Chiara Del Priore
Scritto il 13 Feb 2018 in Notizie
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Secondo il Global Gender Gap Report redatto dal World Economic Forum, nel 2017 l’Italia è scivolata dalla 50esima all’82esima posizione relativamente all’indice generale di partecipazione delle donne all’economia. Dietro il nostro Paese ci sono solo Malta e Ungheria.
L'eurodeputata Alessia Mosca e le docenti universitarie Paola Profeta e Paola Subacchi si sono interrogate su cosa possa essere successo e su come sia possibile provare a cambiare concretamente le cose, e hanno deciso di lanciare un’iniziativa al quale è stato l’hashtag #MaiPiùSenza e una petizione su change.org, sottoscritta a oggi da oltre 2.300 persone, per chiedere a tutti un impegno concreto a favore della partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, della parità salariale e di un’organizzazione del lavoro basata sulla condivisione tra uomini e donne.
«L’iniziativa nasce dopo numerosi momenti di scambi di idee, in primo luogo con le altre due promotrici, Paola Profeta e Paola Subacchi, poi con le tante donne e i tanti uomini impegnati da anni nel cercare di raggiungere risultati concreti e, soprattutto, stabili in merito agli argomenti trattati nel Piano d’azione che abbiamo pubblicato su Change.org» racconta Alessia Mosca: «Da qualche anno il dibattito pubblico ha assorbito sempre più la questione della parità di genere ma, è evidente, è stato fatto troppo poco, troppo lentamente. Ci siamo interrogate su cosa sia successo e pensiamo manchi un piano organico, una visione di sistema che parta dal presupposto che ogni politica pubblica ha una dimensione e un impatto di genere. Se la si ignora, inevitabilmente si finisce per esacerbare le disuguaglianze già esistenti».
Quale è la situazione nel resto dell’Europa? «Secondo la classificazione del WEF, solo Malta e Ungheria seguono l’Italia, nell’indice generale. Per quanto questo tipo di studi varino molto a seconda degli indicatori presi in considerazione e delle metodologie di rilevamento utilizzate, il dato secondo me rimane significativo. Ovviamente i paesi scandinavi sono estremamente avanzati in termini di welfare, servizi alla famiglia e occupazione femminile, ma anche la Francia, per esempio, si sta muovendo molto su questo. Al riguardo, ci tengo a segnalare il grande lavoro svolto dall’Eige, l’agenzia europea per la Gender Equality, in particolare nella raccolta delle buone prassi, una attività che consiglio sempre di consultare e che offre importanti spunti di riflessione sulle azioni attuabili sia a livello nazionale sia a livello locale».
L’iniziativa #MaiPiùSenza tocca ovviamente diversi temi, ma uno dei più sensibili è quello del congedo parentale. Sull’astensione obbligatoria dal lavoro per i papà sono stati fatti passi in avanti in Italia, con l’aumento a partire da quest’anno da due a quattro giorni obbligatori più uno facoltativo: «Si tratta di un tema centrale perché tocca diversi punti importanti: lo squilibrio nella suddivisione dei lavori di cura all’interno della famiglia, la maternità vista come ostacolo alla professione invece che come suo arricchimento, gli stereotipi sui ruoli di genere ancora estremamente radicati nella nostra società» dice Mosca: «Tutto questo rappresenta un enorme ostacolo al lavoro femminile e si basa su un assunto fondamentale: le donne sono deputate a occuparsi dei figli, gli uomini a portare lo stipendio a casa. Un pensiero ancora esistente, in diverse forme e con diverse intensità, certo, nella mentalità della stragrande maggioranza degli italiani. Questo porta con sé una serie di conseguenze, a partire dalla difficoltà maggiore per le donne di accedere al mercato del lavoro che si intensifica quando si parla di avanzamento di carriera. Assumere una donna, secondo molti datori di lavoro, significa mettere in conto cinque mesi di congedo di maternità obbligatorio più, probabilmente, sei di congedo facoltativo, a cui si aggiungono i giorni di malattia presi quando si ammala il bambino, ad esempio, o il fatto che si suppone che sia la donna a correre a prendere il bambino a nuoto o a preparargli la cena, il che significa che difficilmente si fermerà sul posto di lavoro più di quanto strettamente richiesto dal contratto. È ancora largamente diffusa la convinzione che, quando si assume una persona, se ne stia acquistando il tempo. E il tempo degli uomini è, sempre e solo per ragioni culturali, molto meno vincolato di quello delle donne».
