Marianna Lepore
Scritto il 18 Ott 2022 in Notizie
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Cosa significa oggi essere o non essere madri in Italia? Un nuovo libro intitolato Non è un paese per madri, edito da Laterza, si interroga «su quanto bisogno ci sia di impegnarsi insieme tutte, ma anche tutti, perché la maternità sia una scelta libera, non crei ostacoli alla carriera e smetta di essere un mito che crea aspettative e pressioni sociali enormi». L'ha scritto Alessandra Minello, una ricercatrice di demografia al Dipartimento di Scienze statistiche all’università di Padova che studia le differenze di genere in Italia e in Europa negli ambiti della scuola, della famiglia e del lavoro, concentrandosi soprattutto sul tema della maternità e le differenze di genere nelle carriere accademiche.
Che cosa significhi decostruire il mito della maternità? «Ci si aspetta che la donna sia madre, quando in realtà una grande fetta della popolazione femminile è uscita già fuori dall’età fertile e non ha potuto o voluto avere figli» spiega Minello alla Repubblica degli Stagisti: «E abbiamo bisogno di accogliere anche le istanze di chi figli non ne desidera. Va poi ridefinito il modo in cui si pensa alla cura, perchè se è sulle spalle delle madri che hanno questa grossa responsabilità di essere factotum nella famiglia ed essere schiacciate dalla fatica che tutta questa perfezione richiede, diventa difficile gestire la genitorialità serenamente».
Anche perché i servizi che dovrebbero aiutare le famiglie e le madri in realtà, per quanto migliorati negli anni, sono ancora e sempre troppo pochi, così entrano in gioco le madri al quadrato e cioè «le nonne: nel nostro Paese si tende a vivere vicino ai genitori, a chiedere aiuto alle nonne che lasciano il lavoro prima anche per adempiere a questo ruolo. E si crea un circolo vizioso per cui uno Stato che ha questo welfare di tipo familiare non offre i servizi che poi servono per una genitorialità più semplice, come gli asili nido o una rimodulazione degli orari scolastici. Lavoro e scuola non si parlano in termini di orari. C’è una fase cruciale nella vita dei ragazzi, quella delle scuole secondarie di primo grado, con orari ridotti e famiglie molto in difficoltà: anche questo settore della scuola è pensato per donne che non lavorano».
Le donne, invece, spesso lavorano. Non tanto quanto sarebbe auspicabile, dato che il tasso di occupazione femminile italiano è di una ventina di punti percentuali più basso della media europea, ma – lavorano. E negli ultimi anni molti ambiti una volta prettamente maschili, come quello medico o universitario, si sono aperti alla presenza femminile. Senza però ridefinire le regole nei confronti delle madri che troppo spesso, tornate da una maternità, vengono messe da parte. «Le regole andrebbero riscritte tenendo conto della disparità dei tempi tra maternità e paternità, partendo dai congedi genitoriali che devono assolutamente essere paritari e usufruiti in tempi non così diversi. Sposo l’idea che la maternità sia usufruibile nei primi 10 mesi di vita, ma anche la paternità secondo la mia proposta deve essere limitata nei primi 18».
Nel libro si analizza anche quello che è successo alle donne durante la pandemia degli ultimi due anni, con un’esasperazione della suddivisione delle attività di cura tra le donne e gli uomini. Un’occasione persa visto che proprio in questo caso si poteva ribilanciare i compiti, o almeno così sembrava all’inizio. «Non abbiamo imparato nulla da questa esperienza e purtroppo c’è stato troppo ottimismo. A inizio pandemia l’Unione europea pubblicò un report in cui si diceva che probabilmente stando tutti insieme a casa il lavoro femminile, di solito sommerso, sarebbe emerso e ci sarebbe stato un aumento di consapevolezza da parte degli uomini. Non è successo: i dati dicono anzi che non c’è stata parità nel tempo dedicato alla cura, neanche nelle famiglie in cui lei ha continuato a lavorare fuori casa durante la pandemia».
Su questo bilanciamento dei compiti, però, Minella è convinta che perfino un congedo di paternità pari a quello di maternità non basterebbe: «La qualità della cura all’interno delle case la si insegna educando cosa significa non avere stereotipi di genere legati alla cura, alla presenza con i figli che vuol dire prendersi cura di tutte le pratiche materiali ma anche del benessere emotivo. È un percorso lungo e i dati dimostrano che i bambini imparano dall’esempio: figli che hanno avuto un padre più partecipativo diventano maschi più partecipativi e questo va insegnato a mio modo di vedere in tutti i livelli di istruzione».
