Scritto il 03 Ott 2023 in Interviste
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Booking, TripAdvisor, Airbnb, chi non li usa? Negli ultimi anni si è sviluppata una vera e propria economia sulle piattaforme. Ma ci ha migliorato la vita? In questo nuovo episodio del podcast della Repubblica degli Stagisti, registrato live all'università Cattolica di Milano, ne parliamo con Ivana Pais, professoressa ordinaria di Sociologia economica proprio alla Cattolica. «Per alcuni l'ha migliorata molto, e per altri invece no» risponde: «Ha rafforzato delle differenze che ci sono all'interno della nostra società. L'utilizzo del digitale sta aiutando alcuni a correre molto veloci, e altri invece rischiano di avere difficoltà a tenere il passo».
Le piattaforme digitali sono una maniera di acquistare beni e servizi che prima della pandemia riguardava prevalentemente le persone giovani ma «con il lockdown tutti abbiamo imparato, chi più chi meno, e per finalità diverse, a usare questi strumenti». Le «grandi resistenze» dei più anziani sono state spazzate via dalla costrizioni dei vari lockdown: adesso per tutti «resta nella nostra quotidianità: diventa un'alternativa che possiamo prendere in considerazione nelle nostre scelte quotidiane».
Da un punto di vista accademico, la "Platform economy" è l'evoluzione della "Sharing economy", che Pais ha cominciato a studiare molti anni fa. Ma la Sharing economy, partita durante un momento di forte crisi economica mondiale, si fondava su un principio forse visionario, e sulla spinta a trovare «un modo diverso di interpretare l'economia: la prima versione di queste piattaforme consentiva di esplorare delle possibilità nuove tra cui lo scambio tra pari, in un'ottica di attenzione alla sostenibilità ambientale e di economia circolare». Insomma una economia «collaborativa e di condivisione». Da lì i siti per ospitare sconosciuti sul divano ci casa propria, condividere viaggi in auto e così via. L'idea era quella di «utilizzare le possibilità offerte dalle nuove tecnologie per creare un'economia e una società migliore». Ma questa sharing economy «è durata pochi anni», scherza la docente, presto soppiantata dalla meno idealista platform economy, perché «i criteri di sostenibilità economica hanno avuto la meglio su quelli di sostenibilità sociale: la storia dell'economica collaborativa è interessante anche per il suo fallimento, perché il fallimento ci dice qualcosa».
Le piattaforme sono generalmente aperte a tutti, e i fruitori possono valutare il servizio ricevuto. Questo crea dei mutamenti nelle gerarchie aziendali: il controllo sulla performance del lavoratore, per esempio «oggi viene esercitato dal cliente finale, consapevolmente o inconsapevolmente» spiega Pais, raccontando il «caso-limite» di Amazon Echo Show, attraverso cui le persone controllano con una telecamera «i fattorini che consegnano i pacchi dell'e-commerce e del delivery» sull'uscio di casa (e postano online, arrabbiati, i video di quelli che buttano le scatole senza cura).
Un aspetto controverso delle piattaforme è la qualità del lavoro che offrono: è caso per esempio dei riders, pagati (poco) per andare in bicicletta a ritirare il cibo in pizzerie e ristoranti e poi consegnarlo a casa dei clienti, senza però essere assunti dalle piattaforme che abilitano questo servizio (e che ci guadagnano sopra una percentuale). E qui si staglia un confronto con il passato: una volta, «nelle situazioni in cui c'erano condizioni di lavoro molto dure e anche molto ingiuste, le regole del gioco però erano note: la modalità di organizzazione del lavoro era conosciuta» dice Pais, ricordando la catena di montaggio immortalata da Charlie Chaplin nel suo capolavoro "Tempi Moderni": e così non era difficile «mettere in atto delle azioni collettive per rivendicare il giusto trattamento dei lavoratori».
Oggi invece spesso le «regole di funzionamento non vengono comunicate al lavoratore stesso»; le piattaforme si giustificano dicendo che «sapendo come funziona l'algoritmo che regola il gioco, a quel punto i lavoratori potrebbero mettere in atto comportamenti opportunistici per avere dei vantaggi». Tanto che sono spuntati molti gruppi online in cui i lavoratori si scambiano informazioni sul funzionamento dell'algoritmo della piattaforma per la quale lavorano.
