Qualche giorno fa il ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza ha parlato di raccordo tra formazione e lavoro. Lo ha fatto al Forum Ambrosetti, in un intervento a porte chiuse, da cui è filtrata però questa dichiarazione: «Non voglio più che gli studenti italiani arrivino a 25 anni senza aver mai lavorato un solo giorno nella loro vita». Una frase importante, che merita una «scannerizzazione».
Primo: parliamo di lavoro in senso stretto o lavoro in senso lato? Se parliamo di lavoro in senso stretto, significa che il ministro stava pensando ai piccoli lavoretti che si possono fare durante gli studi. Quelli che in effetti molti giovani fanno per mantenersi, o per arrotondare, o per rendersi un po' indipendenti. Si può fare il barista la sera, o il promoter nel fine settimana. Si può fare il dogsitter, portare le pizze a domicilio, si possono fare traduzioni se si padroneggia bene una lingua, oppure dare ripetizione ai ragazzini un po' somari, oppure programmare siti internet. Sono appunto «lavoretti»: di solito autogestiti, spesso scarsamente codificati (leggi: in nero), e sopratutto - nella stragrande maggioranza dei casi - per nulla attinenti con gli studi del giovane. Si tratta di modi informali con l'obiettivo non tanto di entrare nel mondo del lavoro, quanto di guadagnare qualcosina. Il che è di per sé molto importante: i primi soldi guadagnati autonomamente sono una tappa cruciale nella transizione alla vita adulta. Sapere, nello spenderli, esattamente quanto sono costati in termini di tempo, energia, lavoro, conferisce a quei soldi un valore totalmente diverso rispetto alla stessa somma fino a quel momento elargita da mamma e papà a mò di paghetta.
Dunque, se il ministro si rivolgeva ai ventenni incitandoli a questo tipo di lavoro, lavoro in senso stretto, tu fai qualcosa per il quale guadagni un po' di denaro, intendeva lanciare un invito ad anticipare l'emancipazione economica. Ragazzi, muovetevi e guadagnatevi qualche soldo anche da soli, che lavorare è istruttivo.
Ma più probabilmente il ministro Carrozza parlava di lavoro in senso lato. Riferendosi cioè alle esperienze "on the job" che possono essere svolte dagli studenti durante gli studi, rubando un po' di tempo alle aule universitarie e ai libri. Percorsi formativi che vengono definiti "stage" o "tirocini" e che permettono ai giovani di farsi le ossa.
Qui partiamo da un presupposto totalmente diverso. E cioè che i giovani non debbano «lavorare», ma «imparare lavorando», cioè mettere in pratica ciò che fino a quel momento hanno studiato sui libri, applicandolo all'interno di una vera realtà lavorativa che prende il nome tecnico di «soggetto ospitante» e che può essere un'azienda privata, un ufficio pubblico, un'associazione non profit, ma anche un negozio, un albergo, una carrozzeria, uno studio professionale… e così via.
Il secondo step di questo presupposto è che i giovani, dato che non lavorano in senso stretto bensì imparano "on the job", non debbano essere né contrattualizzati né pagati. Il tirocinio viene dunque formalizzato non attraverso un contratto di lavoro, bensì attraverso una semplice convenzione di stage, con un "progetto formativo" allegato dove vengono elencate le mansioni che lo stagista andrà ad apprendere e tutti gli aspetti tecnici dello stage, a cominciare dalla durata e dal luogo di svolgimento. Non essendovi contratto, non vi è ovviamente retribuzione né contribuzione: a volte è prevista una piccola somma mensile a titolo di rimborso spese forfettario, che non va assolutamente confusa con uno stipendio e che si può tutt'al più definire "indennità di partecipazione".
Ora, se quando il ministro Carrozza ha pronunciato la frase in questione, «Non voglio più che gli studenti italiani arrivino a 25 anni senza aver mai lavorato un solo giorno nella loro vita», si riferiva non a un «lavoro» ma più genericamente a una «esperienza di lavoro», è chiaro che volesse intendere gli stage. E date le sue competenze e gli altri elementi della frase - gli «studenti italiani» e il riferimento anagrafico ai «25 anni» - è altrettanto chiaro che volesse parlare di ragazzi impegnati in esperienze di stage durante il periodo di studio. Di giovanissimi che fanno gli ultimi anni di scuole superiori (dunque 17-18enni) e di giovani che frequentano l'università (tra i 19 e i 24 anni, più o meno).
