Redditi a picco e niente welfare: giovani avvocati, “schiavi della partita Iva”
In Italia è boom di avvocati: sono ben 247mila, circa il doppio dei colleghi francesi, e continuano a crescere al ritmo di 14mila nuovi ingressi annuali. La professione esercita ancora un forte appeal tra le nuove generazioni, sebbene il mito del “principe del foro” sia ormai oscurato dalla triste verità dei numeri. I dati della Cassa forense parlano chiaro: se per il 2011 il reddito medio della categoria è di 47mila euro l’anno, i professionisti under 29 non raggiungono i 14mila, quelli nella fascia 30-34 anni si fermano a 20mila, mentre i 60-64enni toccano quota 92mila. E questi numeri non tengono in considerazione la fascia più povera della categoria, quei circa 60mila avvocati che nel 2011 risultavano iscritti all’Albo ma non alla Cassa forense perché il loro reddito era inferiore alla soglia minima di 10.300 euro. Non è difficile immaginare che si tratti soprattutto di nuove leve. La forbice reddituale che coinvolge le diverse generazioni di legali italiani è ben superiore a quella - già molto significativa - evidenziata dall'Adepp (Associazione degli enti previdenziali privati) per tutti gli iscritti alle casse private: il reddito medio dei professionisti italiani under 40 risulta inferiore del 48,4% rispetto a quello degli over 40. Avvocati e architetti, sottolinea l'Adepp, le due categorie più colpite da questa tendenza alla polarizzazione.«Il percorso professionale dei giovani che si affacciano alla carriera forense è divenuto negli ultimi anni particolarmente difficile», ammette Paolo Giuggioli, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano. «Le ragioni sono variegate. Senza dubbio è un fenomeno ampio che, per via della crisi che ormai da oltre un quinquennio condiziona pesantemente lo sviluppo del nostro Paese, riguarda non solo questo settore professionale ma tutte le attività economiche. Tuttavia, rispetto ad altre categorie, l’avvocatura sta pagando il prezzo di un lungo periodo nel quale il numero degli iscritti è cresciuto enormemente. Dal 2000 ad oggi sono più che raddoppiati. Solo l’Ordine di Milano conta quasi 17.500 avvocati, mentre allora erano 8.300. Purtroppo non si può registrare un corrispondente innalzamento del reddito complessivamente prodotto». Come dire: i commensali raddoppiano, ma la torta da spartire rimane grosso modo la stessa.Ancora una volta, a rimanere a bocca asciutta sono soprattutto i giovani. Giovanissimi, poi, molti di loro non lo sono più. Se fino a qualche anno fa la piaga del lavoro sottopagato coinvolgeva principalmente i praticanti e i ragazzi in attesa di abilitarsi, oggi l’asticella della miseria si è spostata sempre più su fino a raggiungere anche coloro che hanno 10 o 15 anni di esperienza. Perché l'amara gavetta legale non finisce con l'agognata firma del dominus sul certificato di compiuta pratica. Come racconta Krizia, 26 anni, tra i promotori della ricerca sul praticantato i cui desolanti risultati sono stati ripresi da Articolo 36 qualche settimana fa: «Dopo quella firma inizia un periodo di limbo che, per i più fortunati, dura circa un anno: è il tempo che intercorre tra la fine della pratica e l'esame orale dell'esame di Stato, per chi lo passa subito. Io sto ancora aspettando l’esito dello scritto di dicembre; se tutto va bene, sosterrò l’orale in autunno. In caso contrario, il mio “purgatorio” durerà almeno un altro anno». Come vivono gli aspiranti avvocati in questo periodo in cui non sono più praticanti ma non sono ancora abilitati? «Molti restano nello studio in cui hanno svolto la pratica e percepiscono lo stesso “stipendio” di prima. Nel mio caso, 300 euro al mese. Ma sono fortunata: ho persino ottenuto due settimane di “pausa” pre-esame, ovviamente non retribuite», spiega Krizia. «A me non è stato concesso», racconta ad Articolo 36 Francesco, 26 anni, anche lui tra i promotori della ricerca. «Allora ho deciso di “licenziarmi” e dopo lo scritto di dicembre sono approdato in uno studio piuttosto grande, dove lavoro 10 ore al giorno e non ricevo nessun