Eleonora Voltolina
Scritto il 14 Feb 2020 in Approfondimenti
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Quanto vale, quanto è riconosciuto, quanto è importante il lavoro delle donne? La Costituzione italiana parla di questo tema all'articolo 37: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” è il primo comma dell'articolo. Si parte bene, vietando ogni discriminazione. Ma poi ecco subito il primo slittamento: “Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare” (della donna). Le parole sono importanti: l'“adempimento” è l'assolvimento di un obbligo. L'aggettivo “essenziale” implica l'impossibilità di svincolarsi dalla “funzione” primaria attribuita alle donne, che è quella appunto “familiare”. E questa funzione “familiare” non si riferisce solo a quel che le donne soltanto possono fare, in effetti – cioè la “produzione fisica” di bambini: è molto più ampia del mero periodo di gravidanza e allattamento e sottointende la cura della casa, dei familiari non autosufficienti, degli anziani.
Dunque il secondo comma dell'articolo 37 pone indubitabilmente le donne lavoratrici in una posizione subalterna rispetto agli uomini, liberi invece lavorare senza essere costretti ad adempiere nessuna “essenziale funzione”. Le donne insomma possono lavorare ed essere pagate alla pari di un uomo, a patto però che prima di tutto adempiano al proprio “dovere”. In “famiglia”. Si parte in salita.
L'articolo 37 poi si chiude con due commi focalizzati sul lavoro minorile. Ecco il colpo di grazia: si tratta dunque di un articolo che riguarda il lavoro di persone “deboli”, le donne e i minori, non pienamente adatti a lavorare, bisognevoli di tutele speciali. Quanta strada si deve ancora fare perché le donne abbiano piena cittadinanza nel mondo del lavoro...
Ma quanta se ne è già fatta, anche! A questo è dedicato “Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea”, saggio pubblicato qualche mese fa dalla casa editrice Viella nella collana “Storia delle donne e di genere” e scritto da Alessandra Pescarolo, ricercatrice storica e sociale e fino al 2012 dirigente dell'Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana (Irpet).
«La partecipazione delle donne alle attività produttive è tutt’altro che irrilevante, e ha al suo centro la questione della conciliazione tra lavoro domestico, attività riproduttiva e lavoro extra domestico» chiarisce subito Silvia Salvatici, docente di storia contemporanea alla Statale di Milano, durante la presentazione a Milano del libro organizzata da Fiorella Imprenti, già assessora alle Politiche del lavoro, sviluppo economico e pari opportunità del Comune di Rozzano.
Salvatici sottolinea appunto come, fin dall'articolo 37 della Costituzione, «l’identità di lavoratrici delle donne sia stata subordinata alla necessità di assolvere al dovere riproduttivo»; e coglie l'occsione per ricordare che i diritti non sono acquisiti una volta e per sempre, e dunque la guardia dev'esser sempre tenuta alta: è importante trovare il modo di «mettere in discussione un’immagine molto diffusa, per cui il percorso delle donne è stato una progressiva emancipazione. Lo sguardo sull’oggi dimostra che questo assunto poggia su basi false, che non regge alla prova di un’analisi: perché le conquiste sono continuamente rimesse in discussione. Vi é un contrasto tra l’avanzamento sul piano dei diritti acquisiti e i continui rischi di retrocessione».
Uno dei pregi del libro di Pescarolo è, per Salvatici, «il lunghissimo arco cronologico che esso comprende», che permette appunto di scoprire la storia del lavoro delle donne in Italia nel corso dei secoli: «Le pagine a mio avviso più belle della ricostruzione del mondo rurale sono quelle dell’Italia post unitaria, da cui emerge una intensa cooperazione familiare caratterizzata da una dura cultura femminile del lavoro che imponeva alle donne di dimostrare di saper svolgere attività diversificate e una resistenza strenua a quelle più pesanti». Altro che sesso debole, dunque: «La smentita più concreta di quello stigma di inferiorità spesso indicato da una pretesa maggiore debolezza».