Ma dove nasce questa disuguaglianza, e perché non si riesce a sradicarla? «Questa è una domanda estremamente interessante, e non sono ancora riuscita a trovare una risposta razionale» risponde l'eurodeputata, «... forse perché non esiste. L’eliminazione delle disuguaglianze di genere è, oltre che una questione di giustizia sociale, un tema di crescita economica. Sono molti ormai gli studi che quantificano il beneficio economico di una maggiore occupazione femminile e dell’eliminazione delle barriere fondate sugli stereotipi di genere. A livello internazionale il dibattito è molto sviluppato; tuttavia si fa ancora fatica nel passare dalle parole ad azioni concrete, soprattutto nel nostro Paese. Credo che le motivazioni siano tutte culturali, profondamente radicate nella nostra mentalità, nell’organizzazione della nostra società, che ancora oggi si basa su ruoli di genere piuttosto definiti».
Per questo, se davvero si vuole incidere su questo tema e avviare un cambiamento profondo e destinato a durare, è necessario «abbandonare la logica degli interventi “spot”» dice Mosca «e comprendere la necessità di una visione sistemica, di un piano organico, che affronti il grande tema della disparità di genere da ogni prospettiva, agendo in maniera coordinata».
L'eurodeputata cita il gender mainstreaming, ossia l’inserimento di una prospettiva di genere all’interno delle politiche pubbliche, da tempo adottato nelle istituzioni europee - «anche se non ovunque con lo stesso impegno e la medesima costanza. Questa decisione tuttavia» aggiunge «si fonda sulla consapevolezza che ogni politica pubblica ha un suo impatto di genere: se si ignora questo, si finisce per perpetuare lo stato delle cose o persino per peggiorarlo, intensificando le disuguaglianze. Chiediamo che questa prospettiva venga attuata anche in Italia, a cominciare dall’implementazione sistematica, a tutti i livelli di amministrazione, del bilancio di genere».
Cosa si può fare allora? Innanzitutto iniziare a parlare di genitorialità e non solo di maternità: «Cioè affermare che entrambi i genitori hanno il diritto e il dovere di prendersi cura dei propri figli. È importante che parliamo anche di diritti perché i ragazzi che oggi hanno trent’anni sentono questa come una necessità forte. Forse per la prima volta nella storia recente. Per questa ragione, adesso è il momento di cogliere questo bisogno maschile e utilizzarlo come leva per riequilibrare i ruoli e il tempo dedicato al lavoro retribuito e non retribuito, fino a questo momento completamente sbilanciato a danno delle donne».
Per maturare un approccio del genere è però necessario che le aziende si impegnino per essere più flessibili nel rapporto con i dipendenti: «Per conciliare le esigenze dei lavoratori con quelle delle aziende la parola chiave è flessibilità: per questo nel nostro piano proponiamo un mese di congedo obbligatorio da fruirsi, previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore, entro il primo anno di vita del bambino. Contemporaneamente proponiamo anche una flessibilizzazione del congedo di maternità, che resta sempre di cinque mesi ma ne lega solo tre al momento del parto, permettendo alle donne di usufruire degli altri due in momenti diversi, anche spezzandoli in settimane. In modo da avere la possibilità, se si vuole, di rientrare prima a lavoro e di poter avere uno strumento da utilizzare in momenti di necessità, che non necessariamente capitano nei primi mesi di vita del bambino».
Al momento un dato positivo è stata la grande mobilitazione di associazioni e cittadini a favore di questa iniziativa. «La grande ambizione è però arrivare a tutti gli altri» sottolinea Mosca: «Far capire che si tratta di un argomento che riguarda tutti, una battaglia per la quale tutti dovremmo spenderci. Cerchiamo di insistere molto sul fatto che non si tratta di una “cosa da donne, per le donne”, ma di una preoccupazione di tutti per una società migliore.
Il prossimo step sarà coinvolgere i candidati alle prossime elezioni, a tutti i livelli. Per poterlo fare sarà fondamentale la partecipazione delle donne e degli uomini: contattando i candidati del proprio collegio sui social, via email, per proporre loro l’iniziativa e sollecitare l’adesione, ad esempio. Oppure organizzando incontri sui territori per discutere delle proposte avanzate e, magari, metterne sul tavolo di nuove. Mancano poco più di venti giorni al voto e, ancora oggi, questo tema rimane il grande assente del dibattito elettorale, mentre persino a Davos è stato uno dei protagonisti. Abbiamo ancora una lunga strada da fare, in Italia, sul fronte dell’inclusione delle donne nell’economia e questa è l’occasione per cominciare la marcia, insieme».
Chiara Del Priore
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