Mamme 5 mesi, papà 7 giorni: per togliere la lettera scarlatta dalle spalle delle donne che lavorano bisogna cominciare dai congedi

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 21 Feb 2020 in Editoriali

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A lungo le donne sono state tenute fuori dal mercato del lavoro da specifiche condizioni. Erano ignoranti, perché non era consentito loro studiare. Erano indisponibili, perché venivano fatte sposare presto, e una volta sposate, il loro lavoro diventava automaticamente prendersi cura della casa e dei figli. Erano prive di diritti civili, non potevano votare, essere elette; la legge le subordinava ai maschi della famiglia. Dove non arrivava la legge subentravano “usi e costumi”: per tradizione le donne non potevano fare questo e quello, dovevano stare al loro posto.

Negli ultimi decenni, una dopo l’altra, queste condizioni sono scomparse. Grazie alle grandi battaglie per l’emancipazione, per i diritti civili, per la parità di genere, grazie alle femministe e a chi le ha sostenute. Oggi le ragazze possono studiare, vanno all’università e si laureano prima e meglio dei coetanei maschi. Si sposano più tardi, e comunque il matrimonio non è più la fine della loro attività al di fuori delle mura domestiche. I figli si pianificano. Le donne sono rappresentate, anche se non ancora paritariamente, in tutti i consessi che contano.

L’unica condizione che ancora comprime le potenzialità delle donne nel mondo del lavoro è la questione della maternità. Le donne sono discriminate fin dall’inizio del proprio percorso professionale per il solo fatto di possedere un utero: presto o tardi potrebbero utilizzarlo, e la maternità è ancora vista come una iattura dalla maggior parte del mondo professionale.

Da questo punto di vista gli “usi e costumi” sono duri a morire: è ancora forte la convinzione che la maternità condizioni irrevocabilmente la capacità professionale di una donna, tanto che le italiane, capita l'antifona, sono corse ai ripari – in maniera autolesionista, ma perfettamente comprensibile – e hanno spostato in avanti, anno dopo anno, il momento della maternità, tanto che oggi si fa il primo figlio in media a 31,2 anni. Nel 1978, l'anno in cui sono nata io, l'età media al primo figlio era 24,9 anni (fonte: Istat). Fino al 2008 è rimasto al di sotto dei trent'anni. Oggi siamo appunto addirittura a 31,2: una tragedia sotto molti punti di vista, che sarebbe qui troppo lungo elencare, ma sicuramente una decisione cosciente delle donne italiane, che pospongono la maternità a causa delle condizioni avverse sul mercato del lavoro.

L’unico modo per contrastare questo status quo, ribaltare il tavolo e vincere la battaglia della parità di genere nel mondo del lavoro è ripensare completamente la questione della maternità, trasformandola in genitorialità e ponendo i due genitori, fatte salve le attività biologiche non trasferibili, su un piano di perfetta parità. Padre e madre sono entrambi capaci di prendersi cura dei figli, traendone peraltro gioia e soddisfazione.
Ciò già accade, ovviamente, nel segmento – numericamente piccolo ma socialmente significativo – delle famiglie omogenitoriali, cioè quelle dove i genitori sono entrambi dello stesso genere: due mamme, due papà. Ma quando invece in una famiglia c'è una mamma e c'è un papà, sembra quasi “naturale” che sia lei a dover ridurre il suo impegno sul lavoro per liberare spazi da dedicare a figli e casa, piuttosto che lui.

Ma
non sta scritto da nessuna parte... Ah, invece sì. Da qualche parte sta scritto, già. Nella nostra Costituzione, all'articolo 37. Ma, ecco, la Costituzione ha passato la settantina, e ci sta che alcuni passaggi risultino datati. Ciò non ci deve fermare. Una soluzione c'è. E' costosa, non solo in termini monetari ma anche e sopratutto in termini sociali, perché è una vera e propria rivoluzione culturale. Mettere uomini e donne sullo stesso piano nella gestione della genitorialità, dando loro uguali diritti e doveri. A cominciare dal congedo.

Quando nasce un figlio, oggi, la neomamma che lavora (parliamo di dipendenti subordinate, per le lavoratrici autonome le tutele sono molto diverse) viene messa in maternità. Il congedo obbligatorio dura cinque mesi; di solito si smette di lavorare due mesi prima del parto, e dunque si fanno due mesi di congedo prima e tre dopo; c'è chi sceglie di lavorare anche nell'ottavo mese di gravidanza, e fare poi quattro mesi dopo; ultimamente è stata aperta alle donne anche la possibilità di lavorare al nono mese e fruire tutti e cinque i mesi dopo il parto. Questi cinque mesi sono pagati all'80% dello stipendio – questa cifra può essere integrata fino al 100% dalle aziende in virtù di contratti integrativi aziendali. Dopo il quinto mese la donna lavoratrice torna al lavoro, oppure può scegliere di usufruire di ulteriori mesi di maternità, detta stavolta “facoltativa”, pagata al 30%, fino a che il bambino non ha un anno.

A fronte di questa situazione, che garantisce alle madri lavoratrici subordinate una ottima tutela (la durata del congedo di maternità obbligatoria è tra le più alte, se non proprio la più alta al mondo), i papà sono pressoché inesistenti. Fino al 2012 non avevano diritto a nulla: se volevano stare qualche giorno accanto alle compagne, immediatamente dopo il parto, dovevano mettersi in ferie. Poi è stato timidissimamente introdotto il congedo retribuito anche per loro: un giorno, poi due, poi cinque. Praticamente una via di mezzo tra un contentino e un qualcosa di simbolico: niente che potesse davvero fare la differenza, all'interno di una famiglia o di un luogo di lavoro. E sempre per giunta con lo spauracchio che la misura, considerata “sperimentale”, potesse essere cancellata da un anno all'altro per mancanza di fondi o volontà politica. Adesso siamo a sette giorni.

Mamme cinque mesi, papà sette giorni. E poi ci lamentiamo della discriminazione? C'è chiaramente qualcosa che non va. La situazione va riequilibrata: ai papà vanno dati gli oneri e gli onori di essere genitori, al pari delle mamme. Dunque l'unica via è un congedo di paternità paritario. Del perché serve, quanto costa, e chi lo osteggia, scrivo oggi su Linkiesta: ecco qui:

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Eleonora Voltolina

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