«Grazie al servizio volontario europeo ho trovato il coraggio per trasferirmi all'estero»

Giada Scotto

Giada Scotto

Scritto il 07 Mar 2018 in Storie

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La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo consigliamo di leggere la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Chiara Avataneo.

Ho 27 anni e sono nata a Torino, dove ho svolto sia le scuole superiori, diplomandomi in ragioneria, sia l’università, laureandomi in Servizio sociale. Durante gli studi universitari ho lavorato nell’attività commerciale della mia famiglia, riuscendo a ricavarmi del tempo per fare anche due interessanti tirocini come assistente sociale: uno presso l’Unità spinale unipolare del Cto di Torino, centro che si occupa della riabilitazione di persone para e tetraplegiche, e l’altro nel reparto di oncologia del San Luigi Gonzaga di Orbassano. Non ho invece fatto l’Erasmus, perché non mi sentivo ancora pronta: ho sempre avuto un forte interesse verso l’estero, il mondo, ma a parte le vacanze non avevo mai trovato il coraggio di lasciare tutto e tutti per partire. E solo facendo lo Sve mi sono poi resa conto di quale opportunità avessi perso.

La paura di lasciare e cambiare mi ha spinto, terminati gli studi, ad iniziare a lavorare; all’inizio ho fatto la barista, poi ho lavorato in un’agenzia che organizza eventi nella mia città. Ma sentivo che qualcosa continuava a non quadrare, sentivo che non stavo realizzando il mio sogno di vivere all’estero.. ma come potevo lasciare tutto? Avevo un lavoro stabile, famiglia, amici, il ragazzo, la mia vita. In più non sapevo l’inglese e questo mi sembrava chiudermi tutte le possibili porte.

Dopo essere venuta a conoscenza dello Sve grazie al centro Informagiovani di Torino, decido però di provare ad inviare qualche candidatura e un giorno, in un ritaglio di tempo, mi candido per un progetto in Polonia
. Non ero molto convinta e non avevo sinceramente grandi speranze, ma dopo una settimana vengo contattata telefonicamente dall’associazione Eufemia di Torino. Abbiamo organizzato un colloquio nel quale ci siamo conosciuti e mi hanno spiegato cosa sarei andata precisamente a fare durante il mio progetto Sve. Dopo il colloquio con l’associazione di invio è stato il turno della chiamata via Skype con la responsabile dell’associazione polacca, la Fundacja Kreatywney Edukacj. Ottenuto il via libera, ho avuto due settimane di tempo per organizzarmi e partire.

Sono arrivata a Bydgoszcz nel marzo 2016, emozionata ma anche spaventata. Sono atterrata a mezzanotte e ho trovato ad accogliermi un ragazzo, che ho poi scoperto essere il mio collega, con delle amiche. Mi hanno accolta con un abbraccio, invitandomi subito ad una festa, ma ero ancora troppo scombussolata per accettare. Dal giorno dopo, ad essere onesta, la vita per circa un mese è stata durissima: non avevo mai passato lunghi periodo lontani da casa e la nostalgia era tanta; anche il tempo grigio, il freddo e la lingua diversa non aiutavano. Le comunicazioni erano difficili e spesso mi chiudevo in me stessa; anche la casa, che si trovava in un posto abbastanza centrale, inizialmente mi sembrava lontanissima, non conoscendo i mezzi per arrivare velocemente in centro.

Vivevo con un altro ragazzo italiano, che faceva parte insieme a me del progetto all’interno della scuola; si trattava di una scuola privata che gestiva un nido, una scuola materna e una elementare. Inizialmente i nostri compiti non erano ben chiari, perché si trattava anche per loro della prima esperienza e non ci avevano assegnato un mentore che organizzasse il lavoro. Ma con il passare del tempo le cose sono migliorate: ho iniziato a capire cosa c’era da fare e, facendomi guidare anche dai miei colleghi, sono riuscita a stabilire le miemansioni e dare un senso concreto alla mia presenza nella scuola.

Ho lavorato prima al nido, dove la comunicazione non era fondamentale, prendendomi cura dei bambini, giocando con loro, portandoli a fare passeggiate. Poi sono stata “promossa” alla scuola materna e lì abbiamo istituito un giorno d’insegnamento della lingua e della cultura italiana. Ho partecipato a gite e a molte attività, organizzando giochi, pasti e tempo libero. Nel frattempo ho iniziato anche a uscire e conoscere gente del posto, ritrovando così serenità e voglia di divertirmi.

Passavo le mie giornate coi bambini, e la sera uscivo coi colleghi o con altri giovani conosciuti sul posto. Essendo poi la Polonia un posto economico, ho avuto la possibilità di visitarla in lungo e in largo, ospitata anche da altri volontari conosciuti durante il progetto. Il guadagno non era certamente il punto forte del mio Sve, ma il mio pocket money di circa 230 euro mi ha permesso di fare tutto ciò che desideravo, avendo già vitto, alloggio e trasporti pagati.

Se penso alle difficoltà mi viene subito alla mente la mancanza di un mentore e quindi l’iniziale sensazione di sentirci abbandonati in un posto del tutto estraneo. Un’altra cosa che avrei cambiato è il mio coinquilino italiano, perché credo sarebbe stato più utile e formativo convivere con una persona di un’altra nazionalità. Ma, a fronte di questo, ci sono stati mille aspetti positivi, direi quasi tutti. Ho imparato a parlare l’inglese e un po’ di polacco, ho appreso la bellezza di vivere all’estero scoprendo nuove culture, pensieri e abitudini, e il fascino di un paese come la Polonia che viene troppo spesso sottovalutato. Infine ho aperto la mia mente, cambiato pensieri e imparato ad analizzare le situazioni con maggiore elasticità.

Terminato lo Sve, infatti, non me la sentivo proprio di mettere la parola fine a questa meravigliosa avventura all’estero e ho deciso di trasferirmi in Inghilterra, così da migliorare l’inglese: ho frequentato una scuola per conseguire un certificato di lingua e lavorato intanto come tata per una famiglia inglese, occupandomi delle loro due bambine. Non so ancora come continuerà la mia avventura, cosa farò, ma se provo a immaginare il mio futuro lo vedo a casa, con la speranza di fare di queste esperienze nate dallo Sve qualcosa di concretamente spendibile nel mercato del lavoro italiano. Vorrei provare a lavorare seriamente come assistente sociale nell’ambito delle adozioni internazionali o, come piano b, in un’agenzia di viaggi. Per il momento continuo a viaggiare, ad emozionarmi e a scoprire.

Testo raccolto da Giada Scotto

 

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