Parasubordinati e partite Iva, l'Inps fotografa i nuovi poveri

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 30 Ott 2014 in Notizie

Che quella sull'articolo 18 sia una battaglia politica slegata dai problemi reali del paese lo dimostrano i dati su collaboratori e professionisti italiani appena pubblicati dall'Inps. Per loro «un altro anno orribile: aumenta la disoccupazione, stagna il reddito» recita il report curato per l'occasione dall'Associazione 20 maggio e presentato l'altroieri. Uno studio secondo cui un parasubordinato ha portato a casa una media di 10mila euro lordi nel 2013, qualche decina di euro in più rispetto all'anno precedente (9950 nel 2012). Questo se si considera il guadagno dei collaboratori esterni delle aziende, declinati in tutte le possibili sfaccettature: collaboratori di giornali, venditori porta a porta, dottori di ricerca e così via, inquadrati ad esempio con contratti a progetto, cococo, assegnisti. In realtà nel calderone dei parasubordinati finiscono anche amministratori e sindaci di società, che percepiscono mediamente 30mila euro annuali. Con loro si sale a una media di 19.500 euro, ma si tratta di valori «falsati», precisa Patrizio De Nicola, docente della Sapienza responsabile dell'indagine.

Le storture sono anche altre, «esempio tangibile di come viene poco considerato e maltrattato il lavoro intellettuale in Italia, salvo poi organizzare convegni per lamentarsi della fuga dei cervelli». C'è innanzitutto lo scarto salariale uomo donna, sempre duro a morire: le quarantenni sono quelle con il gap maggiore, con meno 11mila euro rispetto ai colleghi uomini, le cui buste paga si aggirano sui 25mila euro annuali. Tra due trentenni le distanze si accorciano: a lei vanno 10mila, a lui 15, e via a salire con l'età. Uno dei paradossi è poi quello dei medici specializzandi, la cui borsa mensile nelle scuole di formazione professionale ammonta a 18mila euro, cifra più alta di quello che presumibilmente andranno a guadagnare una volta inseriti nel mercato del lavoro, quando «verranno loro offerti contratti di collaborazione molto più svantaggiosi in quanto assolutamente deregolati» osserva De Nicola.

Sul fronte dei compensi, «il libero mercato non funziona». E lo testimoniano le statistiche regionali, dove le forti differenze confermano «l'esistenza di marcate discriminazioni dovute all'assenza di una regolazione collettiva»: prime, con 24mila annuali di media, si attestano Lombardia e  Veneto. Seguono Emilia e Piemonte, con 22mila. Il Lazio è una delle regioni con le percentuali più basse, con 15mila euro di reddito (l'ultima è la Calabria, con 9mila). Quasi diecimila euro in meno rispetto alle «ricche» regioni del Nord per il Lazio che è anche seconda classificata per numero di subordinati, qui in 167mila contro i 277mila della Lombardia, su un totale di circa 1,2 milioni.

L'altro aspetto cruciale è il crollo delle collaborazioni a progetto, scese di 166mila rispetto al 2012 (-11,7%), «effetto della riforma FoRnero, che ha imposto l'introduzione di minimi tabellari anche per i dipendenti». Con l'obiettivo di renderli meno vantaggiosi rispetto al lavoro dipendente. Sarebbe bastato, insistono nel report, «un periodo anche di breve gradualità nell'applicazione della riforma, dando modo alla contrattazione collettiva di affrontare questo tema». Il calo qui ha riguardato soprattutto gli under 29, ridotti del 43% rispetto al 2007.

Altro mito da sfatare è che la precarietà lavorativa sia un fenomeno giovanile: del milione e duecentomila che compongono questo gruppo di contratti atipici, 607mila hanno tra i 30 e i 49 anni, il 48% del totale, mentre il 33% ha superato i 50 anni. Segnale chiaro di come il lavoro instabile sia ormai prerogativa di adulti e famiglie. Per questo le donne – superati i trent'anni – abbandonano e scelgono l'accudimento dei figli: «sono prevalentemente nella fascia under 39 e scompaiono dopo, complici le minori protezioni sociali e contrattuali» è sottolineato nel report.

C'è poi il capitolo professionisti, ovvero l'esercito di partite Iva. Vere o finte che siano, negli anni di crisi, dal 2007 al 2012, sono aumentate le registrazioni, crescendo da 220 a 290mila, un salto tutto concentrato peraltro sopra i 70 anni (+75%). L'osservazione degli analisti è che potrebbe trattarsi di una conseguenza «dell'aumento degli oneri sul lavoro a progetto e la maggiore convenienza per i datori di lavoro di impiegare professionisti autonomi».

Ma non è da escludere neanche l'effetto delle nuove aliquote del regime dei minimi, con Irpef agevolatissimo al 5% per i redditi sotto il tetto dei 30mila, vera spinta – per molti – ad aprirsi una posizione Iva. Per questo gruppo il reddito medio è un po' un'incognita. Secondo l'Inps si sarebbe ridotto del 23% rispetto al 2012, scendendo da 18 a 15mila. Potrebbe darsi tuttavia che  «l'evidenza sia inficiata dalla provvisorietà dei dati» dell'istituto pensionistico (le dichiarazioni arrivano infatti a più riprese). Secondo l'Associazione venti maggio, sarebbe invece più generoso, attestandosi intorno ai 18mila euro, in lieve aumento sul passato. Fatto sta che neppure a questo stadio si compenserebbero gli aumenti delle aliquote contributive: quella Inps è un salasso del 27% sul reddito. Risultato: a parità di salario, per esempio mille euro, a un dipendente restano 900 euro, a un professionista 500.

Ma tartassare professionisti e collaboratori è ormai prassi e spiragli di miglioramento non ce ne sono: «Non illudiamoci, si può fare poco o niente, gli spazi di manovra sono limitati» ha dichiarato Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro alla Camera alla presentazione dell'indagine. Per questa fetta di lavoratori, che da soli producono 24 miliardi di Pil e versano contributi per 7 miliardi, la pensione potrebbe restare un miraggio, così come maggiori tutele e aumenti reddituali. Quel che è certo nel frattempo è che, secondo De Nicola, il governo non sta andando nella giusta direzione. Non basta agire sul costo del lavoro: le assunzioni diventeranno più appetibili «solo aumentando gradualmente i compensi» per chi è ai margini del mercato. La strada sarà quella segnata finché il costo di un dipendente continuerà a essere più alto: 23mila il salario medio del settore privato, contro i 10mila del contratto a progetto. Quale datore di lavoro sceglierebbe il primo?


Ilaria Mariotti 

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