Stage senza compenso, la protesta monta anche negli Stati Uniti

Marianna Lepore

Marianna Lepore

Scritto il 03 Lug 2014 in Approfondimenti

Estate nel mondo del lavoro è anche sinonimo di stage: quelli che tanti giovani alle prese con università, master e corsi vari sono obbligati a frequentare e quelli che aziende, negozi, studi professionali offrono, talvolta per coprire i vuoti di organico causati dalle ferie. In Italia negli ultimi anni si è cercato in parte di regolamentare questa giungla, prevedendo discipline ad hoc per i tirocini extracurriculari: ma lasciando curiosamente fuori, nell'elenco di eccezioni, anche i tirocini estivi che dunque sono un "capitolo a parte", e non godono di quei piccoli ma importanti diritti - primo tra tutti, quello a ricevere un minimo di indennità - introdotti  a favore degli stage extracurriculari.
Di strada dunque, come la Repubblica degli Stagisti documenta da anni, ce n’è ancora tanta da fare, ma il nostro Paese non è l’unico alle prese con gli stage gratuiti che rimpiazzano le nuove assunzioni o le sostituzioni estive. Succede anche negli Stati Uniti, dove questa pratica ha preso sempre più piede iniziando anche ad attirare l'attenzione dei media - specie dopo alcune sentenze storiche arrivate dai tribunali.
Bisogna partire da un dato: secondo un’indagine condotta dalla National Association of Colleges and Employers nel 2012, solo il 37% degli stagisti non "ricompensati" ha ricevuto, alla fine dello stage, un’offerta di lavoro. Tale statistica conferma come accettare mesi di lavoro (anche se sarebbe più corretto dire "formazione on the job") non pagato possa in pochi casi portare a trovarne, in seguito, uno retribuito. Certo il dato del 37% può sembrare altissimo a un italiano, visto che nel nostro Paese solo il 9% di tutti gli stage attivati nelle imprese private - quindi non solo quelli senza compenso presi in considerazione in questa statistica americana - si trasforma poi in un'assunzione. Eppure, secondo InternMatch
la prospettiva del 37% non basta a giustificare la marea di stage non pagati che sta dilagando: questa piattaforma online interamente dedicata agli stage denuncia che al maggio del 2013 oltre il 36% delle aziende continuava a offrire tirocini non retribuiti o pagati meno del salario minimo stabilito dalla legge. Arrivando alla conclusione che in tutti gli Stati Uniti ogni anno si attivano fino a un milione di stage non pagati.
Dalla loro parte gli stagisti americani hanno anche una serie di sentenze – che in Italia invece su questo settore non sono mai arrivate – che hanno sanzionato grandi nomi come Donna Karan, Fox Searchlight, o Condé Nast. I giudici hanno stabilito che ai tirocinanti non pagati andasse invece corrisposto il salario minimo (poco al di sopra dei sette dollari l’ora) stabilito dal Fair labor standards act.
Ma come, lo stage non è un lavoro eppure gli stagisti negli Usa hanno diritto al salario minimo che spetta ai lavoratori? Sì, è proprio così. In quella legge - risalente al 1938 - già si decideva che un tirocinio poteva non essere pagato soltanto se fatto in un “ambiente educativo”, quindi solo se strutturato non come un vero e proprio lavoro – oggi si direbbe una “learning on the job experience”. Insomma, un percorso formativo più assimilabile all’apprendimento e quindi al guardare quello che si fa nell’ufficio, o nel negozio, o nella fabbrica, ma senza mettere in pratica. La distinzione con il tempo si è fatta via via troppo poco specifica, tanto che in tempi recenti molti giovani che negli uffici, negli studi televisivi, nelle redazioni giornalistiche, partecipavano attivamente al lavoro di squadra, ma inquadrati come tirocinanti, hanno cominciato a fare causa contro i datori di lavoro per veder riconosciuto un compenso. Per affrontare questa situazione nel 2010, sotto l’amministrazione Obama, il Dipartimento del lavoro ha stabilito dei criteri per determinare nello specifico quando per un tirocinio può non essere previsto un compenso – sottintendendo ovviamente che in caso non si verifichino queste condizioni, invece, il soggetto ospitante non può esimersi dall'offrire allo stagista una indennità pari almeno al salario minimo
Leggendo queste sei regole ci si accorge che non sono molto lontane dalle richieste avanzate negli anni anche dagli stagisti italiani. Secondo questo testo, il tirocinio “lecitamente gratuito” è simile alla formazione, deve essere cioè a totale beneficio dello stagista, il tirocinante non sostituisce i dipendenti e anzi lavora sotto la supervisione del personale, e il datore di lavoro non deve trarre alcun vantaggio immediato dal lavoro del tirocinante. A queste quattro regole ne seguono altre due che specificano la necessità di massima trasparenza a monte, che si concreta nel fatto che datore di lavoro e tirocinante sappiano entrambi fin dall'inizio che non ci sarà alcun compenso per il periodo dello stage e che lo stagista sia consapevole che non avrà automaticamente diritto a un posto di lavoro finito il tirocinio. Se quindi lo stage rispetta tutti e sei questi criteri contemporaneamente, e dunque in pratica non è lavoro né tanto meno sfruttamento ma è realmente solo formazione, allora lo stagista non ha più i requisiti per il minimo salariale.