compenso. Ma sono abbastanza contento perché qui ho l’impressione di imparare il mestiere, mentre prima svolgevo quasi solo lavoro di segreteria».Forse allora sarà l’abilitazione il momento in cui si potrà finalmente “cambiare musica”? «Purtroppo no! Nel mio studio lavorano anche giovani abilitati e la loro situazione non è molto migliore. Guadagnano 800 o mille euro, i loro compensi crescono molto lentamente. A 33 anni portare a casa 1.200 euro, a fronte di 12 ore di impegno al giorno a ritmi piuttosto stressanti, non è una grande vittoria. Anche perché si lavora a partita Iva e da questa somma vanno tolti i contributi alla Cassa forense, le tasse, la polizza professionale, le spese del commercialista, i costi per l’aggiornamento professionale», risponde Francesco. E la situazione è destinata a peggiorare per gli avvocati a bassissimo reddito: la riforma forense approvata a dicembre 2012 e in vigore da febbraio ha posto come obbligatoria l'iscrizione alla cassa di categoria per tutti gli avvocati, indipendentemente da quanto guadagnano. Pena: la cancellazione dall'Albo. L'articolo 21 della legge ha affidato alla Cassa Forense il compito di emanare entro un anno un regolamento che determini i contributi dovuti per i circa 60mila avvocati con reddito inferiore ai parametri "minimi". Allo studio della commissione creata ad hoc ci sono diverse ipotesi, da quella di prevedere il versamento posticipato dei contributi a quella di tenere il minimo contributivo sotto i mille euro, fino alla previsione di un regime di esenzione per i primi anni di attività. Certo è che se le misure non saranno "morbide" e realmente proporzionate ai redditi, migliaia di avvocati rischieranno di uscire dall'Albo. La tipologia di avvocato a partita Iva ma di fatto alle "dipendenze" di un dominus, resa famosa qualche anno fa dal libro Studio illegale, è la più diffusa tra i giovani legali italiani. Ottenuta l’abilitazione, ogni neoprofessionista si trova davanti a una scelta: rimanere nello studio di un avvocato più esperto e già avviato, aprirne uno proprio, associarsi con altri colleghi. Ma la concorrenza è agguerrita, i clienti sono sempre meno, i costi di gestione sono notevoli. Dunque per la maggioranza di loro la scelta è obbligata: aprire partita Iva e fornire la propria collaborazione a uno studio, coordinandosi con il dominus, spesso in regime di monocommittenza. Sono liberi professionisti “meno liberi” degli altri: formalmente autonomi, devono rispettare procedure, formalità e policy nel rapporto con clienti, devono concordare con il titolare le ferie, che spesso non sono retribuite. «Questa categoria vive in una vera e propria “terra di nessuno” priva di qualsiasi garanzia: non sono pochi i casi di avvocati 35enni o 40enni licenziati dalla sera alla mattina senza alcun paracadute, Tfr o ammortizzatore sociale», ha denunciato qualche mese fa sulla Repubblica degli Stagisti Dario Greco, presidente dell’Aiga, l’associazione dei giovani avvocati. Ma l’Ordine non li tutela in nessun modo? «L’Ordine è attento alla questione disciplinare in merito agli abusi che possono verificarsi nei confronti di giovani avvocati che prestano la propria attività professionale come collaboratori di studi legali», spiega Giuggioli. «Tuttavia è essenziale la segnalazione di tali circostanze affinché risulti possibile un’efficace iniziativa da parte nostra».Tuttavia nel mondo legale evitare gli abusi è più difficile che altrove perché qui le partite Iva non sono mai considerate “false” e non possono essere trasformate in rapporto di lavoro dipendente. Perché per l'ordinamento italiano l'avvocato non può essere un lavoratore subordinato. «Un'assunzione – ha più volte spiegato l’Oua, Organismo unitario avvocatura italiana – è del tutto incompatibile con l'indipendenza della libera professione legale, proprio a garanzia della clientela». Eppure in Francia, Spagna, Gran Bretagna e Germania, negli studi medio-grandi, l'inquadramento contrattuale degli avvocati è una modalità di esercizio consentita e ben regolamentata. In Italia invece la riforma forense – la