Contrazione degli occupati, crollo delle retribuzioni e contratti sempre meno stabili. La condizione occupazionale dei laureati italiani delineata dal XIV rapporto Almalaurea è a tinte fosche. Ma i numeri raccolti dal consorzio - che riunisce 64 università - forniscono anche indicazioni preziose per valutare la spendibilità del proprio titolo di studio, osservare le tendenze del mercato del lavoro e orientarsi nella scelta sempre più cruciale del percorso universitario da intraprendere. Sfatando anche alcuni miti: primo fra tutti l'utilità comunemente attribuita ad una formazione universitaria iper-professionalizzante, aderente cioè agli attuali bisogni delle imprese. «Chi può dire di che cosa avrà bisogno il mercato tra cinque o sei anni?» ha invitato a riflettere il direttore di Almalaurea Andrea Cammelli presentando martedì nella sede romana della Crui il rapporto. In un quadro economico in rapidissima trasformazione, dove conoscenze e tecnologie rischiano di diventare obsolete nel giro di pochi anni, la vera missione dell'università appare oggi piuttosto quella di fornire agli studenti solide conoscenze di base, in grado di rendere il lavoratore il più possibile «adattabile» alle esigenze del mondo del lavoro del futuro.
Il primo dato che emerge dall'indagine condotta su circa 400mila laureati intervistati a distanza di uno, tre e cinque anni dal conseguimento del titolo, è senza dubbio la progressiva perdita di appeal delle lauree di primo livello. Rispetto al rapporto dello scorso anno, il numero dei laureati triennali disoccupati ad un anno dal titolo è infatti cresciuto di oltre tre punti percentuali, passando dal 16,2% del 2009 al 19,4% del 2010. Non che per i laureati specialistici e per quelli a ciclo unico (come medici, architetti, veterinari e laureati in giurisprudenza) la situazione sia molto migliore: tra il 2007 e il 2010 i primi hanno infatti visto aumentare la percentuale di disoccupati di 9 punti e i secondi di 10 ma, per la prima volta dal 2007, tra gli specialistici si registra quest'anno una lievissima crescita di occupati (+1,1%).
Se sul breve periodo chi sceglie di fermarsi dopo il triennio continua ad avere maggiori chance occupazionali, è anche da considerare che in molti tra coloro che decidono di proseguire nel percorso universitario nei dodici mesi successivi alla laurea si trovano ancora in formazione. È il caso dei medici specializzandi, dei praticanti e in generale di tutte quelle professioni per le quali è richiesta un'ulteriore formazione post-laurea, oltre ovviamente a moltissimi stagisti.
Ma chi investe di più e più a lungo in formazione sarà poi ripagato? Non sul breve termine. Nel quadro di una perdita generalizzata del potere d'acquisto delle retribuzioni dei laureati (-12% in quattro anni), i salari di ingresso dei triennali risultano ancora oggi leggermente superiori, con guadagni mensili netti di circa 1.100 euro. I triennali hanno anche contratti migliori rispetto agli specialistici: nel 2010 il 42,5% dei laureati di primo livello poteva ancora contare su un lavoro stabile, contro il 34% di quanti avevano in tasca un titolo di secondo livello.
Attenzione però a tirare le somme troppo in fretta. Come tutti gli investimenti importanti, anche il valore della laurea deve essere giudicato sul medio e sul lungo periodo. A tre anni dal conseguimento del titolo la situazione è infatti già molto diversa: il gap retributivo degli specialistici sui triennali risulta colmato (le retribuzioni nominali superano i 1.250 euro) e con il tempo cresce apprezzabilmente anche la stabilità dell'occupazione per le lauree di secondo livello. Tra i cicli unici si passa addirittura dal 38 al 60% di lavoratori stabili, con una leggera prevalenza di posizioni autonome.
Certo è che a seconda della propria specializzazione la condizione del laureato può essere significativamente diversa: sempre a tre anni dal titolo lavora infatti il 98% dei medici, l'85,5% dei laureati in discipline economico-statistiche, l'85,3% degli architetti e degli ingegneri. In fondo alla classifica non si collocano, come ci si attenderebbe, i vituperati i profili letterari (63,4% di occupati), bensì i geo-biologi (46%) e i laureati in materie giuridiche (49,9%). Pessima performance anche per i chimici-farmaceutici, tra i quali si dichiara occupato poco più della metà del campione. Un caso davvero emblematico, se si pensa che il profilo in questione era considerato fino a pochi anni fa uno dei più appettibili per il mercato.
«L'obsolescenza delle tecnologie e delle conoscenze è ormai così rapida che i percorsi più professionalizzanti possono sì aumentare l'occupabilità in entrata dei giovani, ma in assenza di adeguati investimenti in formazione rischiano di ridurla nella fase adulta» ha spiegato Cammelli. Come dire: è inutile andare alla ricerca della laurea ideale per assicurarsi un futuro occupazionale soddisfacente. Ciò che invece si può e anzi si deve fare per scegliere il percorso più adatto alle proprie esigenze è informarsi in maniera oculata. Ad oggi uno degli strumenti più idonei ad orientare le scelte degli studenti è la banca dati di Almalaurea, che fornisce un quadro costantemente aggiornato sugli esiti occupazionali dei laureati suddivisi per corsi di studio, atenei e le singole facoltà presenti sul territorio.
Un altro utile suggerimento per gli studenti arriva direttamente dal presidente della Conferenza dei rettori (Crui) Marco Mancini, che commentando il rapporto ha invitato a diffidare da quanti bollano oggi come inutile il titolo universitario. «Dobbiamo reagire a questa campagna forsennata e ossessiva contro la formazione universitaria. Perché i dati ci dicono che laurearsi conviene, o comunque conviene ancora».
Nonostante insomma la laurea appaia nel complesso "svalutata" sul mercato del lavoro italiano, tutte le statistiche nazionali e internazionali indicano in effetti che sull'intero arco della vita lavorativa i laureati presentano pur sempre un tasso di occupazione superiore di oltre undici punti percentuali e retribuzioni del 50% maggiori rispetto ai colleghi diplomati. Senza considerare che i laureati italiani restano pur sempre pochi, anzi pochissimi: appena il 20% della popolazione di età compresa tra 25 e 34 anni, contro una media dei paesi Oecd di 37 giovani su 100. L'obiettivo di Lisbona 2020 di arrivare al 40% è ancora molto, molto lontano per l'Italia.
Ilaria Costantini
Per saperne di più su questo argomento leggi anche:
- I laureati italiani fotografati da Almalaurea: sempre più disoccupati e meno retribuiti
- È giusto che i “figli di” sfruttino il vantaggio competitivo?
- Fuggi-fuggi dall'Italia: sono almeno 2 milioni i giovani all'estero
Community