Dalla narrazione emerge un'Italia spaccata a metà, dove le donne aristocratiche e borghesi fino agli anni Cinquanta non lavoravano, mentre per le contadine era impensabile non farlo: in un caso e nell'altro, ovviamente, non c'era il minimo spazio una concezione di lavoro come emancipazione e realizzazione personale. La spaccatura non è netta né immobile: ogni fase storica, ogni decennio, ogni territorio è caratterizzato da una particolare condizione delle donne nel mercato del lavoro. «Il lavoro è uno degli oggetti più culturalizzati e politicizzati che esistano» sottolinea l'autrice Alessandra Pescarolo: «Ho cercato di far vedere che lo scarto tra il lavoro e il suo valore è una costruzione sociale e stratificata. La morale sessuale teneva le donne fuori dal mercato del lavoro, l'obiettivo era quello di tenerle di in casa: ma questo riguardava solamente le classi agiate. Mentre nelle società rurali» le donne lavoravano eccome, e lì «si vede un’etica del lavoro femminile fortissima. Poi nel primo Novecento arrivano le legislazioni di protezione delle donne: la borghesia, a differenza dell’aristocrazia, cerca di universalizzare il suo modello, creando l’ideologia della necessità di proteggere le donne dai lavori troppo faticosi al fine di preservarne la salute».
Alla discussione hanno partecipato anche due donne impegnate in politica, la consigliera regionale Paola Bocci e l'assessora al Lavoro del Comune di Milano Cristina Tajani. «Una volta il termine era “inferiorità” del lavoro femminile, ora si parla di una presunta “indisponibilità” della donna nel mercato del lavoro» dice Bocci: «Cioé una “non disponibilità” all’impegno al pari di un uomo. Il problema é che ogni donna – che sia madre o non lo sia, che sia figlia di persone che hanno bisogno di cure o non lo sia – lo stereotipo di essere indisponibile se lo porta dietro comunque». Bocci snocciola dati sconfortanti: «Le donne già solo a tre anni dalla laurea guadagnano meno dei coetanei maschi: prima ancora delle maternità, prima ancora della eventualità di doversi prendere cura dei genitori anziani». E parafrasando la Fattoria degli animali di Orwell rileva che «la nostra Costituzione dice che sì, la nostra Repubblica è fondata sul lavoro» ma all'articolo 37 dice anche che «c’è chi è un po’ meno uguale». Perché ciò accade? «La prima causa è quella di una mancata condivisione delle responsabilità della cura domestica e delle relazioni».
Nel suo ruolo di consigliera regionale Paola Bocci è da tempo impegnata in una battaglia per combattere le disparità retributive legate al genere, e non a caso è prima firmataria di un progetto di legge per ridurre il gender pay gap. «La grande scommessa adesso è attivare un cambiamento non solo normativo per cambiare gli equilibri nella società e nei rapporti di coppia e scardinare gli stereotipi che disegnano la donna come indisponibile perché gravata del carico delle responsabilità del lavoro domestico e di cura».
«Ogni nostra azione ha a che fare con un’indicazione di fini, con un obiettivo che in quel momento indichiamo come socialmente desiderabile» è la riflessione di Cristina Tajani, assessora al Lavoro del Comune di Milano: «Questo richiamo alla finalità è importante nel momento in cui indichiamo delle ricette e delle policy. Noi lavoriamo per costruire politiche e interventi che portino per quanto possibile la parità dei generi nel mondo del lavoro. L’unico argomento per costruire questo tipo di politiche – come la parità salariale, la pari rappresentanza dei generi... – è stato a lungo quello etico, cioè “è giusto che ci siano solo uomini...?”. Ma vi è un altro argomento, quello di tipo utilitaristico: non è solo giusto ma è anche utile, perché la compresenza dei generi nel mandare avanti le comunità e le organizzazioni crea bene comune».
Quello di cui c'è più bisogno oggi? Secondo Tajani di «una interpretazione delle cose in grado di cambiarle, una teoria e una lettura potente in grado di costruire un discorso generale che metta il tema del lavoro delle donne nel tema più grande dell’emancipazione delle persone in generale». E che dunque la politica, aggiunge Pescarolo, riesca finalmente «a toccare con decisione il tema del lavoro», cosa che adesso non fa: «C’è bisogno di una riflessione intensa e innovativa sul lavoro» perché è innegabile che, «pur diminuendo nella sua intensità aggregata – anche per motivi strutturali, come l'avvento delle nuove tecnologie», il lavoro continui ad essere, per uomini e donne, «un collante sociale».
Eleonora Voltolina
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