More and better jobs: chimera o possibile traguardo per l’Italia?

Chiara Del Priore

Chiara Del Priore

Scritto il 21 Ago 2014 in Articolo 36

Nuovi processi e nuove contraddizioni. Le trasformazioni del lavoro di Serafino Negrelli, docente di sociologia del lavoro all’università di Milano-Bicocca, è una fotografia delle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro. Un’immagine non particolarmente nitida, ma con un punto fermo importante: il passaggio progressivo dal «saper fare», inteso come abilità soprattutto pratiche, al «saper essere», ossia un insieme di abilità cognitive e creative sempre più importanti per ogni lavoratore. La forte richiesta del mercato del lavoro di spiccate qualità anche relazionali è un fenomeno che però si fonda nel nostro Paese su una serie di paradossi. 

Un sistema che chiede lavoratori maggiormente qualificati rispetto al passato «parla» a un paese con un numero di diplomati e laureati basso rispetto alla media Ocse. Con il risultato che chi è più di altri in possesso del «saper essere» e quindi maggiormente in grado di produrre ricchezza è in Italia in minoranza rispetto ad altri paesi. E anche i pochi che ci sono fanno fatica a inserirsi nelle nostre aziende. L’autore del libro lo spiega chiaramente: «il vero paradosso si rivela nella grande difficoltà dei nostri laureati, che pure sono pochi, a essere assorbiti dalle imprese. È purtroppo il prezzo dei...ritardi del sistema economico e produttivo italiano», dice ad Articolo 36. «Il più basso sviluppo del capitale umano nel nostro paese, ovvero meno laureati e diplomati rispetto alla media dei paesi OCSE e soprattutto ancor meno rispetto ai paesi anglosassoni e del centro-nord Europa, è collegato proprio alla minor presenza in Italia di lavoro non manuale altamente qualificato che è di fatto la categoria maggiormente in grado di sviluppare il saper essere sul lavoro


Qui emerge la maggiore penalizzazione dell’Italia, poiché rispetto a quasi un lavoratore su due che appartiene a tale categoria in quei paesi, da noi se ne registra poco più di uno su tre». Se c’è chi fa fatica a trovare un’occupazione, gli occupati spesso rientrano nel cosiddetto lavoro parasubordinato o «collezionano» contratti temporanei: «L’erosione dei cosiddetti mercati interni del lavoro, ovvero di quelli che garantivano il posto fisso, a tempo pieno e indeterminato, pienamente tutelato dai diritti sindacali e dalla contrattazione collettiva, è cresciuta.

Ciò è avvenuto proprio per effetto di alcuni processi di ristrutturazione economica che hanno provocato una certa "fuga dal diritto del lavoro" soprattutto nelle realtà caratterizzate da una minor capacità di regolazione sociale. Anche da noi sono cresciute quelle forme più instabili e precarie e anche poco produttive di ricchezza, delle false partite Iva o del lavoro autonomo economicamente dipendente, che risultano fuori controllo del diritto del lavoro e che richiederebbero un immediato intervento riformatore», spiega Negrelli. Contratti precari, stipendi spesso da fame e scarse tutele previdenziali non fanno che aumentare l’insoddisfazione del lavoratore: l’obiettivo del more and better jobs delineato dalla strategia di Lisbona sembra lontano. Dov’è la chiave di volta allora? Innanzitutto bisognerebbe a parlare seriamente di qualità del lavoro. Secondo Negrelli «qualsiasi riforma si intenda fare deve mettere al centro della propria strategia questo obiettivo. Tra gli operatori economici, politici e sociali la consapevolezza di tale questione è ancora poco diffusa».

Un esempio da seguire potrebbe essere quello di paesi come la Germania, differenti dal nostro su temi come inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, politiche di welfare e formazione del lavoratore. Un punto, quest’ultimo, dibattuto e regolamentato in Italia sulla carta, ma finora poco attuato, come conclude l’autore del libro: «in Italia è dalla legge Treu del 1997 che è stata introdotta la forma dell’apprendistato alta, ossia percorsi di formazione e lavoro abbinati ai livelli di istruzione più alti e per i lavori più qualificati. Si tratta di una forma ormai sviluppata da tempo non solo in Germania, ma anche in Francia e nel Regno Unito. Sembrava un’ottima idea di politica attiva del lavoro che ci metteva in linea con i paesi più virtuosi. E in effetti lo era e lo è ancora. Ma a oggi ben poche esperienze sono state fatte in tal senso. Eppure la strada giusta resta quella: spostarsi dalle politiche passive del lavoro, che nel nostro paese formano i tre quarti della spesa delle politiche del lavoro, alle politiche attive, ovvero ai servizi per l’impiego, alla formazione e alla riqualificazione, alle quali si destinano le quote più basse rispetto alla stessa media Ue».

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