I giovani italiani, quei soliti maleducati (finanziariamente)

Paolo Balduzzi

Paolo Balduzzi

Scritto il 22 Mag 2020 in Approfondimenti

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Che non sapessero contare lo sapevamo già; che non sapessero leggere, pure. Non stupisce quindi che anche a decidere come investire i propri guadagni non siano esattamente delle cime. È così: quando arrivano i risultati di un test PISA, i giovani italiani mostrano regolarmente conoscenze sotto la media degli altri paesi, indipendentemente dalla materia di riferimento. I dati condannano, i giornali titolano, i genitori biasimano, i politici piangono. Ma possiamo davvero accontentarci di una narrazione così consequenziale e scontata?

Il fenomeno risulta tanto grave quanto complesso. E a guardare bene, le responsabilità sono molto più diffuse di quanto possa a prima vista sembrare. I dati infatti non possono condannare, ma soltanto descrivere; e la metodologia di ricerca può essere ovviamente criticata. Ma va prima compresa. E i giornali titolano, sì, ma poi si dimenticano in fretta, sempre meno interessati ad approfondire; i genitori biasimano: ma, tristemente, proprio la famiglia di origine risulta essere una delle principali fonti di capitale umano dei giovani. E i politici piangono, ma sono lacrime di coccodrillo: i bilanci pubblici in Italia consumano e mangiano (il futuro de) i propri figli ormai da decenni.

La spesa per istruzione in Italia è meno di un terzo di quella pagata per le pensioni: e la prospettiva è che la prima sia in costante diminuzione, mentre la seconda in costante aumento. Ma perché è così importante l’educazione finanziaria? Cosa dicono davvero i dati? E soprattutto, cosa stiamo facendo per invertire questa tendenza?

L’educazione finanziaria descrive le capacità di un individuo, giovane o adulto che sia, di compiere decisioni che richiedono una valutazione di scenari incerti, cioè collegati a probabilità di accadimento e non a certezza, nonché capacità di programmazione per il futuro. Si tratta di decisioni strategiche e di lungo periodo, come quelle che riguardano la scelta di un mutuo, o quella sulla necessità di integrare o meno la propria pensione pubblica obbligatoria, ma anche di decisioni più quotidiane, come la scelta di un piano tariffario (a seconda dell’età, per un cellulare o per un’utenza domestica) o quella di un regime fiscale per la propria professione.

Queste decisioni hanno ripercussioni innanzitutto sul benessere dei singoli individui coinvolti: e già questo basterebbe a giustificare una certa attenzione pubblica alla diffusione dell’educazione finanziaria. Ma esse impattano in ultima analisi anche sull’efficienza di tutto il sistema economico, nonché di quello politico. Per esempio, una cultura finanziaria adeguata permetterebbe di comprendere meglio le conseguenze di alcune riforme o l’inconsistenza di talune promesse elettorali.

Di cosa siano i test PISA e di quali siano i risultati dei giovani italiani in matematica, italiano e scienze si è già scritto. Questi test sono stati molto criticati dal punto di vita metodologico: sono omogenei ma si riferiscono a sistemi educativi anche molto diversi tra loro, enfatizzano i risultati medi a livello nazionale quando invece all’interno dei singoli paesi potrebbero coesistere differenze territoriali enormi. Tuttavia, vengono regolarmente somministrati da ormai vent’anni e, seppur coi loro limiti, costituiscono una pietra di paragone piuttosto interessante, sia per i confronti internazionali sia – e forse soprattutto – per quelli intertemporali all’interno di uno stesso stato.

Del round PISA 2018 fa parte anche il capitolo sull’educazione finanziaria
. I risultati, presentati dall’Ocse un paio di settimane fa, sono effettivamente poco incoraggianti per il nostro paese, che peggiora rispetto al 2015. Il punteggio medio dell’Italia (476, con un massimo di 481 e uno minimo di 472) è inferiori alla media Ocse (505).

In cima alla classifica, Estonia (547) e Finlandia (537), mentre superiori a noi ma comunque sotto la media si trovano paesi come la Spagna (492) e la Slovacchia (481). Tra i paesi Ocse che hanno partecipato al test – non molti, a dire il vero – solo il Cile ottiene un risultato inferiore (451). Tra i paesi non Ocse invece solo la Russia (495) fa meglio di noi.

