall'ex ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione Filippo Patroni Griffi in risposta a un'interrogazione parlamentare: «La norma rinvia la determinazione dell'importo del rimborso per l'attività svolta dal tirocinante al libero accordo delle parti, che non può comunque essere erogato nei primi sei mesi di tirocinio». Dunque: primi sei mesi gratis per legge, mentre per i mesi restanti la riforma forense non istituisce alcun obbligo di compenso, diversamente da quanto affermato dal decreto liberalizzazioni. La decisione è affidata alla magnanimità del singolo avvocato, come già avveniva prima della riforma forense, sebbene il Codice deontologico avesse sancito fin dal 1997 che ciascun professionista dovesse «fornire al praticante un adeguato ambiente di lavoro, riconoscendo allo stesso, dopo un periodo iniziale, un compenso proporzionato all’apporto professionale ricevuto». Ma quanto dura il periodo iniziale? E chi stabilisce quale sia il compenso proporzionato? La formulazione era sufficientemente ambigua da consentire agli studi privati e anche agli uffici legali degli enti pubblici di tutta Italia di ignorare il principio espresso dal Codice deontologico senza troppi scrupoli.Per fortuna non tutti gli articoli della nuova legge sono entrati in vigore con decorrenza immediata (cioè il 2 febbraio 2013, 15 giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale), poiché necessitano di ulteriori provvedimenti in seguito al conferimento delle deleghe in capo al governo. Riguardo al tirocinio, per ora è valido solo il termine della durata a 18 mesi mentre tutte le altre disposizioni, inclusa quella sull'indennità, necessitano di interventi legislativi ad hoc.Poiché la norma sul compenso dei praticanti non è ancora in vigore, c'è speranza che qualcosa cambi? Qualche spiraglio di luce viene dal ddl appena presentato dalla venticinquenne deputata del Pd Anna Ascani insieme a una decina di giovani parlamentari. Il testo propone una modifica della legge 247/2012 che renda facoltativa per i primi sei mesi e obbligatoria per i restanti dodici la retribuzione dei praticanti. «L'ufficio legislativo del gruppo Pd ha avviato le procedure per la presentazione, ora verranno registrate le altre eventuali adesioni e poi si procederà con la presentazione definitiva», spiega la neodeputata. Ci sono speranze di successo? «L'iter legislativo della riforma forense ha dimostrato che l'introduzione di un compenso obbligatorio per i praticanti incontra forti resistenze, più che politiche, direi corporative e generazionali. Corporative perché il Senato che ha approvato questa legge era costituito per un sesto da avvocati: una vera e propria lobby arroccata in difesa dei propri privilegi. Generazionali perché molti parlamentari, se pur non contrari all'obbligatorietà del compenso, hanno pensato che la questione non fosse poi così rilevante. “In fondo, la gavetta l'abbiamo fatta tutti”, era l'idea più diffusa. Molti politici sono assolutamente insensibili alle richieste di una generazione di giovani preparati, sottopagati e privi di prospettive per il loro futuro. La gavetta siamo disposti a farla tutti, se crediamo che nel giro di qualche anno ci porterà a cogliere i frutti dei nostri studi e dei nostri sacrifici. Ma per i ventenni-trentenni italiani oggi non è così: secondo la Cassa nazionale forense il reddito professionale di un avvocato a inizio carriera, dopo il superamento dell'esame, è di 10mila euro all’anno, 800 al mese. Confido nel fatto che il nuovo Parlamento, il più giovane della storia repubblicana, dimostri più sensibilità rispetto a questi temi».Anche fuori dalle aule parlamentari c'è chi si sta muovendo a difesa dei giovani praticanti. Per esempio attraverso la campagna “Con il contratto”, promossa da Filcams Cgil, Nidil Cgil, Giovani NON+ disposti a tutto, insieme ad alcune associazioni di giovani professionisti. Una campagna rivolta a praticanti, tirocinanti, collaboratori a partita Iva e a progetto degli studi professionali per stimolare la loro partecipazione per la costruzione della contrattazione. «Abbiamo stilato un decalogo, dieci regole di civiltà per la vita dei giovani professionisti», spiega Ilaria Lani, 35 anni, responsabile dell'area politiche giovanili della Cgil. «Chiediamo che il praticantato possa essere svolto con un contratto di apprendistato del 3° tipo e che alcuni diritti minimi debbano essere garantiti a tutti, indipendentemente dalla forma contrattuale. Vogliamo un compenso iniziale di almeno 500 euro che aumenti nel tempo, la garanzia di un'effettiva formazione, la tutela della maternità e della malattia e l'obbligo di un contratto scritto per tutti, compresi praticanti e partite Iva». Ma, si chiedono i più scoraggiati, tutte queste campagne serviranno poi a qualcosa? Un piccolo segnale di speranza viene dalla vicenda dei praticantati legali svolti presso l'Inps. Grazie a una giovane agguerrita, Francesca Esposito, che nel 2010 ha denunciato sulla Repubblica degli Stagisti la totale assenza di un compenso per gli aspiranti avvocati all'interno dell'ente previdenziale, la vicenda è approdata in Parlamento, dove il deputato di Futuro e libertà Enzo Raisi ha posto un'interrogazione a risposta diretta all'allora ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. Il quale ha risposto che l'Inps ha bisogno dei praticanti perché ha tante cause da smaltire ma non ha fondi per pagarli. Un'ammissione imbarazzante che ha costretto il direttore delle risorse umane dell'ente pubblico Ciro Toma, incalzato nel corso di un'intervista a SkyTg24 nel maggio 2012, a promettere un cambio di rotta. Com'è andata a finire? Nel bando per 266 praticanti avvocati presso l'ente previdenziale, pubblicato a luglio 2012, per la prima volta l'Inps ha previsto una “borsa di studio” di 450 euro mensili. Una storia che fa riflettere, perché dimostra che se ognuno fa la sua parte - diretti interessati, politica, sindacati, stampa - anche in Italia le storture si possono raddrizzare. Anna Guida