Francesco Betrò
Scritto il 28 Feb 2022 in Approfondimenti
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Le associazioni di dottorandi e dottorande chiedevano a gran voce la loro abolizione, ma anche stavolta la richiesta è rimasta inascoltata. I dottorati senza borsa di studio continueranno a esistere: il nuovo decreto 226/2021 del ministero dell’Università e della Ricerca, che ha modificato le modalità di accreditamento delle sedi e dei corsi di dottorato, oltre ai criteri per l’istituzione dei corsi stessi da parte degli enti, non li ha eliminati. Il nuovo decreto sostituisce il decreto ministeriale 45/2013. Un tentativo di riformare il sistema era già stato fatto a gennaio 2021 quando Gaetano Manfredi, l'allora ministro dell’Università, aveva inviato una nota al Consiglio nazionale degli studenti universitari per chiedere un parere urgente sulla proposta di riforma che aveva elaborato: fu bocciata anche per l’intervento dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia, l'Adi.
Dopo un anno di dialogo tra l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (l'Anvur), associazioni e ministero si è arrivati al decreto 226/2021, pubblicato a metà dicembre ed entrato in vigore lo scorso 13 gennaio. La direzione dei cambiamenti previsti dal nuovo regolamento, voluto dall’attuale ministra Maria Cristina Messa, è esplicita già dall’articolo 1: «Il dottorato di ricerca fornisce le competenze necessarie per esercitare, presso università, enti pubblici o soggetti privati, attività di ricerca di alta qualificazione, anche ai fini dell'accesso alle carriere nelle amministrazioni pubbliche e dell'integrazione di percorsi professionali di elevata innovatività». Se le università sono le uniche che continuano a poter richiedere l’accreditamento dei corsi di dottorato, dunque, con questa riforma si apre alla possibilità che possano farlo anche in forma associata insieme ad altri atenei, con enti pubblici e privati anche esteri, con istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, con imprese che svolgono una qualificata attività di ricerca e sviluppo, con pubbliche amministrazioni, istituzioni culturali e infrastrutture di ricerca di rilievo europeo o internazionale.
L’accreditamento dei corsi di dottorato viene disposto dal MUR e deve avere il parere positivo anche dell’Anvur, che dura cinque anni con un sistema di monitoraggio e di verifica periodica. «Con questa riforma abbiamo introdotto la necessaria flessibilità che permette carriere diverse al termine del dottorato, mantenendo saldi i criteri di qualità scientifica e organizzativa» ha dichiarato la ministra Messa.
Per quanto riguarda la retribuzione dei dottorandi all’articolo 9 si stabilisce un massimo di un dottorato senza borsa ogni tre con borsa. Come si legge nell’indagine dell'Adi, nel 2018 il 16,9% dei dottorati risultava essere senza borsa. Se si confrontano i numeri degli ultimi anni, la percentuale è comunque in calo: nel 2010, ad esempio, ammontava al 39% del totale, ma il confronto con il trend dei dottorati con borsa (negli anni pressoché costante) dimostra che la diminuzione dei posti banditi senza borsa non si traduce in un corrispondente incremento di quelli con borsa.
All’articolo 4 viene modificato anche il numero di borse di studio necessarie ad attivare un corso un dottorato. La riforma Gelmini nel 2010 aveva abolito il vincolo minimo del 50% di copertura delle borse sul totale delle posizioni bandite. Il governo Monti nel 2013 aveva reintrodotto, invece, delle soglie minime che, nelle linee guida per l’accreditamento del 2014 (nel frattempo al governo si erano avvicendati Letta e Renzi), erano state portate a un minimo del 75% sul totale delle posizioni bandite.
Con l’attuale riforma, le borse necessarie per attivare un dottorato scendono a una media di quattro per ciascun corso, con un minimo di tre. Anche il numero di docenti facenti parte del collegio di dottorato diminuisce: devono essere dodici, di cui almeno la metà scelti tra docenti di prima e seconda fascia.