La forza della battaglia per i diritti degli stagisti a stelle e strisce viene anche in questo caso dall’aggregazione tra giovani alle prese con internship e traineeship. Sui blog studenteschi, infatti, vengono messi in risalto continuamente i motivi per cui è necessario rifiutare i tirocini non pagati: non essendo dei veri dipendenti non si può fare ricorso in caso di molestie sessuali o discriminazione razziale, i debiti degli studenti - che in America per pagare le tasse universitarie sono costretti spesso a fare dei mutui su stessi che ripagheranno una volta trovato un impiego - salgono senza alcuna certezza di un’occupazione e, circostanza a cui pochissime volte si pensa, se un’azienda non ha i mezzi per pagare uno stagista è molto difficile che possa permettersi di assumerlo alla fine.
Se, infatti, poco meno di quattro stagisti su dieci senza rimborso riescono alla fine ad essere assunti (quasi al pari, 35%, di chi un tirocinio non l'ha proprio fatto), secondo dati del National Association of Colleges and Employers la cifra cambia sensibilmente quando si parla di tirocini che prevedono una congrua indennità in cui la percentuale sale al 60%.
Svantaggiati da un sistema che in qualche modo pur cambiando non sembra voler modificarsi realmente, alcuni giovani americani hanno iniziato a combattere la pratica degli stage gratuiti nel settembre 2013 dando vita alla Fair Pay Campaign, una campagna per un’equa retribuzione, con lo slogan «Lottiamo per eliminare i tirocini non pagati
», facendo leva sul fatto che «le opportunità dovrebbero essere date dal talento non dalla ricchezza. I tirocini fanno indebitare milioni di persone e moltissimi altri devono rinunciare ai propri sogni perché non possono permettersi di lavorare gratis». L'appello dei giovani militanti anti-stage gratuiti è semplice: «Seguiteci e combattiamo insieme per offrire un lavoro retribuito a tutti». Tra i fondatori c’era anche Christina Isnardi, studentessa alla New York University, che al terzo anno si è trovata a fare un tirocinio in una società cinematografica in cui faceva le stesse cose degli altri dipendenti, ma gratis. Così ha deciso di reagire e ha lanciato una petizione online in cui cita il Fair labor act e richiama la New York University a «cancellare gli annunci illegali di tirocini non retribuiti». In pochi giorni ha già raccolto centinaia di adesioni e l’università ha deciso di aumentare i controlli su questo tipo di annunci.
A dimostrare come il problema sia entrato nel dibattito americano c’è, poi, il discorso che Hillary Clinton ha tenuto pochi mesi fa alla Ucla: parlando della disoccupazione giovanile, la Clinton ha puntato il dito contro le aziende che approfittano della giovane forza lavoro attraverso tirocini non retribuiti. Il fatto che a dirlo sia una possibile candidata alla Presidenza degli Stati Uniti – che peraltro alla Casa Bianca ha già vissuto otto anni in qualità di First Lady – potrebbe in parte consolare tutti gli stagisti che lì ci lavorano, e lo fanno gratis visto che il Fact sheet 71 che specifica quali stagisti devono ricevere il salario minimo come previsto dal Fair labor act, prevede un'eccezione per gli stagisti nel settore non profit e di governo che possono anche non essere pagati. In pratica non obbliga a non pagare i tirocinanti, ma rende lecito non farlo prevedendo che
«alcuni individui possano donare il loro tempo liberamente e senza aspettarsi un pagamento». Una possibilità che viene sfruttata in pieno: per questo motivo i tirocinanti alla Casa Bianca hanno lanciato una petizione online con cui hanno raccolto più di 8mila adesioni e contano di arrivare a 10mila, per chiedere di pagare tutti i tirocinanti di quel palazzo.
Qualcosa inizia a cambiare anche in un altro settore, come quello del giornalismo, dove il lavoro gratis è spesso un’abitudine. La Scuola di giornalismo della Medill Northwestern University per rispettare le regole del Dipartimento del lavoro ha scritto nel corso del 2013 alle varie testate in cui abitualmente mandava i suoi studenti per tre mesi l’anno a svolgere tirocini - ovviamente non pagati - per chiedere se sarebbero state disponibili a pagare i loro studenti. Così quindici testate hanno iniziato a pagare gli stagisti e altre diciotto hanno detto che lo avrebbero preso in considerazione. Un risultato che in altri tempi sarebbe stato improbabile, e che in Italia risulta addirittura – purtroppo – impensabile.
Certo di strada ce n’è ancora tantissima da fare. Per questo ci sono gruppi come l’Intern labor rights, che si batte contro la pratica dei tirocini non pagati e grazie alla rete cerca di pubblicizzare i problemi e gli incontri periodicamente organizzati per discutere di questo problema. Con lo stesso obiettivo c’è anche il sito del Dipartimento del lavoro che mette a disposizione un numero a cui chiamare in caso si stia frequentando un tirocinio gratis se si ha il sospetto che invece andrebbe pagato. La strategia è, infatti, quella di affidarsi alle denunce degli stessi stagisti, ma come spesso capita in questi casi sono in pochi ad avere il coraggio di mettersi contro i propri superiori. Nei primi tre anni dall’approvazione delle linee guida infatti il Dipartimento è riuscito a citare solo undici aziende che non pagavano i propri tirocinanti. Salvo poi scoprire, con un’analisi più approfondita, almeno una cinquantina di stagisti non pagati, pur in assenza delle 6 regole, in tutto il territorio, dal Vermont al Texas. Chiaramente una goccia nel mare: verosimilmente bisognerebbe aggiungere a quel 50 qualche zero per arrivare al numero vero di stagisti ingiustamente privati del compenso minimo. Qualcuno suggerisce di aprire una qualsiasi pagina del sito Craigslist per riuscire a bloccare a priori gli annunci di stage gratuiti, invece di aspettare le denunce spontanee – postume – degli stagisti. Ma c’è da riconoscere che a piccoli passi qualcosa, in questo settore, sta iniziando a cambiare anche negli Stati Uniti.

Marianna Lepore

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