Pochi, imbrigliati da una regolamentazione eccessiva, ma soprattutto svantaggiati rispetto ai colleghi che lavorano negli altri paesi europei. Dove dal 1997 al 2010 hanno scelto non a caso di trasferirsi in più di 10mila. È la situazione dei giovani professionisti italiani che emerge da una ricerca promossa dal Forum nazionale dei giovani "Dall’Italia all’Europa. Dall’Europa all’Italia. Giovani professionisti in movimento", realizzata da Antonio Forte e Laura Giacomello in collaborazione con il Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) che mercoledì ha ospitato a Roma la presentazione del dossier. Attivo dal 2004, il Forum riunisce in una piattaforma comune molte delle associazioni giovanili più rappresentative del Paese, accreditandosi per la prima volta con il governo Monti come rappresentante delle istanze che toccano più da vicino le nuove generazioni. Alla vigilia dell'attesa riforma delle professioni ordinistiche che dovrà essere realizzata entro il prossimo 13 agosto, la ricerca tocca così alcuni nervi scoperti del sistema italiano. Evidenziando anzitutto che degli oltre 2 milioni e centomila iscritti agli albi professionali, soltanto il 9% è oggi costituito da under trenta. Che arrivano sul mercato troppo tardi, con maggiori difficoltà e con più vincoli all’esercizio della professione rispetto ai loro competitors europei.
A testimoniarlo ci sono anzitutto i dati Ocse, e in particolare un indice sintetico che misura proprio il grado di regolamentazione delle professioni presenti in ciascun paese. Nell’ultima rilevazione, risalente al 2008, l’Italia si collocava 31esima su 34 nazioni esaminate, seguita solo da Slovenia, Turchia e Lussemburgo. A pesare sulla situazione nazionale è prima di tutto il lungo iter formativo richiesto agli aspiranti professionisti. Dalle interviste condotte dai ricercatori ad alcuni rappresentati delle associazioni di giovani professionisti emergono in effetti tempi di accesso variabili da un minimo di 6 anni e mezzo per gli psicologi ai 15 anni di formazione necessari a medici e notai prima di poter esercitare. Un lasso di tempo che oltre al percorso universitario include normalmente un periodo di pratica (generalmente non retribuita) e un esame di Stato finale che in alcuni casi costituisce una vera e propria barriera di sbarramento al lavoro. Basta guardare al bassissimo tasso di successo riscontrato tra i candidati aspiranti notai (6% di promossi), ma anche a quello degli avvocati (26%) e dei consulenti del lavoro (meno del 36%).
Una volta ottenuta l’ambita abilitazione, il neo-professionista deve poi confrontarsi con le difficoltà tipiche dell’imprenditoria giovanile. In quanto a facilità di fare impresa, secondo lo studio Doing Business realizzato dalla Banca Mondiale e dalla International Finance Corporation, il nostro Paese si colloca al penultimo posto in Europa: messa peggio c'è solo la Grecia.
Il risultato di quest’insieme di criticità è stata una progressiva emorragia di professionisti. Dal 1997 al 2010 l'Italia ha perso così 2.600 medici, 1.300 insegnanti di scuola secondaria, 650 ottici e altre figure professionali per un totale di circa 10mila persone, che hanno scelto come destinazioni finali soprattutto Gran Bretagna, Svizzera e Germania. Nello stesso periodo l’Italia ha importato oltre 5.500 infermieri tra specializzati e generici, 1.100 fisioterapisti, e ancora dentisti, estetisti e acconciatori provenienti in gran parte da Romania, Polonia e Ungheria. «Il problema non risiede nell’arrivo di professionisti e lavoratori da paesi meno ricchi del nostro» si legge nella ricerca, «ma in uno sbilanciamento strutturale che ci porta ad importare professionisti con un livello di qualifica più basso rispetto a quello dei professionisti che esportiamo». Sul lungo periodo, concludono gli autori, ciò potrebbe tradursi in un «impoverimento delle capacità di innovazione della nostra economia».
Ma per arrivare a costruire un mercato unico delle professioni è necessario che anche l’Europa nel suo complesso faccia di più, arrivando ad esempio ad una piena armonizzazione dei percorsi formativi previsti nei vari stati membri. Tra i professionisti che si muovono oggi da un paese all’altro, soltanto gli architetti e quanti operano in ambito sanitario - medici, infermieri, dentisti, veterinari, farmacisti e ostetrici - possono infatti contare su un riconoscimento automatico del titolo, mentre negli altri casi le autorità di controllo nazionali hanno la facoltà di richiedere eventuali periodi di tirocinio o prove integrative.
«Il nostro vuole essere un approccio costruttivo al problema» è il commento del presidente del Forum nazionale dei giovani Antonio De Napoli, classe 1984 [nella foto di apertura, con il premier Mario Monti]. Cosa suggerisce dunque il Forum? «Come abbiamo scritto nel documento inviato al ministro Fornero sulla riforma del lavoro, è indispensabile rivedere anzitutto l’aspetto della formazione, prevedendo dove possibile lo svolgimento dei tirocini già durante il percorso universitario. In secondo luogo potenziare l’orientamento: nel passaggio tra università e mondo del lavoro ma anche durante la transizione tra scuola e università». Per quanto riguarda invece gli ordini «sicuramente c’è da avviare un’attenta riflessione sul ruolo che hanno svolto fino ad oggi, iniziando a pensare alla possibilità che determinati servizi possano essere realizzati anche in altre forme».
Ilaria Costantini
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