Novità rilevanti per quanto riguarda la proroga dei dottorati: «Per comprovati motivi che non consentono la presentazione della tesi di dottorato nei tempi previsti dalla durata del corso, il collegio dei docenti può concedere, su richiesta del dottorando, una proroga della durata massima di dodici mesi, senza ulteriori oneri finanziari», si legge nell'articolo 8, e poco dopo: «Una proroga della durata del corso di dottorato per un periodo non superiore a dodici mesi può essere, altresì, decisa dal collegio dei docenti per motivate esigenze scientifiche, secondo modalità definite dai regolamenti di ateneo, assicurando in tal caso la corrispondente estensione della durata della borsa di studio con fondi a carico del bilancio dell'ateneo». Si ammette in questo modo la possibilità di chiudere il percorso in un tempo maggiore di quello previsto, ma senza che la borsa di studio possa essere prorogata.
Nel complesso, di passi avanti ce ne sono stati, ma non basta. «Parliamo di interventi minimi che noi stessi in parte abbiamo salutato con favore tipo la flessibilità in uscita, la diminuzione delle borse di dottorato per costituire un corso di dottorato, ma che non vanno a intaccare nella struttura le vere problematiche che vediamo nello status giuridico dei dottorandi e delle dottorande», spiega Luca Dell’Atti, classe 1991, dottore di ricerca in diritto costituzionale presso l’università di Bari e dall'ottobre del 2020 segretario nazionale dell'Adi; «Le criticità sono essenzialmente quelle legate al salario, alla tipologia del contratto e conseguentemente anche a quelle garanzie che il contratto si porta appresso: proprio perché non esiste un contratto, ma solo una “borsa” che ha anche un ammontare non particolarmente elevato, soprattutto se si pensa a quanto vengono remunerati i dottorandi negli altri paesi europei. I dottorandi vengono considerati studenti o lavoratori a seconda di quando fa comodo». L’Adi in realtà aveva collaborato con l’Anvur per scrivere la bozza del decreto, ma una volta arrivata al ministero la versione originale è stata modificata, e molti dei suggerimenti dell'associazione dei dottorandi sono evidentemente finiti nel cestino.
La critica dell’associazione non si ferma alla parte che riguarda il singolo, ma verte anche sulla direzione che i dottorati hanno preso nella ricerca. «Da quindici anni a questa parte c’è una costante transizione della ricerca dal mondo dell’università a quello dell’impresa», dice Dell’Atti: «Quello che si fa nel decreto è istituzionalizzare formule tipo il dottorato innovativo, il dottorato professionalizzante, il dottorato industriale, ma anche il dottorato di interesse nazionale, che sono quelli legati al Pnrr».
Con il decreto legge n. 152 del 6 novembre 2021 sono stati destinati 500 milioni di euro del PNRR al Fondo integrativo statale (FIS) per il periodo 2021-2026. «Il FIS, che serve a integrare le risorse regionali» si legge sul sito del MIUR «specificatamente destinate alla corresponsione delle borse di studio, per l’anno 2021 – prima dell’incremento con le risorse del Pnrr – era di 307.826.221 euro». Un tentativo di incrementare il numero di iscritti ai dottorati in Italia, tra i più bassi nei Paesi dell’Unione europea: come riportato da Il Sole 24 Ore, infatti, dai 39.281 dell’anno accademico 2009/10 si è arrivati ai 29.651 del 2019/20, con una frenata del 24,5%. In calo anche il numero di chi conclude il percorso, passato dai 10.461 del 2009 ai 7.989 del 2019, il 31% in meno.
Le nuove borse legate ai fondi del Pnrr prevedono la collaborazione con il settore imprenditoriale, su filoni vincolati dell’innovazione e del green. Per assegnare la borsa, assieme al progetto di ricerca, deve essere consegnata però anche una lettera di intenti con l’impresa selezionata. «Si tratta di attività di ricerca fortemente diretta dal ministero e dall’Unione europea, il che con l’autonomia dei ricercatori non ha molto a che fare», conclude Dell’Atti: «Il nostro punto di vista non vuole essere a tutti i costi critico sulla ricerca fatta anche nell’impresa, però quello che va rivelato è che alla ricerca pubblica, libera, individuale, fatta nell’università, la politica che ci governa presta sempre meno attenzione – e ne dedica sempre di più a quella fatta in collaborazione con l’impresa».
Francesco Betrò
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