Cresce la disoccupazione giovanile europea. Scarpetta, dirigente Ocse: «necessari più sussidi per i precari»

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 03 Feb 2012 in Approfondimenti

Investire nella formazione, ridurre le differenze legislative tra le varie tipologie di contratto, potenziare i servizi pubblici per l’impiego. È questa la ricetta anti-disoccupazione dei giovani italiani presentata la settimana scorsa da Stefano Scarpetta, vicedirettore alla direzione Lavoro dell’Ocse, al seminario 'Giovani e mercato del lavoro: policies europee ed internazionali a confronto', al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro. Dalla sua analisi sull'anno appena concluso – ma anche dai dati che continuamente fornisce la cronaca – arrivano notizie che non fanno che confermare la ormai arcinota situazione dei giovani italiani (ed europei), sempre più in difficoltà a entrare e integrarsi nel mercato del lavoro. Secondo Scarpetta in Italia esistono «problemi strutturali» come il «basso tasso di occupazione, l’alta incidenza e persistenza dei Neet, una transizione scuola-lavoro spesso ‘accidentata’, primi impieghi a tempo determinato e mal pagati». È il risultato dell’impatto della crisi globale sui giovani: la disoccupazione è cresciuta di cinque punti rispetto al periodo pre-crisi arrivando a sfondare la soglia del 17%, e per Scarpetta non solo non è detto che la ripresa si verifichi a breve, ma è perfino possibile che una moderata nuova recessione impedisca all’occupazione di crescere ancora per qualche tempo. Per l'esperto, è infine ipotizzabile «un rischio cicatrice» come effetto di questa crisi, che potrebbe colpire le categorie di giovani più svantaggiate.
Dai grafici illustrati sono queste le emergenze più gravi da affrontare subito: la maggiore esposizione dei giovani al rischio disoccupazione (
nel primo trimestre 2011 il rapporto tra tasso di disoccupazione giovani/adulti è di 3,9 per i primi contro il 2,3 dei secondi), l’aumento della disoccupazione di lungo periodo (in cui per la verità l’Italia si attesta in buona posizione rispetto ad altri paesi come per esempio gli Stati Uniti), la quota dei Neet, ampliata per colpa della crisi e tale da far detenere all’Italia il triste primato con un tasso maggiore al 20% (tra i 15-29enni).
C’è poi la questione della transizione scuola lavoro, in Italia troppo lunga: ci vogliono
in media più di due anni per trovare un primo impiego a tempo determinato, e più di quattro per trovarne uno a tempo indeterminato. Ci supera solo la Spagna, mentre ad esempio nel Regno Unito serve in media un anno e mezzo per il primo lavoro e tre anni per stabilizzarsi con un tempo indeterminato.
L’Italia si contraddistingue anche per l'alto numero di persone che abbandonano il sistema formativo senza una qualifica di scuola secondaria superiore (un 16% nel 2008, mentre in Francia ad esempio sono meno del 10), e per lo scarso numero di studenti-lavoratori: i tedeschi e gli inglesi tra i 20 e i 24 anni impegnati nello studio lavorano nel 50% dei casi, in Italia lo fa solo il 10%.
Che fare allora? Secondo Scarpetta bisogna agire nel breve periodo con interventi mirati come l'assistenza nella ricerca di un lavoro, e poi sussidi di disoccupazione e aiuti per apprendisti licenziati per il completamento della formazione che però siano connessi a una clausula di «reciproca obbligatoriet
à», vale a dire che chi riceve questi servizi si obbliga a sua volta a cercare un lavoro. Ma non basta: bisogna agire anche nel lungo periodo, assicurandosi che chi esce dal mercato formativo abbia le competenze necessarie per il mercato dell'occupazione e rendendo meno brusco il passaggio formazione-impiego. Dare quindi opportunità di lavoro mentre si studia e rendere lo stage un passaggio obbligatorio durante l’università. E infine intervenire «sulle barriere per i giovani sul lato della domanda», abbassando il cuneo fiscale per le basse qualifiche e riducendo «la dualità del mercato del lavoro»: meno precarietà e meno differenze tra contratti atipici e a tempo indeterminato, con parallela riduzione delle tipologie contrattuali e aumento degli ammortizzatori sociali. Insomma, un po’ gli stessi obiettivi annunciati dal governo Monti sulla riforma del lavoro. Adesso alla prova dei fatti.

Ilaria Mariotti


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