Ilaria Mariotti
Scritto il 28 Giu 2021 in Notizie
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«Un paese ad alto tasso ereditario, con punte medievali» quello rappresentato dalla platea dei laureati, secondo il presidente di Almalaurea Ivano Dionigi, intervenuto alla presentazione del rapporto Almalaurea 2021, indagine sulla condizione occupazionale di 665mila laureati. Sono i dati a dirlo: solo un quinto di chi si è laureato nel 2020 – il 21,9 per cento – proviene da famiglie svantaggiate, in cui i genitori svolgono professioni come operai o addetti commerciali. Il restante 80 per cento è composto da figli della classe media occupati in professioni impiegatizie o autonome (circa la metà del totale), oltre a un 22 per cento di giovani di elevata estrazione sociale, con genitori imprenditori, liberi professionisti e dirigenti. Una fascia che diventa ancora più folta, il 33 per cento, nelle lauree magistrali a ciclo unico, quelle in cui il periodo di studio è più lungo. Con un trend che sembrerebbe in crescita se i laureati con almeno un genitore con un titolo universitario erano il 26 per cento dieci anni fa e sono oltre il 30 oggi.
«Non è stato fatto abbastanza» commenta il professore: «Il diritto allo studio non è solo esonero delle tasse, ma anche il pagamento dei libri, il vitto, l'applicazione insomma dell'articolo 34 della Costituzione che prevede che i capaci e meritevoli devono poter accedere i gradi più alti degli studi». Un ascensore sociale «che si è arrestato, e non da quest'anno». Non è tutta colpa del Covid, dunque.
La famiglia influisce quasi sempre sulla scelta del tipo di corso di laurea: chi si iscrive a un corso magistrale, sottolinea il rapporto, ha nel 44 per cento dei casi almeno un genitore laureato. E poi sulla facoltà, la stessa del genitore il 40 per cento delle volte. «Sono le famiglie a decidere per il figlio, bisogna lavorare sull'orientamento» commenta ancora Dionigi.
Di pari passo vengono confermate le differenze di genere e territoriali. Gli uomini continuano a essere facilitati, con il 17 per cento in più di possibilità di trovare lavoro a un anno dalla laurea. E ciò nonostante le donne occupino ormai stabilmente la quota maggioritaria dei laureati, circa il 58 per cento. In più chi risiede al Nord ha almeno il 30 per cento di possibilità in più di essere occupato rispetto agli originari del Sud, «che rischia di diventare un guscio vuoto» rilancia il presidente di Almalaurea.
Il rapporto segna poi un altro dato negativo, che è quello – prevedibile – degli effetti della pandemia sull'occupazione, scesa di circa 4,9 punti percentuali per i laureati di primo livello e di 3,6 punti per quelli di secondo livello a un anno dal titolo, che risultano occupati nel complesso quasi nel 70 per cento dei casi. Marginali invece gli effetti su chi si è laureato da cinque anni e quasi sempre conta su un posto di lavoro (la percentuale è dell'88 per cento). Una fascia che ha tenuto di più «perché già inserita in un contesto lavorativo». In definitiva la pandemia, si legge nel rapporto, «pare aver colpito non tanto la qualità del tipo di occupazione trovata, quanto le opportunità di lavoro».
Qualche buona notizia c'è. Per esempio il numero degli immatricolati, che dopo il crollo registrato negli anni 2013-2014 è risalito ai livelli del 2003, con gli attuali 327mila iscritti. Visto da un'altra ottica il numero non è però così roseo: solo il 40 dei 19enni si iscrive all'università e l'Italia resta così in fondo alla classifica per numero di laureati. «Siamo penultimi prima della Romania – dove però il tasso cresce – con il 27 per cento della popolazione in possesso di questo titolo» fa sapere Dionigi. «La media Ue è del 40, la Francia ha quasi la metà dei trentenni laureati». Un nodo che poi si riflette nel reclutamento, perché da noi «solo il 18 per cento di chi è impiegato nelle alte professioni ha la laurea, così come solo un quarto dei manager di azienda». E spesso «chi è diplomato non assume il laureato». Non a caso «sono pochi gli studenti esteri a venire in Italia».
L'altra buona notizia è l'aumento, seppur lieve, delle retribuzioni, che passano a una media di 1.270 euro mensili per i laureati di primo livello contro i 1.364 per quelli di secondo, sempre a un anno dal titolo, salendo più o meno del 6%. A cinque anni dalla laurea lo stipendio medio cresce ancora, toccando rispettivamente 1.469 e 1.556 euro, con un aumento di circa 4 punti rispetto all'anno scorso. Un altro spiraglio sul futuro arriva dalla richiesta di curriculum alla banca dati Almalaurea da parte delle aziende. «Dopo il consistente decremento rilevato nei mesi primaverili del 2020» è scritto nel rapporto, «continuano progressivamente ad aumentare, fino a raggiungere le cifre record di quasi 117mila cv a marzo e di 115mila a maggio 2021».
Segnali di ripartenza dunque. E pur in un contesto in cui lo smart working è esploso (arrivato al 30 per cento per i neolaureati di oggi), resta però la preoccupazione degli effetti sui giovani della didattica a distanza, «soprattutto per le matricole, quelle che hanno iniziato il percorso universitario allo scoppio dell'emergenza Covid, senza aver mai frequentato in presenza» sottolinea Dionigi. E che adesso sembrano impigriti e restii a voler tornare in presenza, come testimoniano le aule restate vuote. «Lo smartphone e il pigiama hanno fatto grossi danni, pur essendo sul momento un male necessario». La scuola «è stata messa dopo le messe in piega» denuncia il presidente, «chiudendo più di tutti». E adesso i ragazzi «hanno buchi culturali e cicatrici». E il rischio è che «chi è soggetto a dispersione si arrenda».
Ilaria Mariotti
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