Come per le altre materie, permangono differenze di genere che, così come successo in matematica, premiano i maschi. Un risultato che caratterizza fortemente l’Italia rispetto agli altri paesi, tanto che il differenziale dei risultati, solo +2 per la media Ocse, arriva a +15 per l’Italia. Una possibile spiegazione potrebbe essere che – ma questo è vero in quasi tutti i paesi – è più probabile che i genitori parlino di questioni finanziarie con i figli invece che con le figlie.

Eppure in Italia di iniziative non ne mancano. La stessa Ocse ne fa menzione nel suo report. Ma si tratta di progetti non coordinati e spesso solo sporadici: «Tra i numerosi fattori che possono spiegare tali risultati, uno potrebbe essere quella della mancanza di chiarezza degli obiettivi. Raramente i programmi dedicati all’educazione finanziaria hanno una progettazione che fa tesoro dei risultati della ricerca scientifica; e non esiste un coordinamento tra le numerose azioni» spiega la professoressa Emanuela Rinaldi, sociologa dei processi culturali e comunicativi presso l'università̀ Milano Bicocca e responsabile scientifica dell’Osservatorio nazionale di educazione economico finanziaria, una delle massime esperte italiane sul tema: «I dati mostrano chiaramente come l’alfabetizzazione finanziaria dei giovani sia un problema serio. Ed è la scuola a doversene occupare, soprattutto perché le famiglie non appaiono adeguatamente preparate in questo campo».

Le raccomandazioni dell’Ocse non sono particolarmente approfondite ma non per questo risultano meno condivisibili: le difficoltà vanno affrontate dove maggiori sono i problemi, quindi con attenzione particolare alle disuguaglianze sociali e di genere, senza dimenticare l’importanza di promuovere l’utilizzo di strumenti finanziari, come conti correnti, tra i giovani stessi. In altre parole, aumentare l’esposizione e gli strumenti a disposizione dei giovani, a partire appunto dalla scuola.

Purtroppo in Italia l’educazione finanziaria non fa ancora parte del curriculum scolastico obbligatorio. Le scuole possono aderire a iniziative ad hoc, ma questo accade quando insegnanti e dirigenti sono particolarmente sensibili al tema e quando riescono a mobilitare le risorse necessarie. Una delle più note – ma certamente non l’unica – è probabilmente quella promossa dalla Banca d’Italia che a partire dal 2006 offre programmi di formazione per insegnati delle scuole primaria e secondaria, che hanno poi il compito di trasferire queste conoscenze ai loro studenti. A ben vedere, una casualità che è ulteriore elemento di disuguaglianza dopo quello della famiglia di appartenenza, e che amplifica le differenze all’interno del nostro paese.

Le differenze socio-economiche della famiglia di appartenenza spiegano parte della variabilità dei risultati ottenuti dagli studenti italiani; unico elemento di consolazione il fatto che tale disuguaglianza sia in media superiore nel resto dei paesi Ocse. Ma l’Italia è uno dei paesi in cui il minor numero di studenti (meno del 70%) ha dichiarato di essersi confrontato con i propri genitori almeno una o due volte al mese sulle proprie decisioni di spesa.

Ed è comunque la scuola il luogo dove l’esposizione a questi temi risulta particolarmente deficitaria: solo il 40% degli studenti italiani ha dichiarato di aver affrontato in classe problemi matematici su questioni finanziarie. Nessuno peggio di noi tra i paesi dell’Ocse. E solo la Serbia tra gli altri.

Manca del resto anche una vera e propria strategia nazionale, che riguardi non solo i giovani ma l’intera popolazione
. Solo a partire dal 2017 il governo italiano sembra avere preso le cose seriamente e ha affidato a un comitato il compito di coordinare tutte le iniziative pubbliche e private in materia. Dal 2018, si tiene il “Mese dell’educazione finanziaria” e nel 2019 si sono tenute le prime “Olimpiadi di economia e finanza”, cui hanno partecipato trecento scuole superiori e circa 7600 studenti.

Buone intenzioni, ma sempre troppo omogenee, quando è ormai evidente che andrebbero personalizzate – ad esempio, tenendo conto del genere cui si rivolgono – e ancora troppo poco coordinate.

Paolo Balduzzi

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