Chiuderanno il primo settembre le application per i tirocini al Consiglio dell'Unione europea. L'istituzione offre un centinaio di posti per cinque mesi di stage, a circa mille euro al mese. Susanna Grego ne ha fatto uno nel 2008 e alla Repubblica degli Stagisti ha raccontanto com'è stato il suo percorso professionale prima e dopo.
Sono nata nel 1981. Sono di origini venete, ma ho abitato in un paesino in provincia di Torino. Dopo aver frequentato un terribile liceo scientifico di provincia, mi sono iscritta alla facoltà di Scienze della comunicazione a Torino, perché avevo iniziato a collaborare per un giornale locale e volevo fortemente fare del giornalismo la mia professione. Il mio era più di un sogno, ma una missione. Mi sono laureata nel 2006 con il massimo dei voti. Non mi sono mai pentita di aver scelto quella facoltà, perché era esattamente ciò che mi interessava di più. Penso che sia un corso di laurea che, se frequentato con passione, insegna molto. La scelta è stata sofferta nel senso che i miei genitori non erano d’accordo, ma sono stata irremovibile. In effetti mio padre voleva che mi iscrivessi ad ingegneria o fisica.
Dopo la laurea ho fatto altri due stage, ma purtroppo erano di quel tipo che non dà alcuna prospettiva di inserimento futuro, e quando me ne sono accorta era già troppo tardi. Mi sono sentita presa in giro. Uno era come addetta comunicazione presso una società, Le Serre, che lavora in subappalto per l’organizzazione eventi del comune di Grugliasco, pagato 250 euro a fine esperienza; e uno per una piccola azienda di riparazione e assistenza caldaie, come segretaria, pagato 200 euro al mese per un part-time. Ma non mi sono trovata molto bene, i superiori erano pressoché assenti, i colleghi ostili perché temevano che gli rubassi il posto di lavoro o qualcosa del genere.
In seguito ho lavorato con un contratto a progetto di un anno, 400 euro al mese netti per un part-time come addetta comunicazione di una società informatica, Davide.it. Qui invece l'esperienza è stata positiva sia con i superiori che con i colleghi, le mie mansioni rispettavano generalmente la mia formazione pregressa. Volevo un lavoro stabile e il tipo di occupazione mi interessava, e mi era stato promesso un contratto part-time a tempo indeterminato. Che poi però non è mai arrivato: la società era in difficoltà, perciò quando nel 2008 sono stata presa per il tirocinio al Consiglio Ue ho accettato.
Nel frattempo ho portato avanti una collaborazione con un giornale locale, Il Risveglio, dove ho scritto per sette anni e grazie a cui ho ottenuto il tesserino da pubblicista. Mi recavo in redazione o a fare interviste circa quattro giorni a settimana, weekend compresi (quasi tutti), ero retribuita a battute e guadagnavo poco, dai 100 ai 300 euro al mese. Ho chiesto più volte un contratto cococo, ma mi è stato detto che non era possibile. I rapporti con i superiori qui erano diversi a seconda della persona, con alcuni mi trovavo bene, con altri no perché mi facevano ostruzionismo. Sono passata anche per altre collaborazioni come giornalista freelance. Tra queste una per La Stampa, per cui mi sono occupata di cronaca locale percependo un rimborso sui 100 euro mensili, e una per un giornale online di cronaca, una testata che avevamo rilevato con alcuni colleghi dopo la chiusura dell'edizione cartacea. In mezzo anche diverse sventure lavorative. La più lunga con una cooperativa, la Rear, presieduta da un importante politico del Pd: avevo un contratto part-time a tempo indeterminato ma i diritti dei lavoratori erano continuamente calpestati, la paga ridicola (cinque euro all’ora), i turni pesanti, la mansione non era affatto in linea con i miei studi, i lavoratori subivano ogni sorta di ricatti e angherie da parte dei superiori.
Ho saputo dei tirocini all’Unione europea perché ero iscritta a una newsletter sulle opportunità per l’estero, ho inviato la candidatura e mi hanno chiamata. Quando mi hanno telefonato dal Consiglio dell'Unione Europea non ci potevo credere. È durato cinque mesi, ero rimborsata con 750 euro al mese per otto ore di lavoro al giorno. Lavoravo nell’ufficio Comunicazione e Trasparenza amministrativa, svolgevo mansioni per così dire 'burocratiche' ma mi piaceva, i rapporti con i colleghi e con il tutor erano ottimi. Sono andata a salutarli poco tempo fa perché passavo da Bruxelles. Mi era stato accennato alla possibilità di continuare a lavorare con l'istituzione, ma avevo dei problemi personali per cui sono tornata a Torino. Per essere assunti al Consiglio è poi necessario passare un concorso pubblico.
Da un anno e mezzo circa mi sono trasferita ad Amburgo per amore. Qui ho lavorato per un anno per una ditta di web marketing, la Testroom, una collaborazione di due giorni a settimana retribuita circa 400 euro al mese. Ora vorrei trovare lavoro nell’ambito dell’import export perché in questo settore vedo delle possibilità di carriera e di stabilità lavorativa. Ma se l'essere all'estero offre dei vantaggi - riguardo alla situazione del mercato e delle condizioni lavorative - nasconde al contempo anche degli svantaggi: il principale è che non sono madrelingua.
I miei amici per la maggioranza non hanno passato le stesse mie difficoltà nel mondo del lavoro: molti hanno scelto indirizzi di studio di tipo tecnico-scientifico o hanno trovato un posto fisso anni fa grazie a conoscenze personali. Chi invece ha una laurea umanistica o in legge è andato incontro a lunghi periodi di disoccupazione e precariato. Vorrei consigliare a tutti di non fare più di uno stage e non farlo se a titolo gratuito. A volte si accettano pur di non stare a casa a fare niente, ma questo non fa altro che incrementare un circolo vizioso di sfruttamento. Penso che il sistema dello stage in Italia sia da eliminare e che dovrebbero esistere esclusivamente tirocini con finalità di assunzione. Non penso sia giusto che le aziende ricevano fondi statali o regionali per gli stagisti: un’azienda che ha bisogno di assumere una persona giovane o da formare, che ci investa. Se non vogliono, significa che non ne hanno realmente bisogno. L’avvio dello stage diventa a quel punto una scusa per ricevere finanziamenti o sfruttare forza lavoro.
Testo raccolto da Ilaria Mariotti
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