Salario minimo per tutti: una proposta per applicarlo sia ai dipendenti sia ai collaboratori

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 09 Dic 2021 in Approfondimenti

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Esimi studiosi e ricercatori, economisti e giuslavoristi ed esperti di politiche del lavoro, ci si spaccano la testa da anni: può esistere un salario minimo applicabile anche ai lavoratori autonomi?

I problemi sul tavolo sono riassumibili in due grandi sottoinsiemi: teorici e pratici.

stage lavoro salario minimoI problemi teorici sono legati all’enorme eterogeneità del gruppo dei lavoratori autonomi. Qui dentro, per capirci, stanno insieme l’idraulico che fa un servizio a domicilio per riparare un lavandino; il giornalista freelance che scrive alla sua scrivania un articolo per una testata per cui collabora, e il suo collega giornalista freelance che scrive l’articolo però magari dall’altra parte del mondo, in modalità “inviato volontario”. C’è il consulente che fa formazione ai dipendenti di un’azienda e c’è il grafico che per quella stessa azienda disegna la brochure o la pagina pubblicitaria. C’è chi ha bisogno di strumenti per il suo lavoro e chi no.
C’è chi lavora da casa sua e chi invece presso il committente, e in questo secondo insieme vi sono quelli che lavorano lì per un periodo di tempo limitato e quelli che invece hanno una loro scrivania, orari predefiniti, e sostanzialmente mimano un rapporto di lavoro subordinato senza averne però il contratto.

Tutti questi lavoratori autonomi sono profondamente differenti: hanno percorsi di formazione e titoli di studio differenti, competenze differenti, la loro collaborazione con il committente varia dall’essere una tantum all’essere continuativa e regolare. Alcuni di questi lavoratori autonomi hanno decine, talvolta centinaia di committenti nell’arco di un anno; altri ne hanno pochi, qualcuno è addirittura quel che si dice “monocommittente”, cioè la totalità o quasi totalità del suo reddito annuale proviene da un solo datore di lavoro.

Dunque il problema teorico numero 1 nell’applicare il salario minimo anche agli autonomi è: qual è il minimo giusto? Una cifra che non sia troppo alta (se applicata a mansioni di scarso valore aggiunto e per le quali non è necessaria grande preparazione) e però contemporaneamente non sia troppo bassa (se applicata a mansioni di valore aggiunto più alto).

Già, qual è il salario minimo giusto? In Francia e in Germania hanno al momento due cifre praticamente identiche (1.590 euro lordi al mese lo Smic francese, 1.585 euro il MiLoG tedesco). Si tratta di un salario applicabile solo ai subordinati (guarda un po’) ma fissa un parametro: che sotto quella cifra una persona che lavora a tempo pieno non debba poter guadagnare. La cifra – francese e tedesca – si può anche leggere come grossomodo 400 euro a settimana, 80 euro al giorno, 10 euro l’ora.

E qui si arriva al problema pratico. Come si fraziona il salario minimo su attività, quelle autonome, non solo profondamente diverse una dall’altra ma anche caratterizzate da tempistiche molto diverse? Si può pagare all’ora la riparazione di un tubo? E un articolo giornalistico quanto vale all’ora? Quando si compra qualcosa, si compra solo la prestazione o anche una parte del lavoro di formazione/preparazione che il lavoratore ha dovuto fare per poter effettuare la prestazione? Si paga solo la prestazione o anche una frazione degli strumenti (le attrezzature, i device informatici…) che a quel lavoratore sono necessari per la sua attività? Come si fa a calcolare il giusto compenso per un collaboratore che svolge la sua prestazione da remoto, e che magari nella stessa giornata, al suo computer, porta avanti lavori per più di un committente?

Una soluzione potrebbe essere quella di introdurre l’obbligo di un accordo scritto per qualsiasi tipo di collaborazione, squisitamente autonoma o “parasubordinata” (che aggettivo ridicolo…). In questo accordo le parti dovrebbero concordare per iscritto l’impegno orario percentuale previsto perché il lavoratore possa svolgere il lavoro che il committente gli affida. Un 100%? Un 50%? Un 10%? Ecco allora che il salario minimo risulterebbe applicabile. Perché in caso l’accordo (poniamo, un cococo) prevedesse una collaborazione intensiva, a tempo pieno per due mesi, vuol dire che il lavoratore avrebbe diritto a una retribuzione almeno pari al salario minimo espresso nella sua forma mensile, per i due mesi di lavoro. Se sull’accordo scritto le parti convenissero un impegno di 2 giorni a settimana di quel lavoratore autonomo sulle attività richieste dal committente, il compenso minimo equivarrebbe a una cifra non inferiore al 40% del salario minimo – espresso nella forma settimanale, per tutte le settimane di collaborazione.

E se invece la prestazione fosse molto piccola – l’esempio dell’articolo di giornale torna utile – si tratterebbe di concordare per iscritto quante ore il collaboratore prevede di passare su quel lavoro, e la cifra concordata non potrebbe andare al di sotto del salario minimo (espresso nella forma oraria) moltiplicato per il numero di ore indicate.

In questo modo ci sarebbe una “prova”: un documento attesterebbe quanta parte del suo tempo un determinato lavoratore autonomo prevede di passare su ogni singola collaborazione, e la forma scritta permetterebbe a tutte le parti di essere più consapevoli della posta in gioco.

Certo, come in tutte le leggi – e specie quelle che regolamentano il lavoro – ci sono punti deboli. Esistono innumerevoli modi per depotenziare, aggirare, ignorare questa indicazione; a cominciare dalla prevedibile circostanza in cui datori di lavoro scorretti obbligassero i collaboratori ad accettare e controfirmare documenti con indicata una percentuale di tempo di lavoro previsto inferiore al vero, per poterli pagare di meno.

Ma l’idea è che l’esistenza di un salario minimo aiuti anche i lavoratori stessi a prendere coscienza del valore monetario del loro lavoro, e ad essere sempre meno disponibili a farsi sottopagare. Vedere un tempo di lavoro nero su bianco su un accordo scritto, e poi vederlo rinnegato nella realtà dei fatti, potrebbe portare una parte di lavoratori autonomi a non subire più in silenzio. Inoltre, una forma scritta permetterebbe finalmente anche controlli da parte degli ispettori del lavoro, dando loro strumenti per stanare infrazioni e illegalità e tutelare anche i lavoratori autonomi, e non solo quelli subordinati, dal rischio di sfruttamento.

Questo meccanismo potrebbe essere applicato a tutte le fasce di lavoratori autonomi “a rischio sfruttamento”, tenendo fuori per esempio coloro che hanno avuto, nei due o tre anni precedenti, un reddito superiore a una certa soglia (es. 50mila euro), per i quali oggettivamente è evidente dai dati che il rischio di essere sottopagati non sussista. In questo modo i lavoratori autonomi che forniscono prestazioni ad alto valore aggiunto, e che non hanno bisogno di uno strumento come il salario minimo perché riescono a concordare coi loro committenti compensi adeguati, non si sentirebbero “umiliati” da un salario minimo che dal loro punto di vista verrebbe inevitabilmente percepito come ridicolmente basso (“Il mio lavoro non vale certo 10 euro all’ora, o 80 euro al giorno!”).

Ma per chi si arrabatta tra collaborazioni saltuarie e committenti col braccino corto, un punto di riferimento certo, una legge che dica chiaramente che il lavoro non può essere pagato meno di tot, sarebbe molto importante per uscire dallo sfruttamento e dalla situazione di “working poor”.

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