Startup, il problema in Italia è la mancanza di investitori

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 05 Gen 2016 in Approfondimenti

stage lavoro startupUn'Italia a compartimenti stagni, dove il benessere economico si tramanda di padre in figlio e l'ascensore sociale resta pressoché bloccato. E dove la strada verso l'imprenditorialità per i giovani è tutta in salita perché i capitali tendono a circolare solo in alcune fasce della popolazione. A delineare un quadro della società italiana così sconfortante – e ormai conosciuto ai più – sono i dati recentemente diffusi dal think tank IMille (ne fanno parte esponenti del Pd come Irene Tinagli e Ivan Scalfarotto, tra i membri del comitato di indirizzo), in occasione di un seminario dal titolo 'Imprenditoria giovanile, motore di sviluppoe mobilità sociale'.

Vedere per credere: incrociando numeri provenienti da diverse fonti che calcolano «l'elasticità dei redditi tra generazioni» si legge nelle slide, emerge una «fortissima persistenza intergenerazionale delle disuguaglianze, maggiore che negli Usa», dietro all'Italia di due posizioni. Il nostro Paese è secondo in classifica dopo il Brasile, primeggiando anche su Regno Unito e Francia. Al lato opposto le solite virtuose Norvegia, Danimarca e Finlandia.

Quanto
«all'importanza della famiglia di provenienza», la conclusione è che «va oltre la carriera scolastica», è scritto. Tanto che lo svolgimento della pratica professionale di architetti e ingegneri, tanto per fare un esempio, nella metà dei casi è all'interno di studi o aziende di genitori, parenti o amici di famiglia.

Secondo il report anche il controllo societario «passa spesso (e sempre di più) di padre in figlio», specie se le imprese sono «ben avviate e prospere» e non hanno più di quarant'anni di attività alle spalle. Ed è qui che spunta un altro elemento interessante.
La media dei trasferimenti di capitali per aziende di questo tipo è proprio intorno ai 42 anni, che – guarda caso – è anche l'età media dell'avvio di start up italiane («start up motore di crescita per quali 'giovani' italiani?» ironizza infatti lo studio). La maggior parte degli startupper ha tra i 40 e i 49 anni (34%), contro i 30-39enni che occupano il 32% del totale. A dare avvio a nuove attività sono spesso laureati di secondo livello o con master: insieme formano il 65% del totale. Niente giovanissimi insomma, come accade invece in Silicon Valley. 

E uno dei motivi è il nodo dei finanziamenti. «Gli Stati Uniti pullulano di business angels» fa notare il moderatore del dibattito Raoul Minetti, della Michigan State University [nella foto poco sopra], «in Italia dove vai? Di certo non in banca, dove se parli di start up si mettono a ridere». Il bisogno di finanziamenti scatta «nel momento in cui si va oltre e si assumono dipendenti» prosegue. Senza «un fondo equity si resta a terra e rimane tutto in ambito familiare» fa notare. Certo, la start up può nascere anche su «una base molto leggera, senza sprecare soldi in asset, ma investendo sulle risorse» spiega però uno dei giovani imprenditori intervenuti al dibattito, titolare di un centro di consulenza. 

Ma il problema fondamentale «sono gli investitori» ribadisce Minetti: «se si inizia con i 20mila euro di mamma e papà senza aggiungere altro dopo, l'iniziativa resta un fatto di bottega. Non si diventa azienda con un finanziamento one shot».

Eppure l'Italia, che così male si colloca nella mobilità sociale, è ancora tra i top country per brevetti presentati negli Usa. Lo sottolinea  Lisa Cook [nella foto a sinistra], del Department of Economics, Michigan State University e consulente alla Casa Bianca. L'Italia nel 2014 è stata infatti undicesima per brevetti concessi negli States (era all'ottavo posto nel 2008 e al settimo nel 1982). Ai primi posti Giappone, Germania e Corea del Sud. Una volta tanto non siamo in fondo alla lista, anche se stiamo perdendo qualche posizione.

Quali sono dunque le sfide che economie avanzate come l'Italia dovrebbero prospettarsi a detta dell'economista? Per esempio «maggiori transfer of technology, ovvero aprire un dialogo tra università e imprese affinché le prime acquisiscano competenze e metodologie dalle seconde
». E ancora, suggerisce la Cook, «più innovazione, innescando uno spillover che possa raggiungere nuove imprese, e crei oppportunità per il venture capital, business angels e banche». Difficile però passare dalla teoria alla pratica, purtroppo.

Ilaria Mariotti 


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