È dunque ingenuo credere che le piattaforme siano "neutre": «Il potere resta centralizzato: ci sono piattaforme in cui quando un operatore scende sotto una certa soglia reputazionale viene in automatico scollegato», che è un po' l'equivalente di essere licenziato. Torna alla mente una celebre puntata di Black Mirror, "Nosedive", andata in onda per la prima volta nell'ormai lontano 2016 e sempre più attuale.
In qualità di principal investigator della ricerca "WePlat – Welfare Systems in the Age of Platforms", Pais col suo gruppo di ricerca ha individuato 127 piattaforme operanti in Italia: 55 nel settore salute, 8 nell’educazione e cura dell’infanzia, 6 nell’assistenza sociosanitaria e 58 trasversali ad almeno due di questi ambiti.
«Questa ricerca nasce dal fatto che l'attenzione pubblica e la ricerca accademica sono molto focalizzate esclusivamente sui riders: pare che sia l'unica attività che viene svolta attraverso piattaforma digitale!» esclama Pais: ma invece sono innumerevoli i servizi che possono essere gestiti e forniti tramite piattaforma. E, per dire, le persone che fanno pulizie domestiche attraverso piattaforma sono più numerose dei riders (che in effetti sono solo 15-20mila in tutta Italia) – o quantomeno lo erano prima della pandemia. Eppure non ne parla nessuno. WePlat prova ad approfondire il fenomeno a partire dalle piattaforme che forniscono «servizi essenziali», con l'obiettivo di «individuare modelli di piattaforma che offrano delle opportunità». Certo, «il rider ci lascia la pizza sulla porta di casa», e anche quello è utile: ma, sottolinea Pais, oggi attraverso piattaforma si trovano anche badanti, babysitter, persone che «entrano nell'intimità di casa nostra» e che si prendono cura «della nostra salute fisica e mentale: in gioco c'è ben altro» che la pizza, «ed è molto più interessante». La ricerca indaga le dinamiche che si innescano quando questi servizi «vengono intermediati online anziché attraverso i canali tradizionali».
E per chi sogna di inventarsi lanciare la prossima piattaforma "sbancatutto", andandosi ad aggiungere al gotha dei "nerd geniali" come per esempio Danila De Stefano di Unobravo, Pais ricorda che «ormai sappiamo che l'idea conta, ma l'implementazione poi conta di più»: insomma l'intuizione geniale serve, ma non basta.
La fondatrice della Repubblica degli Stagisti Eleonora Voltolina esplora con Ivana Pais anche la condizione "ibrida" di coloro che usano le piattaforme per per esempio per affittare i propri appartamenti, o vendere vestiti o oggetti usati. «Noi chiamiamo queste persone pro-am, professionisti amatoriali: persone che fanno un'attività non per professione, però al tempo stesso vogliono essere valutati secondo criteri professionali» dice Pais; un altro modo di chiamarli è «slash workers, perchè sono persone che fanno un'attività slash un'altra slash un'altra. Su LinkedIn questo aspetto si nota sempre di più: mentre prima ognuno di noi prima aveva una descrizione, un ruolo professionale, adesso invece per descrivere l'attività di chiunque ci vogliono pagine!».
Le piattaforme esercitano un fascino particolare sulle nuove generazioni native digitali, sia in qualità di clienti sia in qualità di lavoratori: «Hanno degli elementi oggettivamente interessanti: rispondono a dei bisogni e anche a dei desideri» dice Ivana Pais. Alcuni lavoratori per esempio «possono trovare delle modalità di organizzazione del lavoro che facilitano la conciliazione del lavoro con i propri tempi di vita o compiti di cura». Insomma, non bisogna fare di tutt'erba un fascio: «Se vediamo tutto come "uberizzazione" stiamo perdendo delle opportunità; se invece facciamo un lavoro più faticoso, dell'analizzare e studiare tutti i tipi di piattaforma, e non solo quelli più visibili, e poi lì dentro andiamo a studiare cosa funziona e cosa non funziona, e che elementi di protezione vanno messi in atto, sia per il lavoratore che per il cliente, allora questo può aprire delle possibilità interessanti».
E il libro del cuore di Ivana Pais? Lo trovate alla fine dell'episodio!
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