legge 247/2012 approvata a dicembre - ha trascurato del tutto questo aspetto. E la riforma Fornero ha volutamente escluso dalla cosiddetta “stretta sulle false partite Iva” tutte le professioni ordinistiche. Tutto regolare, dunque, se per un giovane avvocato il rapporto con lo studio legale in cui lavora da anni si interrompe dall'oggi al domani, per mancanza di clienti, per parcelle non pagate o, semplicemente, per una gravidanza. «Ho visto parecchie donne mandate via dagli studi dopo il parto semplicemente perché volevano allentare un po' i ritmi di lavoro nei primi mesi», racconta Francesco. «Ne ho visto altre andare in udienza il venerdì, partorire la domenica, tornare in tribunale il mercoledì. Non si fermano mai per paura di perdere il lavoro». È perfettamente legale, perché la natura del lavoro autonomo ha portato il legislatore a non prevedere per la maternità l’astensione obbligatoria. Le libere professioniste possono continuare a lavorare e, contemporaneamente, percepire dalla Cassa forense l’indennità di maternità: l’80% del reddito netto professionale mensile prodotto ai fini Irpef nel secondo anno antecedente il parto, per cinque mesi. Certamente molte donne avvocato considerano positivamente questo trattamento, ma non mancano i segnali d'allarme: stando ai dati forniti dalla Cassa forense, la fascia d’età in cui le gravidanze sono più numerose è quella tra i 35 e i 39 anni. Le donne rimandano la maternità per molto tempo, complici la paura di perdere la propria scrivania e la preoccupazione legata a un reddito insufficiente. Anche perché le statistiche ci consegnano l’immagine di un’avvocatura in rosa sempre più numerosa ma decisamente più povera: nella fascia d’età 35-39 anni un uomo guadagna in media 35mila euro, mentre la sua collega donna 21mila, con un divario del 40%. I dati dunque evidenziano che l'avvocatura italiana è sempre più ricca di giovani e di donne, ma non sembra né culturalmente pronta né attrezzata – a partire dagli strumenti di welfare – per accoglierli e dare loro opportunità di crescita. «La professione forense si sta progressivamente ringiovanendo e femminilizzando, una trasformazione che non possiamo ignorare», conferma il presidente della Cassa forense Alberto Bagnoli. Che, a margine dell'VIII Congresso giuridico-forense per l'aggiornamento professionale, ha annunciato i suoi propositi per rendere l'avvocatura un mondo meno ostile alle nuove generazioni: «Dobbiamo creare nuovi interventi di natura assistenziale, investire nella formazione dei giovani professionisti e agevolare il loro ingresso nel mondo del lavoro. Si tratta di interventi che vanno nell'ottica di costruire un welfare avanzato che non sia solo previdenza ma anche assistenza». In concreto? La Cassa forense ha messo a disposizione 50 milioni di euro da investire nel 2013 in misure assistenziali, in particolare per le fasce più deboli della categoria: interventi di microcredito a favore dei giovani iscritti, bonus bebè, ulteriori forme assicurative, benefit per intraprendere la professione in modo autonomo. Nella stessa direzione va anche l’Ordine di Milano, come spiega ad Articolo 36 il presidente Giuggioli: «Abbiamo ritenuto importante attivare convenzioni con istituti bancari e confidi per mettere a disposizione dei nostri iscritti vari strumenti finanziari a condizioni agevolate, eventualmente sorretti da garanzie collettive, diretti a facilitare l’avvio di nuovi studi professionali o a consentire anticipazioni su parcelle relative a prestazioni professionali nell’ambito del patrocinio a spese dello Stato, che scontano i tempi lunghissimi con cui la Pubblica Amministrazione salda i propri debiti». Tutti interventi lodevoli, ma destinati a incentivare e supportare i giovani che vogliano intraprendere la professione in modo realmente libero e autonomo, in un mercato peraltro sempre più saturo. Restano tagliati fuori, ancora una volta, i cosiddetti “schiavi della partita Iva”, sul cui lavoro sottopagato si basa il volume d’affari milionario di moltissimi studi, piccoli e grandi, in tutta Italia.Anna Guida