Al lavoro col sorriso, guida facile per partite Iva e non solo

Annalisa Di Palo

Annalisa Di Palo

Scritto il 12 Ago 2015 in Approfondimenti

«Pensate a tutti i milioni di persone che vivono insieme anche se non gli piace, odiano il lavoro ma hanno paura di perderlo» scriveva Charles Bukowski: «Non c’è da meravigliarsi che abbiano la faccia che hanno». Il libro degli psicologi del lavoro Matteo Marini e Gaetano Torrisi, Happy worker, nasce come guida agile e schietta per aspiranti lavoratori autonomi, ma qualsiasi tipo di lavoratore disamorato può trovare spunti utili a migliorare la situazione. È come fare una chiacchierata con due amici competenti e di buon senso, che senza troppi fronzoli ti dicono come la pensano.

Si inizia, come sempre, dal capire bene dove sta il problema, partendo dal sintomo. Lavoro uguale stress, la consequenzialità è quasi automatica. A maggior ragione se non si può contare sulle molte sicurezze che offre il lavoro subordinato - stipendio puntualmente sul conto, ferie pagate, diritto a malattia e maternità, niente oneri burocratici. Happy worker, sottotitolo Come vivere il lavoro autonomo senza stress (Giunti Editore, 160 pagine) sostiene che innanzitutto è fondamentale assecondare le proprie inclinazioni. «Non è la quantità, il carico di lavoro, a stressarci, ma la qualità del lavoro in relazione alla nostra personalità» scrive Marini [a fianco in foto], nonostante poi esistano tratti universalmente stressanti, come mera esecutività reiterata, mancanza di discrezionalità o autonomia di scelta, zero creatività. («Non c’è da stupirsi se si vedono manager belli pimpanti dopo 10 ore di lavoro e dipendenti alla frutta dopo 4 ore di data entry»). Le differenze tra lavoro autonomo e lavoro dipendente ci sono e sono molte, ma ciò che bisogna davvero considerare è l’effetto che hanno su di noi.

Per lavorare in proprio ci vuole “un fisico bestiale” - e sopratutto grande resistenza. Chi è autonomo non stacca mai veramente dal lavoro, o per lo meno mai con totale serenità. Al lavoro si va anche con la febbre, se necessario, o in avanzato stato di gravidanza, pur realizzando che il guadagno arriverà solo a lavoro finito, se non con molto ritardo. E comunque, specie in questo periodo storico, meglio non farsi illusioni sull'entità di questo guadagno: innanzitutto i ritardi nei pagamenti sono all'ordine del giorno; poi c'è la questione delle tasse, che dimezzano puntualmente il fattuarto e il rischio è che le conversazioni con il commercialista diventino più frequenti di quelli con i familiari stretti. Ci sono però anche dei pro, come decidere quando e quanto lavorare, dove, con chi. Non avere capi e scegliere i propri collaboratori risolverebbe la vita a molti lavoratori infelici. I guadagni possono arrivare con ritardo, ma non c’è un tetto definito, e potenzialmente un autonomo può guadagnare più di un dipendente, se sa proporsi bene.

Cosa pesa di più sulla bilancia dunque, dinamicità o stabilità? Siamo più aperti al nuovo o più conservatori? E quanto assertivi? La personalità del perfetto lavoratore autonomo non esiste, ma certo possedere alcuni tratti dà una marcia in più. Partendo dalla teoria dei Big Five, Happy worker valuta come più prezioso il tratto dell’amicalità, intesa capacità di supportare gli altri e cooperare, mettendo a frutto il «superpotere dell’empatia». Estroversione, coscienziosità e apertura mentale sono altri asset importanti, ma chi sente di non possederne in quantità sufficienti non è detto che sia inadatto a gestire con successo una partita IVA. Come suggerisce Gaetano Torrisi [a fianco in foto] nel quarto e ultimo capitolo, si può essere timidi e conosciuti, se si sa come promuovere la propria attività. Individuando il nostro punto di forza sul mercato e una strategia di comunicazione adatta, che non è detto passi necessariamente per il web – un idraulico, un podologo, un imbianchino non hanno bisogno del sito web personale, né di un profilo LinkedIn aggiornato: il tradizionale passaparola “analogico” risulta più efficace.

Happy worker è una lettura leggera e scorrevole, con ampie finestre informali di psicologia applicata alla quotidianità. La tesi di fondo però è di spessore, soprattutto in questo post crisi ancora così poco rassicurante: «chi trova nel lavoro un’espressione sana di se stesso non sarà solo efficiente, ma anche più soddisfatto nella vita extralavorativa. Lavoriamo per gran parte della nostra esistenza; se il lavoro non ci piace significa che faremo per molte ore al giorno qualcosa che non ci gratifica». L’idea che il lavoro debba fornire anche gratificazione, oltre che sostentamento economico - che sia addirittura un fattore cruciale nel determinare la felicità delle persone - è in realtà piuttosto recente. Un prodotto del benessere, difficile da capire per i nostri nonni ma difficile da capire anche per quei giovani di oggi che, a dispetto di tanto benessere,  un lavoro vero e proprio magari non l’hanno mai avuto, palleggiati tra stage e contrattini e che, avendo un problema urgente di quantità, non si pongono quello della qualità. Potrebbe, però, trattarsi solo di una questione rinviata, che tornerà a galla passata l’emergenza. Questo libro allora potrebbe tornare utile. Come una lunga e amichevole seduta dallo psicologo.

Annalisa Di Palo

Community