È arrivato subito dopo gli ultimi dati Istat sulla disoccupazione giovanile di inizio giugno, un 46% che pesa come un macigno, il decreto interministeriale per l'avvio di un programma sperimentale di apprendistato rivolto alle scuole superiori. Un periodo «on the job» come lo chiamano i fautori del provvedimento, che però non sembra piacere a tutti.
Sostenitore del provvedimento è Enzo De Fusco [nella foto sotto], coordinatore scientifico della Fondazione consulenti del lavoro, talmente favorevole all'apprendistato nelle scuole da lanciare la proposta che il provvedimento si applichi non solo agli istituti tecnici ma anche ai licei: «Gli studenti del classico potrebbero essere impiegati in qualche giornale o azienda che faccia cultura» ipotizza. «E dirò di più: la misura renziana, invece che sperimentale, dovrebbe diventare sistematica e obbligatoria come avviene per gli infermieri e le scuole alberghiere, con esiti eccellenti». In realtà, sostiene lui, non è stato inventato nulla di nuovo: «Questo modello era già stato inserito nella legge Biagi del 2003, ma si era incagliato sul coinvolgimento delle regioni, organismi incaricati di redigere il piano formativo e le convenzioni». Insomma la norma c'era, ma come spesso accade a mancare erano i decreti attuativi. L'esecutivo attuale ha dunque solo riesumato un sistema di «alternanza scuola lavoro preesistente, aggiungendo un elemento sostanziale: il paletto delle ore che possono essere dedicate alle due attività, cosa mai avvenuta prima». Ed è proprio sul 35% di ore sottratte allo studio per dedicarle al lavoro che si è scatenata la polemica. «Per l'interazione tra apprendimento in aula ed esperienza di lavoro si potranno utilizzare fino al 35% dell'orario annuale delle lezioni» è scritto sul comunicato diramato all'indomani del decreto. «Per gli istituti tecnici e professionali si tratta, ad esempio, di un massimo di 369 ore su 1.056, ovvero di margini di autonomia nettamente superiori rispetto a quelli di cui le istituzioni scolastiche dispongono solitamente per organizzare la propria offerta formativa», puntualizzano dal ministero.
Secondo De Fusco tutto dipende dalla scarsa propensione degli insegnanti a un sistema così strutturato: «La verità è che togliere ore di aula significa ridurre cattedre ai professori. Se esento uno studente per il 35% delle ore mettendolo nelle aziende, c'è qualcuno che nel frattempo nelle scuole si gira i pollici». Eppure un apprendistato di questo tipo «è uno strumento che consente all'azienda di allevarsi i suoi dipendenti già dal mondo scolastico e universitario», ricetta sicura contro la disoccupazione. «Come si fanno tre ore di inglese, così andrebbero trascorse delle ore in azienda» ragiona De Fusco. E il diritto allo studio non ne viene intaccato? «Il punto non è questo. Tutto sta nel realizzare un sistema coerente di alternanza scuola-lavoro in modo che ogni azienda vada a prendersi i soggetti di cui ha bisogno. Le aziende devono diventare lo sfogo naturale della scuola».
Opposta la visione degli studenti. Danilo Lampis [nella foto in basso], coordinatore nazionale del principale sindacato studentesco italiano, l'Unione degli studenti, si scaglia contro quasi tutti gli aspetti del decreto: «È un'operazione populistica, fatta ad appena due giorni dalle ultime, allarmanti rilevazioni Istat sulla disoccupazione giovanile, e su cui noi – che facciamo parte dei tavoli ministeriali su questi temi – non siamo stati minimamente interpellati». Lampis si dice contrario anche alla filosofia dietro questo tipo di riforma, frutto delle ultime linee di indirizzo dettate dall'Europa per avvicinare il mercato del lavoro e quello delle scuole, a cui l'esecutivo si starebbe semplicemente adeguando: «L'idea è che per risolvere la disoccupazione ci si debba conformare alle esigenze delle imprese, appiattendo la didattica ai loro dettami». E inoltre «questo intervento sull'apprendistato punta a coprire un vuoto legislativo perché di fatto alcune aziende già si comportano così: è il caso di Enel, che sta sottoscrivendo accordi sul territorio per inserire apprendisti al suo interno, con un progetto sperimentale di alternanza scuola-lavoro». E che c'è di male? «Noi non siamo contrari dal punto di vista ideologico a questa visione alla tedesca (il riferimento è al modello duale, ndr)».
Il problema, dice Lampis alla Repubblica degli Stagisti, è che ci sarebbe bisogno di altro: «di investimenti per un miglioramento della didattica e della formazione per esempio, quando il decreto non specifica neppure criteri esatti per la selezione delle aziende e sulla qualifica del tutor che interverrà nel percorso» denuncia. Poche garanzie in sostanza, e in effetti al punto 3 del decreto, dedicato alla tipologia dell'azienda, si parla solo di una generica «affidabilità economica e finanziaria» e di «capacità di accogliere gli apprendisti». Lo stesso per i tutor, al punto 8, per i quali è prevista solamente la modalità di selezione e nulla di più. «È un attacco alla società della conoscenza» prosegue il coordinatore dell'Uds: «Così si lede il diritto allo studio per cui un soggetto non dovrebbe mai essere immesso nel mercato del lavoro al di sotto dei 17 anni e si risponde alle esigenze di un mercato che chiede competenze sempre più basse». Con buona pace degli obiettivi della strategia di Lisbona, «che auspica più laureati per un Paese, come l'Italia, ancora ben al di sotto della media europea». La soluzione, rilancia Lampis, «potrebbe essere quella di incrementare le ore di scuola: con questa riforma si sopprimono fino a 60 giorni di aula, che potrebbero invece essere reintegrati riformulando l'orario scolastico».
Ilaria Mariotti
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