Per quanto si parli molto oggi di partecipazione femminile nel mondo del lavoro, poi «magicamente non si discute del tempo del lavoro di cura che è una questione che invece va toccata». Avrebbe quindi senso introdurre corsi di educazione familiare già nelle scuole elementari? «Se si presentano come corsi di parità di genere si trova l’ostracismo di chi di questi temi non vuol sentir parlare. I corsi sulla condivisione dei ruoli o di educazione familiare possono essere accolti già meglio. Ma bisognerebbe puntare anche sulla formazione agli insegnanti nel non veicolare certi tipi di stereotipi nel momento in cui si rapportano con gli studenti e li indirizzano verso le carriere scolastiche o universitarie». Temi, però, che troppo spesso non sono veicolati come importanti e finiscono irrimediabilmente per scadere di livello nel dibattito quotidiano, con la conseguenza di non essere affrontati e di trovare molte barriere nella loro discussione.
C'è poi il tema del fertility gap, il divario tra i figli desiderati e i figli avuti: «Abbiamo dati che mostrano come mediamente si desiderano due figli ma in Italia, per esempio, ne nascono meno di 1,3». Cosa dovrebbe fare, quindi, il nuovo governo per aiutare le donne, qualora lo vogliano, a realizzare il desiderio di maternità? Prima di tutto, lavorare sulla riduzione del precariato: la stabilità «è un aspetto molto legato alla possibilità di realizzare l’eventuale bisogno di avere dei figli. I dati lo dicono chiaramente: le famiglie in cui c’è un doppio reddito di tipo stabile o un reddito forte sono quelle in cui la fecondità è più alta o più vicina a quella desiderata». Bisogna poi investire sugli asili nido: «Su questo fronte si è già iniziato a lavorare, e il Pnrr ha cominciato a stanziare i fondi. Sarebbe importante lavorare anche sui congedi, ma purtroppo nei programmi dei partiti che andranno al governo si parla di lavorare su quello di maternità ma non su quello di paternità». Mentre proprio lì sta uno dei nodi: cinque mesi contro una settimana, al momento. L'iniquità parte da lì, e cresce poi in ogni direzione.
I dati raccontano bene il problema: la partecipazione femminile al mercato del lavoro formale è ferma al cinquanta per cento in Italia, solo la Grecia fa peggio. A incidere su questi numeri è anche la scelta dei percorsi di studio dettati da forti stereotipi. Le bambine sono brave in matematica quanto e più dei loro compagni maschi, eppure crescendo finiscono per non scegliere queste discipline all’università spostandosi più verso materie umanistiche, con meno chance lavorative e stipendi più bassi.
Come se non bastasse, le donne che lavorano hanno un doppio lavoro, il proprio e quello di cura: nel suo libro Minello sottolinea come l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) inserisca il lavoro di cura tra le attività economiche, ma in Italia pesi quasi esclusivamente sulle spalle delle donne. Così se il 63% delle donne senza figli tra i 25 e i 49 anni lavora, secondo dati Eurostat, il dato scende di quattro punti percentuali quando si ha un figlio e di ben venti punti, al 43%, se i figli sono due. Numeri che mostrano come la child penalty, la penalizzazione sul reddito delle donne che avviene quando entrano in maternità, incida fortemente e lo faccia solo verso le madri, mai nei confronti degli uomini.
Attenzione, però, dovrebbero essere fatte politiche che appagano il desiderio di maternità qualora ci fosse, ma non che pensino di “incentivarlo”: quello o c’è o non c’è. C’è una questione profonda nel nostro Paese che riguarda la non accettazione del desiderio di non avere figli. «Dovremmo mettere nella condizione di diventare più accettante possibile anche rispetto alla posizione di chi non prevede nel suo piano di vita di avere figli. Questo aiuterebbe». Lo Stato poi dovrebbe agire per ridurre il lunghissimo tempo che passa tra l’ingresso nel mondo del lavoro e il momento in cui si arriva a una stabilità. Questo spazio temporalmente sempre più ampio «crea un’instabilità non solo lavorativa ma anche emotiva: è difficile crearsi una prospettiva di stabilità quando una grossa parte di sé, anche identitaria come quella legata al lavoro, non è definita in maniera serena».
Decostruire il mito della maternità sarà sicuramente più difficile in un momento storico in cui leader del governo in fieri è una donna che per definirsi dice “sono una madre”. «I dati internazionali mostrano come lo stereotipo per cui la cura è ancora femminile è molto alto, come quello per cui siano gli uomini a doversi occupare del sostentamento economico della famiglia» osserva Alessandra Minello: «Non è una missione semplice, non è a breve termine, ma è anche vero che poi a volte la realtà supera la politica. Ci sono sempre più donne nel mercato del lavoro, sempre più a fare i conti con questo doppio ruolo e quindi sempre più richiesta di un certo tipo di cambiamento per la gestione banalmente pratica della genitorialità. E nonostante le resistenze, come anche il peso della religione che non apre a ruoli paritari, il tema è più dibattuto: è cambiato il modo di parlarne e questo mi sembra un buon segno».
Marianna Lepore
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