Morire di non lavoro, quando la crisi porta al suicidio

Marco Panzarella

Marco Panzarella

Scritto il 15 Ago 2014 in Articolo 36

Di non lavoro ci si può ammalare, perfino morire. E il suicidio, in certi casi, diventa la scelta estrema di chi non ce la fa più. Colpa della crisi economica, che ha impatti devastanti sulla salute psico-fisica delle persone, alcune delle quali si ritrovano all'improvviso senza un impiego, in un’età in cui è quasi impossibile rimettersi in gioco. In "Morire di non lavoro", pubblicato nel 2013 dalla casa editrice Ediesse, la giornalista Elena Marisol Brandolini, già sindacalista Cgil e dirigente nella pubblica amministrazione, si rivolge soprattutto a loro, il popolo dei cinquantenni che hanno perso il lavoro: non più così giovani da reinventare un mestiere, ma neppure così vicini alla pensione. E, vista l'età, spesso senza neppure l'appoggio della famiglia, che invece resta un porto sicuro per i ragazzi. Attraverso la tecnica del focus group, l'autrice esplora gli effetti della congiuntura economica in Italia e Spagna, in particolare la Catalogna, tra i paesi europei più colpiti dalla crisi.
«Ho cercato di raccontare quello che vedevo intorno a me, nei due paesi in cui vivo e che conosco. L'intento non era dare risposte, ma far conoscere delle storie». Storie di donne e uomini che si ritrovano senza un'occupazione e quindi senza reddito. Disperati, combattono con tutte le loro forze e provano a resistere. Alcuni non ce la fanno, e quando il peso dell'umiliazione diventa 
insostenibile, decidono di farla finita. «I suicidi sono un fenomeno soprattutto italiano, localizzato nelle regioni del nord. A togliersi la vita sono perlopiù gli uomini, mentre le donne disoccupate tornano, seppur malvolentieri, al loro ruolo tradizionale di casalinghe. In Spagna, e lo stesso vale per il sud Italia e per gli immigrati, la memoria della povertà è più vicina, e la capacità di adattamento è maggiore. Ciò non toglie che la tendenza sia comunque in aumento: basti pensare che tra il 2011 e il 2012, nella sola Barcellona, si è registrato un aumento dei suicidi del 58%».

Sono pochi i giovani che decidono di togliersi la vita, ma la loro esistenza è piena d’incertezze; ragionano senza programmare il futuro, vivono un eterno presente, annaspando alla ricerca di un appiglio sicuro, senza avere neppure il tempo di pensare al cambiamento. Sia gli italiani che gli spagnoli, quando perdono il lavoro, provano un forte senso di disagio e vergogna sociale, accentuato se l'età è vicina ai 50 anni. Ma la Spagna è meno depressa del nostro Paese: l'organizzazione democratica prevede una partecipazione territoriale costruita dal basso e questo, in qualche modo, tampona il dispiacere. In entrambi i paesi il ruolo della famiglia risulta fondamentale. «Esistono casi in cui, sotto lo stesso tetto, si sono ritrovate a vivere tre generazioni: il papà che perde il lavoro e torna, insieme a moglie e figli, dai genitori anziani».
«Pur non essenso la perdita del lavoro la causa unica di un raptus suicida» spiega Vincenzo Rubino, psicoterapeuta sistemico-relazionale «in determinati tipi di personalità può risultare un fattore scatenante non indifferente. Rimanere senza un impiego è un trauma significativo, che distrugge le basi sulle quali si era costruita la propria quotidianità; ed è in questi casi che vengono fuori i lati più fragili del carattere. Il suicidio altro non è che un meccanismo di fuga estremo, che evita al soggetto di affrontare la realtà del momento. È necessario agire in tempo con un lavoro di rete sull'individuo e sulla sua famiglia; ciò solitamente avviene con l'attivazione dei servizi sociali».
L'autrice non dà risposte, ma individua le cause del malessere. «La colpa di questa crisi è da attribuire alle scelte degli governi e dell'Unione europea, che hanno speso fiumi di parole sullo spread dando poca importanza al disagio sociale, che intanto cresceva sotto i loro occhi. Mentre in Italia chiudevano le aziende e gli imprenditori si ammazzavano, in Spagna si assisteva all'aumento degli sfratti, con alcuni casi di persone disperate che si lanciavano dalla finestra. La politica è rimasta immobile, incapace di proporre contromisure adeguate. Sono state applicate ricette neo-liberiste che hanno favorito i poteri forti come le banche, mentre le persone sono state abbandonate al loro destino. Basti pensare che nel momento di maggiore emergenza, i governi di Italia e Spagna hanno tagliato la spesa sul sociale». Per uscire dall'impasse, bisogna prima di tutto puntare con decisione sull'occupazione, proponendo contratti meno precari e riformando il sistema previdenziale. «La mia generazione - conclude Marisol Brandolini - non ha vissuto la guerra, ma questa crisi non è da meno: un conflitto forse meno rumoroso, che però sta generando povertà e disperazione».

 


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