Il contatto con il mondo produttivo, a scuola e all'università, si costruisce quando queste agenzie formative creano un raccordo con il "fuori", specialmente con sul proprio territorio, e organizzano in favore dei propri studenti delle esperienze protette di lavoro, limitate nel tempo per non ostacolare l'apprendimento in classe o in aula. Tirocini, appunto.
Quando queste esperienze sono svolte nell'ambito di un istituto superiore si parla di "alternanza scuola-lavoro"; passando all'università la terminologia cambia, ed entrano in campo i "tirocini curriculari". Curriculari deriva da «curriculum studiorum»: il riferimento è al piano di studi che ogni studente deve seguire e ai cfu, i crediti formativi universitari, che deve accumulare per potersi laureare. Pressoché ogni attività universitaria è quantificata in cfu: gli esami, le tesine, la partecipazione ai corsi. E talvolta anche i tirocini: vi sono alcuni corsi di laurea infatti che obbligatoriamente prevedono che gli studenti debbano farne uno, o più d'uno, per poter ottenere il titolo.
A dirla tutta, spesso gli stessi corsi di laurea prevedono una scappatoia, permettendo a quegli studenti che non avessero la possibilità o la voglia di svolgere il tirocinio richiesto di ottenere lo stesso numero di cfu in un altro modo, per esempio sostenendo un esame aggiuntivo.
In questi ultimi anni, poi, il significato di "tirocinio curriculare" si è modificato, fino ad arrivare a una "istituzionalizzazione" ad opera sostanzialmente delle Regioni e della Corte costituzionale, che sulla differenza tra curriculare ed extracurriculare hanno poggiato le une la battaglia, l'altra la decisione finale in merito alla competenza normativa in materia di stage. Col risultato - folle secondo la Repubblica degli Stagisti e molti altri, ma al momento immodificabile - che le Regioni hanno visto sancire la potestà normativa in materia di tirocini extracurriculari, e hanno cominciato a sfornare ciascuna la sua legge regionale (per fortuna, con le linee guida della Conferenza Stato - Regioni a fungere da amalgamatore).
Ma i curriculari? Per quelli la potestà normativa resta allo Stato. E per la cronaca al momento c'è un buco nero: una vacatio legis gravissima, che riguarda un numero impressionante - e non ben definito, anche perché per questo tipo di stage il Ministero del Lavoro qualche anno fa attraverso una circolare ha pensato bene di eliminare l'obbligo di comunicazione al centro per l'impiego, vigente invece per gli extracurriculari - di giovani ogni anno. Studenti di scuole superiori (pochi), studenti universitari (moltissimi e in continuo aumento, come emerge anche dalle ultime indagini di Almalaurea), studenti di master e corsi di formazione (che talvolta hanno un numero di ore di stage addirittura superiore al numero di ore di lezione in aula). Qualcosa come 200mila stage curriculari ogni anno, 21mila solo dalle università milanesi nell'anno 2010.
Insomma, quando il ministro Carrozza dice di volere che gli studenti italiani arrivino a 25 anni con qualche esperienza di lavoro nel curriculum, sta dicendo loro di fare (anche) qualche stage. Il che va bene: ma allora il suo ministero deve al più presto mettersi al lavoro ed elaborare una nuova regolamentazione per i tirocini curriculari, che metta i giovani e le aziende in condizione di potersi incontrare e "testare", e che contemporaneamente prevenga l'abuso di questo strumento.
Anche perché i tirocini curriculari in questo momento, con la vacatio legis, sono più appetibili che mai. E man mano che le leggi regionali sugli extracurriculari entreranno in vigore in tutte le Regioni, con il loro portato di diritti a favore degli stagisti (a cominciare dal rimborso spese minimo obbligatorio), lo diventeranno sempre di più.
I tirocini curriculari insomma rischiano di diventare i tirocini di serie B, così come i contratti atipici sono diventati i contratti di serie B del mercato del lavoro. Urge una virata per evitare questa deriva, per assicurare alle centinaia di migliaia di studenti italiani la possibilità di fare esperienze di lavoro prima dei fatidici 25 anni in condizioni di decenza.
Eleonora Voltolina
Per saperne di più su questo argomento, leggi anche
- Subito una legge statale sui tirocini curriculari: appello al ministro Carrozza
- Diritto allo studio e ricambio generazionale dei docenti, gli obiettivi della neoministro all'Istruzione → su Articolo 36
- Tirocini, la Regione Lombardia scopre le carte: normiamo anche i curriculari
E anche:
- Tirocini, tempo scaduto. Ma metà delle Regioni italiane non ha legiferato
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